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Capitolo 1: Il sultanismo.
Lo Stato è solo il capriccio di un singolo individuo.
Karl Marx
Prima di entrare nel merito del regime romeno di Nicolae Ceausescu, cercheremo di definire
per il meglio il concetto di sultanismo, analizzando gli studi di coloro che hanno preso in
considerazione questo tipo di regime.
Il sultanismo è un modello politico autoritario descritto per la prima volta dal sociologo
tedesco Max Weber nel 1922 nell’opera Economia e Società.
La definizione di sultanismo in Max Weber è contenuta nell’analisi dei tipi di potere, in
quanto esso è un particolare tipo di potere “tradizionale” (Weber 1995a). Quest’ultimo è uno
dei tre poteri legittimi, cioè quelli che si distinguono da atti puramente arbitrari volti ad
ottenere obbedienza con il solo utilizzo della forza. Il potere illegittimo è un dominio basato,
quindi, sulla sola forza fisica che non può, di conseguenza, che essere eccezionale e, se si
protrae nel tempo, cercherà comunque di darsi una legittimazione; gli altri due tipi di potere
legittimo sono il potere carismatico e quello razionale (Weber 1995a).
Un potere deve essere definito tradizionale quando la sua legittimità si fonda, e viene
accettata, sulla base di antichi (esistenti da sempre) ordinamenti e poteri di signoria. Il
detentore del potere (o i vari detentori del potere) è determinato in base a regole tradizionali;
ad esso si obbedisce in virtù della dignità personale attribuita dalla tradizione.
Il gruppo di potere, nel caso più semplice, è in primo luogo un gruppo sociale poggiante sulla
totale devozione dei dominati, e determinato dalla comunanza di educazione. Colui che
detiene il potere non è un superiore, ma un signore personale; il suo apparato amministrativo,
in un primo tempo, non è costituito da funzionari ma da servitori personali; i dominati non
sono membri del gruppo, ma sono o consociati tradizionali oppure sudditi. Le relazioni tra
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l’apparato amministrativo e il detentore del potere sono determinate non da doveri oggettivi di
ufficio ma dalla fedeltà personale dei servitori (Weber 1995a).
Il capo tradizionale può anche non avere qualità specifiche di comando, ma ciò nonostante i
sottoposti sono tenuti ad obbedirgli e a riverirlo in quanto egli rappresenta qualcosa di sacro e
inviolabile.
Egli ha anche una notevole capacità militare: “ il principe patrimoniale dipendeva talmente da
questo esercito che i soldati – alla morte del signore, in guerre sfortunate o in casi simili – se
ne andavano semplicemente o anche scioperavano, nominavano o deponevano dinastie, e
dovevano essere sempre riguadagnati al principe mediante donativi o con la promessa di più
alti salari, e potevano rivoltarsi anche contro di lui” (Weber 1995b).
Quindi l’autorità è completamente posseduta da una sola persona ed è legittimata in due modi:
in parte dalla tradizione e in parte dal libero arbitrio del signore, il cui potere di esercitarlo gli
viene comunque attribuito sempre dalla tradizione. Quindi, il signore è legato ai dominati
mediante una comunità di consenso, che esiste indipendentemente dal suo potere militare e
coercitivo, e che poggia sulla convinzione che il potere di signoria esercitato tradizionalmente
sia il diritto legittimo del signore. I sudditi gli devono, quindi, totale obbedienza e i suoi
ordini, quando sono dettati da principi, questi sono “quelli dell’equità etica in senso materiale,
della giustizia o della conformità allo scopo in senso utilitario, non già da principi formali”
come quelli derivanti da un sistema giuridico (Weber 1995b).
Una eventuale resistenza, in questo contesto politico, non avviene contro il sistema ma contro
la persona che detiene il potere che ha superato i confini della tradizione.
La creazione di un apparato amministrativo determina l’inclinazione di qualunque potere
tradizionale in patrimonialismo o sultanismo ed il passaggio dei governati dallo stato di
consociati (in virtù della tradizione) a quello di sudditi: questo tipo di potere è, infatti,
caratterizzato da specifiche relazioni di reverenza di tipo personale, come la referenza filiale e
servile, connesse con l’appartenenza a un gruppo domestico o a un gruppo di signoria
fondiaria, personale o patrimoniale, e motivate su tale base (Weber 1995b).
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Con il sorgere di un apparato amministrativo e militare puramente personale del detentore del
potere, ogni potere tradizionale inclina nel patrimonialismo e, con l’estremo ampliarsi del
potere, nel sultanismo.
Il diritto del signore, finora inteso come diritto preminente del gruppo, si trasforma in diritto
personale, appropriato, in linea di principio, allo stesso modo di qualsiasi oggetto suscettibile
di possesso e quindi, sempre in linea di principio, realizzabile nel suo valore (vendibile,
ipotecabile, ereditabile) come qualsiasi altro bene economico.
All’esterno il potere di tipo patrimoniale e sultanistico si regge su sudditi che sono in realtà
schiavi (spesso marcati a fuoco), coloni o oppressi, oppure, per rendere il più possibile
indissolubile la comunità di interessi di fronte a questi ultimi, su guardie del corpo o su
eserciti patrimoniali.
In forza di questo potere il signore allarga l’ambito dell’arbitrio extratradizionale della grazia
e del favoritismo, a spese del vincolo della tradizione gerontocratica e patriarcale.
Quindi, per potere patrimoniale o sultanistico si intende questo caso specifico di struttura del
potere patriarcale, cioè un potere domestico decentrato per mezzo di imposte fondiarie, ed
eventualmente di inventari ai figli della casa o ad altri dipendenti domestici.
L’accrescimento di continuità e di limitazione, all’inizio soltanto di fatto, dell’arbitrio del
signore nelle relazioni patrimoniali, deriva dall’influenza dell’usanza, anch’essa soltanto di
fatto all’inizio. Ad essa si collega più tardi la potenza santificante della tradizione. Accanto
alle resistenze, ovunque assai forti, contro tutto ciò che non fosse consueto, operano la
disapprovazione delle eventuali innovazioni del signore domestico da parte del suo ambiente,
e il suo timore di fronte alle potenze religiose, che garantiscono dappertutto la tradizione e i
rapporti di reverenza. Infine viene, anche con un peso non trascurabile, la sua fondata paura
che ogni forte scossa al sentimento tradizionale di reverenza, da parte di interventi
immotivati, che possono essere accolti come ingiustificati, nella ripartizione tradizionale dei
diritti e dei doveri, possa ripercuotersi gravemente sui suoi interessi personali, e
particolarmente su quelli economici. Infatti, all’onnipotenza nei confronti del singolo
dipendente si affianca l’impotenza nei confronti della loro totalità. Così si è formato quasi
ovunque un ordinamento giuridicamente labile, ma di fatto assai stabile, che restringe
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l’ambito del libero arbitrio e della grazia del signore a favore di quello vincolato dalla
tradizione.
Il signore può vedersi indotto a trasformare l’ordinamento tradizionale in un ordinamento di
corte o di servizio, secondo il tipo dei moderni regolamenti di lavoro nella fabbrica; soltanto
che queste sono formazioni sociali create razionalmente per scopi razionali, mentre quegli
ordinamenti derivano la loro potenza vincolante proprio dal fatto che essi non si rivolgono a
uno scopo futuro, ma a ciò che già esiste da antica data.
L’ordinamento emanato manca naturalmente di obbligatorietà giuridica per il signore. Però
quando egli, in conseguenza del non trascurabile ambito del suo possesso affidato ai
dipendenti domestici, oppure a causa della posizione notevolmente frammentaria di questo
possesso, oppure per i continui oneri politico – militari, non può che far affidamento sulla
buona volontà di coloro dai quali riceve i suoi introiti, in conseguenza di tale ordinamento può
realizzarsi una formazione giuridica consociativa che produce un forte vincolo di fatto del
signore con coloro che sono alle sue dipendenze. Ogni ordinamento di questo tipo trasforma i
suoi sottoposti da semplici consociati di interessi in consociati giuridici (e poco importa se in
senso tecno – giuridico o meno), ed accresce insieme la loro coscienza della comunanza dei
loro interessi e l’inclinazione e la capacità di farli valere. Sorge così una specifica formazione
di potere rigorosamente vincolata alla tradizione, cioè la signoria fondiaria.
I rapporti patrimoniali di potere, scrive Weber, hanno avuto una straordinaria portata come
fondamento di formazioni politiche. L’Egitto era retto patrimonialmente dal faraone. Lo stato
degli Incas e specialmente lo stato dei Gesuiti nel Paraguay erano formazioni di completa
configurazione servile (Weber 1995b). Ma di regola i possessi del principe, amministrati
direttamente in forma di signoria fondiaria, formavano soltanto una parte del suo ambito di
potenza politica, il quale comprendeva, inoltre, degli altri territori, considerati non come
domini diretti del principe ma soltanto come territori da lui politicamente dominati. Anche la
reale potenza politica dei sultani d’Oriente, dei principi medievali e del signore dell’Estremo
Oriente ha il suo nucleo in questi grandi domini amministrati patrimonialmente. In questi
ultimi casi, la formazione politica nel suo insieme è, di fatto, all’incirca identica ad
un’immensa signoria fondiaria del principe. Soprattutto i regolamenti dell’epoca carolingia e
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gli ordinamenti dei domini imperiali di Roma offrono un’immagine intuitiva
dell’amministrazione di questi domini. La formazione di potere nel Medio Oriente e nel
mondo ellenistico contenevano in enorme quantità parti di territorio la cui popolazione era
considerata come servitù agricola o personale del monarca, ed era amministrata secondo il
tipo dei domini della sua amministrazione domestica.
Quando il principe organizza in linea di principio la sua potenza politica, cioè il suo potere di
applicare la coercizione fisica nei confronti dei dominati a territori e a uomini extra –
patrimoniali, cioè a sudditi politici, simile, sempre in linea di principio, all’esercizio del suo
potere domestico, si parlerà di una formazione statale – patrimoniale.
L’amministrazione patrimoniale si configura in origine sulla base dei bisogni puramente
personali del signore, e particolarmente in base a quelli della sua amministrazione domestica
privata. Il conseguimento di un potere politico e cioè del potere di un signore domestico su
altri capi di famiglia non sottoposti al potere domestico, comporta, quindi, l’inserimento nel
potere domestico di relazioni di potere che sono diverse solo per grado e contenuto, non per
struttura. Quale sia il contenuto del potere domestico è una questione che si decide in base a
condizione molto diverse. Il signore esercita senza limite alcuno sui suoi sottoposti
patrimoniali, come elemento del potere domestico, i due poteri che sono specificamente
politici, e cioè la sovranità militare e il potere giudiziario. Con il crescere della sua posizione
di potenza, il signore tende, con l’usurpazione della giurisdizione, ad acquistare una posizione
di potere sempre più marcata, fino ad un’eguaglianza spesso praticamente completa con il
potere giuridico domestico, che è per principio illimitato.
Una particolare supremazia militare di carattere politico su individui che non siano dipendenti
domestici o, nelle contese tra gruppi parentali, membri della schiatta, si ha nei primi tempi
solo in forma di associazione occasionale per la razzia o per la difesa di questa, e quindi
normalmente con subordinazione ad un duce eletto o sorto ad hoc. La supremazia militare
permanente di un signore politico patrimoniale diventa nello stesso tempo soltanto un potere
di arruolamento, che differisce per grado dal dovere patrimoniale di servizio militare, rispetto
ai dominati politici. La stessa formazione politica amministrata in modo patrimoniale conosce
però come specifico dovere dei dominati nei confronti del signore politico, al pari di un potere
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patrimoniale, differendo da esso soltanto per grado, soprattutto il suo sostentamento
puramente materiale; e ciò inizialmente in corrispondenza all’intermittente agire occasionale
di tipo politico, nella forma di regalie e di sovvenzioni in casi particolari.
Con la crescente continuità e razionalizzazione del potere di signoria politica ciò accade in un
ambito sempre più comprensivo e sempre più omogeneo per gli obblighi patrimoniali, di
modo che nel Medioevo la provenienza delle obbligazioni dal potere politico o da quello
patrimoniale è spesso difficilmente distinguibile. Questo sostentamento del signore si realizza
in forma classica in tutti gli stati di grande estensione dell’antichità che sono fondati su
un’economia naturale; ed allora i bisogni di nutrimento, di vestiario, di armamento o di altro
tipo del signore e della sua corte sono addossati, come forniture in natura, alle singole parti
del territorio di signoria, e la corte, dove essa si stabilisce, deve essere mantenuta dai sudditi.
L’economia comune, che fa calcolo sulle prestazioni e sulle imposte in natura, è la forma
primaria di copertura del fabbisogno delle formazioni politiche patrimoniali. Con la
razionalizzazione delle sue finanze, il patrimonialismo scivola inavvertitamente sulla strada di
un’amministrazione burocratica razionale con un regolato sistema di imposte in denaro.
Mentre l’antica caratteristica della libertà è la mancanza di un regolare dovere di imposte, le
quali provengono soltanto da relazioni patrimoniali e sono caratterizzate dalla volontarietà
delle prestazioni a favore del signore, con il completo svolgimento del potere del signore,
anche i sudditi liberi, cioè non sottoposti al potere patrimoniale del signore, contribuiscono a
sostenere le spese di guerra e della sua rappresentanza mediante prestazioni liturgiche o
imposte.
Quali prestazioni il principe possa pretendere da coloro che sono dominati in modo extra –
patrimoniale, cioè politicamente, dipende dalla sua potenza su di loro, cioè dal prestigio della
sua posizione e dalla capacità del suo apparato; ma è una questione sempre vincolata in larga
misura alla tradizione. Soltanto in circostanze favorevoli egli può osare di esigere prestazioni
insolite e nuove; e ciò specialmente quando egli ha una truppa militare della quale può
disporre indipendentemente dalla buona volontà dei sudditi. Questa truppa militare può
consistere di schiavi dominati patrimonialmente, di individui ricompensati in natura o di
coloni. Già i Faraoni e i monarchi della Mesopotamia, come pure i grandi signori patrimoniali
privati dell’antichità (ad esempio la nobiltà romana) e del Medioevo (i seniores) hanno
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effettivamente utilizzato come truppe personali i loro coloni, e, in Oriente, anche i servi della
gleba marcati a fuoco con marchi di proprietà. I coloni contadini insediati in campagna erano
nondimeno poco adatti a costituire una forza militare stabilmente disponibile. Perciò il
principe patrimoniale ha cercato di regola di appoggiare la propria potenza rispetto ai sudditi
politici su una truppa costituita a tale scopo e pienamente solidale con lui nei suoi interessi.
Questa poteva essere una truppa di schiavi completamente distaccata dall’organizzazione
agricola. E in effetti, dopo la dissoluzione del reclutamento teocratico arabo articolato per
stirpi, il cui fervore religioso aveva recato con sé grandi conquiste, l’impero dei califfi e la
maggior parte dei prodotti del suo crollo si sono appoggiati per secoli su armate di schiavi
acquistati. Gli Abassidi si costituirono con l’acquisto e l’addestramento militare di schiavi
turchi che, essendo di un’altra stirpe, apparivano legati al signore per tutta la loro esistenza e
indipendenti dal reclutamento militare nazionale e dalla sua rilassata disciplina di pace; così
essi si crearono una truppa disciplinata. L’armata di schiavi comperati presupponeva, per
l’acquisto, rilevanti capitali liquidi del principe; inoltre la loro buona volontà dipendeva dal
pagamento del soldo, e quindi dalle entrate del principe (Weber 1995b).
Comunque, un fattore importante del patrimonialismo è il raggiungimento dello stato di
benessere, sorto non sulla base del libero cameratismo di una fedeltà promessa, ma sulla base
della relazione autoritaria tra padri e figli: il padre della patria è, infatti, l’ideale degli stati
patrimoniali (Weber 1995b).
La differenza sostanziale tra patrimonialismo e sultanismo sta nella tradizione, infatti,
patrimoniale deve essere detto ogni potere orientato in primo luogo in senso tradizionale, ma
esercitato in virtù di un assoluto potere personale, mentre sultanistico deve essere detto un
potere patrimoniale che, per il tipo della sua amministrazione, si muove principalmente nella
sfera dell’arbitrio svincolato dalla tradizione. La distinzione è, comunque, del tutto fluida,
infatti, entrambi si differenziano dal patriarcalismo originario per l’esistenza di un apparato
amministrativo personale. Talvolta, comunque, anche la forma sultanistica del
patrimonialismo è in apparenza, invero non in modo reale, completamente vincolata alla
tradizione. Essa però non è razionalizzata in modo oggettivo ma costituisce l’estremo
sviluppo della sfera del libero arbitrio e della grazia del sultano; per questo essa si distingue
nettamente da ogni forma di potere razionale (Weber 1995a).
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Nel patrimonialismo e nella sua forma sultanistica l’amministrazione dell’economia
finanziaria è totalmente irrazionale a causa della “coesistenza da una parte del vincolo
tradizionale nella determinazione del tipo e dell’entità delle fonti di imposte dirette, e
dall’altra della piena libertà – e perciò dell’arbitrio – con cui sono commisurate, per misura e
per specie, le tasse, fissati i contributi, e costituiti i monopoli. Tutti questi elementi sussistono
in ogni caso in linea ideale” (Weber 1995b). L’economia razionale è, quindi, del tutto
ostacolata dal fatto che la tradizione rende difficile l’istituzione di nuovi apparati
amministrativi e soprattutto, particolarmente nel caso sultanistico, perché il governante è
arbitro anche in campo economico.
1.1 Le teorie contemporanee sul sultanismo.
Il concetto di sultanismo delineato da Max Weber all’inizio del ventesimo secolo viene
ripreso e definito da diversi studiosi negli anni successivi e ancora oggi.
Ad esempio, il grande sociologo Talcott Parsons lo definisce un esercizio del potere arbitrario
e capriccioso (Parsons 1947). Jean – Claude Williame, che ha studiato lo sviluppo politico del
Congo durante la sua prima decade da stato indipendente, afferma che i regimi
patrimonialistici e sultanistici sono caratterizzati da tre elementi fondamentali:
l’appropriazione degli uffici pubblici da parte di un’èlite familiare, la frammentazione
territoriale e politica raggiunta attraverso lo sviluppo di relazioni basate su lealtà personali e
primordiali, l’uso personale di eserciti, anche privati o formati da mercenari, come strumenti
per il dominio del capo (Williame 1972) (egli afferma, però, anche che le categorie di potere
weberiane, a suo parere, aiutano poco nella comprensione dei regimi politici africani, per via
del loro sincretismo, della loro concezione “originale” di autorità e per il grande potere di
formazioni militari “illegittime” che mantengono l’ordine in Africa; egli giustifica il fatto di
aver usato le categorie weberiane nei suoi studi sul Congo per enfatizzare il personalismo del
potere che egli prese in considerazione. Questa tesi è, però, opposta a quella di Roth il quale
argomenta sull’utilità dell’utilizzo del termine “patrimoniale” in senso weberiano riferito a
gran parte dell’Africa post – indipendenza, per via della sopravvivenza storica di regimi
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tradizionalisti, come ad esempio l’Etiopia, e per le leaderships fortemente personalistiche che
dominano il continente africano) (Williame 1972; Roth 1968).
Chehabi e Linz, invece, elencano le seguenti caratteristiche che contraddistinguono i regimi
sultanistici: il regime e lo stato si sovrappongono; le norme legal – razionali sono messe da
parte o distorte; nessun serio progetto ideologico viene portato avanti; il leader costruisce un
culto della personalità attorno a se stesso e, in maniera dinastica, spesso passa il potere ai suoi
parenti più stretti; il leader assume un comportamento di “ipocrisia istituzionale”, usando
istituzioni plebiscitarie per mascherare la dittatura sotto una vernice di legittimità popolare; la
cricca al potere taglia ogni rapporto con chi non è al potere e, quindi, ogni legame con la
società civile o con altre ipotetiche coalizioni politiche; il regime abolisce i diritti di proprietà,
concentrandola nelle sue mani attraverso un uso massiccio della corruzione tra i più alti livelli
di governo (Chehabi e Linz 1998).
Per Thompson, invece, che ha preso in considerazione questo tipo di regime studiando le
Filippine di Marcos, la caratteristica principale che contraddistingue uno stato sultanistico è la
mancanza di autonomia istituzionale dal potere personale del sultano, potere caratterizzato da
un mix di favoritismo, corruzione rampante e violenza capricciosa (Thompson 1996).
Eke e Kuzio elencano, invece, come caratteristiche fondamentali di un regime sultanistico
l’estremo patrimonialismo, la fusione tra pubblico e privato, l’assenza di ogni ideologia guida,
di pluralismo politico e di opposizione (Eke – Kuzio 2000).
Il sultanismo può anche essere definito come una forma estrema di patrimonialismo (definito,
a sua volta, come un tipo di regime caratterizzato dalla centralizzazione del potere nelle mani
di un solo individuo che prova a diminuire l’autonomia delle istituzioni che gli devono essere
leali e dipendenti e in cui l’apparato pubblico e quello privato del governante non si
distinguono) in cui sono presenti corruzione diffusa, decisioni del governante arbitrarie e
capricciose e violenza spietata (Hartlyn 1998).
Per Snyder il sultanismo è invece caratterizzato dall’alta personalizzazione del potere e dalla
mancanza di ideologia (Snyder 1992).
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Ma gli studi più completi sul fenomeno sultanistico, e dei regimi contemporanei non
democratici in generale, sono, probabilmente, quelli di Linz e Stepan. I due autori, nei loro
studi sui processi di democratizzazione, suddividono i regimi non democratici in quattro
diversi idealtipi: autoritarismo, totalitarismo, post – totalitarismo e sultanismo. Essi si
distinguono per livelli e tipi differenti di pluralismo, ideologia, mobilitazione e leadership. “
Un grande numero di sistemi politici, come Haiti con i Duvalier, la Repubblica Dominicana
con Trujillo, la Repubblica centroafricana con Bokassa, le Filippine con Marcos, l’Iran con lo
Scià, la Romania con Ceausescu e la Corea del Nord con Kim Il Sung, ha avuto forti tendenze
verso una forma estrema di patrimonialismo che Weber ha chiamato sultanismo” (Linz e
Stepan 2000).
Si tratta di regimi, come abbiamo visto dalle definizioni prese in esame al’inizio del
paragrafo, basati sul potere personale e carismatico del capo, le cui decisioni arbitrarie non
sono limitate da norme o giustificate su base ideologica e, spesso, hanno finalità
particolaristiche e privatistiche (Goodwin 1994, Foran 1997). Questi regimi si sviluppano
attraverso strutture sociopolitiche paternalistiche e clientelari. Essi possono essere più o meno
stabili: quelli che riescono ad aggregare la maggior parte dei settori della società attraverso
reti di frequentazione sono più stabili perché possono facilmente evitare la nascita di
qualunque opposizione (Chehabi e Linz 1998). Il sultanismo ha, in ogni caso, una serie che
vantaggi che possono contribuire alla sua longevità (Brownlee 2002): la smobilitazione
dell’opposizione (tipica, comunque, di tutti i regimi non democratici) e la costruzione della
lealtà al sultano attraverso favoritismi; il sultanismo è anche particolarmente resistente alle
riforme democratiche grazie al suo potentissimo apparato repressivo (Bratton – van de Walle
1997). Questo potere coercitivo, assicurato dal controllo della polizia e dell’esercito, ha, di
conseguenza, un ruolo determinante. La grandissima importanza che il terrore e la coercizione
hanno nei regimi sultanistici è considerata, da alcuni autori, una sorta di “paradosso del
sultanismo”, in quanto, nonostante il regime è basato sul fatto che il potere sia completamente
nelle mani di un solo individuo, questi, per mantenerlo, ha bisogno di istituzioni formate da
un altissimo numero di individui, che, a loro volta, devono poter esercitare un grande potere
contro la popolazione; aumentando la forza del sultano deve aumentare, di conseguenza,
anche quella dei suoi apparati di polizia (Deutsch 1953).
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Nonostante il termine possa ingannare “ Weber non riteneva che il […] sultanismo implicasse
pretese religiose all’obbedienza. Infatti, durante il potere ottomano, il governante aveva due
uffici e titoli distinti: il titolo di sultano e di califfo. Inizialmente, il governante ottomano era
un sultano, e solamente dopo la conquista di Damasco assunse il titolo di califfo, che
implicava anche l’assunzione di un’autorità religiosa. Dopo la sconfitta della Turchia nella
prima guerra mondiale e la proclamazione della repubblica, l’ex governante perse il titolo di
sultano, ma mantenne il titolo religioso di califfo fino a quando in un secondo momento
Ataturk lo costrinse ad abbandonare anche quel titolo. In sostanza, le dimensioni secolari e
religiose dell’autorità erano concettualmente e storicamente distinte. Inoltre, il termine sultano
non dovrebbe essere analiticamente legato al Medio Oriente [anche se Hisham Sharabi ha
affermato che ciò che noi chiamiamo neopatrimonialismo caratterizza il modo di governare
degli uomini politici arabi; gli stati neopatrimonialistici e le loro forme e strutture politico –
legali sono, da molti punti di vista, niente di più che una versione moderna del sultanato
patriarcale tradizionale ( Sharabi 1988). Altri autori non condividono questa tesi: ad esempio
Michael Hudson riguardo le monarchie del Medio Oriente dice che queste sono
particolarmente vulnerabili alla modernizzazione, nonostante il fatto che i loro valori
legittimanti siano essenzialmente le radici religiose e i costumi tradizionali. Queste monarchie
non sono, quindi, completamente tradizionali come non sono conformi al patriarcalismo
classico medio – orientale ma sono, invece, regimi divisi tra valori tradizionali e modernità.
Le dinamiche della civilizzazione islamica si sviluppano nella forma di un modello
relativamente semplice in costante tensione tra un’utopia primordiale islamista e una realtà
storica modernista (Hudson 1977)]. […] Ci sono governanti sultanistici in Africa e nei
Caraibi, oltre che in Medio Oriente. Vorremmo invece che il termine sultanistico connotasse
un generico stile di dominazione e potere all’interno del regime che è, nelle parole di Weber,
una forma estrema di patrimonialismo” (Linz e Stepan 2000).
Nel sultanismo c’è una fusione tra pubblico e privato, il potere è amministrato più che dal
capo dalla sua famiglia, essendoci membri di questa al vertice della gran parte delle istituzioni
burocratiche. I membri esterni alla famiglia del leader, per avere successo politico ed
economico, devono dimostrargli obbedienza incondizionata. Il governante agisce in modo
esclusivamente discrezionale e incontrollato, quindi senza alcun vincolo e senza dover tener
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conto di regole o della dedizione a un’ideologia o a un sistema di valori: egli personalizza il
governo e il regime stesso e, in modo non istituzionalizzato ma pervasivo – benché irregolare
– permea lo stato, la società politica e la società civile. Le politiche non si basano su nessuna
procedura di routine (Chehabi e Linz 1998).
Ad essere uniti non sono soltanto pubblico e privato, bensì anche i settori civile e militare
(quest’unione porta spesso alla formazione di eserciti non professionali). Teoricamente,
risulta difficile classificare il governo sultanistico come un regime guidato da civili o da
militari.
Nei sistemi contemporanei, l’idealtipo sultanistico è ben diverso da quello delineato da
Weber, perché, oggi, i regimi fondati sul potere personale di un capo nei quali la fedeltà nei
suoi confronti si regge solo sulla tradizione, sul fatto che egli incarna un’ideologia, una
particolare missione personale o sulle sue qualità carismatiche, sono ben pochi. Altro fattore
importante di distinzione è che difficilmente i regimi sultanistici contemporanei sono ereditari
(Bratton – Van der Walle 1994). Ciò che legittima l’indiscusso ed assoluto potere del capo è,
soprattutto, una combinazione di paura e ricompense per i suoi collaboratori (Foster 1963).
Le riunioni non ufficiali sono una parte fondamentale della politica del regime; decisioni
fondamentali vengono spesso prese durante il pranzo del governante con i suoi più stretti
collaboratori, che egli spesso conosce da decenni, cioè da prima della sua presa del potere. Ma
ciò nonostante egli, adesso, impaurisce anche i suoi compagni più vicini, che non sono altro
che dei consiglieri, visto che le decisioni spettano tutte al sultano (Roth 1968).
Le poche norme che regolano l’amministrazione burocratica possono, e vengono, sovvertite
da decisioni personali ed arbitrarie dell’autocrate senza alcuna giustificazione in termini
ideologici o di altra specie. La burocrazia e l’organizzazione del potere dei moderni regimi
sultanistici sono, sotto molti aspetti, simili a quelle del patrimonialismo tradizionale
weberiano, ma, l’assenza di vincoli derivanti dalla tradizione, li distingue nettamente. I
dipendenti, soprattutto quelli più a stretto contatto con il detentore del potere, in questo tipo di
regime, sono, in ampia misura, uomini scelti dal sultano. Essi sono, spesso, “individui che
non godrebbero di alcuna stima o prestigio nella società, ma il cui potere deriva direttamente
da quello dell’autocrate. Molto spesso tra di essi si annoverano membri della famiglia del
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despota, amici, tirapiedi, soci in affari e uomini direttamente implicati nell’uso della violenza
per sostenere il regime. Nel sistema l’esercito e la polizia rivestono un ruolo importante, ma
gli omicidi, le aggressioni e le vessazioni agli avversari politici vengono normalmente
eseguite privatamente con la connivenza del despota ma senza fare ricorso ai tribunali o alla
polizia” (Linz 2006). L’uso massiccio del terrore è determinante nei regimi sultanistici come
in quelli totalitari. Sussistono però delle profonde differenze tra i due idealtipi: non solo le
azioni del governante sultanistico non sono giustificate ideologicamente, ma non c’è nessun
interesse a mobilitare la popolazione in un partito di massa.
L’intero paese non è altro che un enorme possedimento personale del leader e della sua
famiglia. Come già sottolineato “il sostegno non si fonda sulla coincidenza di interessi tra il
governante e gruppi sociali privilegiati preesistenti, bensì sugli interessi creati dal suo
dominio, sulle ricompense che egli offre in cambio della lealtà e sulla paura della sua ira.
[Inoltre] il confine tra tesoro pubblico e ricchezze private del despota sono labili. Egli e, con il
suo consenso, i suoi collaboratori attingono liberamente dalle finanze pubbliche, costituiscono
monopoli volti al profitto ed esigono donazioni e pagamenti da parte delle imprese private che
non compaiono nella contabilità pubblica. Le aziende di proprietà del governante ottengono
contratti dallo stato e questi dimostra sovente la propria generosità nei confronti dei suoi
seguaci e dei sudditi in modo particolaristico. Non di rado la famiglia del despota riveste un
ruolo politico preminente, si appropria di fondi pubblici e condivide le spoglie del sistema. È
questa fusione tra pubblico e privato e la mancanza di rispetto per scopi impersonali che
distingue sostanzialmente tali regimi dal totalitarismo”.
L’economia subisce una considerevole interferenza da parte dello stato, non a fini di
pianificazione, bensì semplicemente per ricavarne risorse (Linz 2006). Questi regimi sono,
quindi, strettamente condizionati dalla situazione economica, in quanto, più risorse ha lo stato,
più il sultano può offrire in ricompensa ai suoi collaboratori. La posizione gerarchica dei
funzionari è derivata dal livello di fiducia e sottomissione nei confronti del sultano. “Anche
quando il funzionario civile non è un dipendente personale, il despota esige un’obbedienza
amministrativa incondizionata, giacché la fedeltà del funzionario al proprio ufficio non
rappresenta un impegno impersonale verso i compiti altrettanto impersonali che definiscono il
campo d’azione e il contenuto dell’ufficio stesso, ma piuttosto la fedeltà del servitore fondata