INTRODUZIONE
Ciò che mi ha spinta a cimentarmi nell’elaborato che rappresenta
la conclusione del mio percorso di studi è la bellissima e
formativa esperienza universitaria che ho vissuto durante la
frequenza del corso di procedura penale, insieme alla cattedra del
prof. Paolo De Lalla. Ritengo di essere stata fortunata ad aver
incontrato, nel mio cammino accademico, persone che, oltre a
possedere una profonda passione per ciò che fanno, riescono a
trasmettere a studenti alle prime armi tutto l’amore e l’interesse
verso una materia complessa come il diritto processuale penale;
ma ciò che meraviglia di più è la naturalezza e la semplicità con
cui riescono in questo loro intento. Ebbene, le lezioni che ho
seguito hanno avuto l’effetto di incuriosirmi, di spingermi al
ragionamento, di incrementare sempre più la voglia di
approfondire alcuni argomenti trattati durante le attività
didattiche.
Il lavoro che presento è frutto di una ricerca che ha avuto come
obiettivo l’analisi di uno dei problemi più attuali e mai sopiti che
investono il processo, ovvero il “corretto esercizio dell’azione
penale” ad opera del soggetto cui compete lo svolgimento delle
I
prime indagini in presenza di una qualsivoglia notitia criminis, il
Pubblico ministero.
La prima parte del lavoro è dedicata all’analisi dell’evoluzione
dei principali valori informatori sui quali si è voluto costruire il
nostro attuale modello processuale, influenzato non poco
dall’ideologia sottesa allo specifico momento storico che viene
preso in considerazione; in particolare, passando in rassegna i
meccanismi punitivi susseguitisi nel tempo, partendo dalle prime
rudimentali forme di composizione delle liti, passando per “la
Santa Inquisizione” fino ad arrivare al moderno sistema
accusatorio, mi sono soffermata sulle ripercussioni che le scelte
di politica criminale hanno avuto sulla figura cardine del
processo penale ovvero il magistrato incaricato della funzione
inquirente che rappresenta tutt’oggi il perno principale,
l’ingranaggio fondamentale attorno al quale ruota l’intero
funzionamento della macchina processuale. Ho posto l’attenzione
sullo studio del “modello processuale” costruito dal legislatore
del 1930, quello che si suole indicare con il termine “sistema
inquisitorio”, caratterizzato da un’istruttoria segreta e crudele
nell’ambito del quale non vi era ancora la figura del Pm ma
quella, certamente meno garantista, del “giudice istruttore”,
II
soggetto per lo più corrotto che oltre a “giudicare” si
preoccupava personalmente di raccogliere le prove per incastrare
l’inquisito; ebbene, nel mio lavoro ho cercato di operare un
continuo confronto con quello che è invece l’attuale modello
processuale - caratterizzato da una spiccata aspirazione
accusatoria ed in linea con gli innovativi principi emersi a
seguito della codificazione Costituzionale del 1948 - cercando di
cogliere le principali innovazioni, strutturali e sostanziali, che lo
distinguono dalle passate esperienze.
Il cuore del lavoro è rappresentato dal fondamentale principio di
obbligatorietà dell’azione penale con tutte le implicazioni che
esso comporta, cristallizzato all’art. 112 della Costituzione e
oggetto di svariate e spesso contrastanti interpretazioni della
dottrina e della più autorevole giurisprudenza; precetto che rende
il Pubblico ministero dominus dell’intera fase investigativa e
titolare indiscusso dell’importante potere propulsivo dell’azione
penale. Ho tentato, grazie agli insegnamenti dei miei maestri e ad
un lavoro di ricerca delle fonti più accreditate che si sono
pronunciate sull’argomento, di rielaborare quella che è la corretta
esegesi della norma, confrontando e fondendo i relativi risultati
con le pronunce del nostro Giudice delle Leggi; è stata infatti
III
proprio la Corte Costituzionale a chiarire l’esatta portata dell’
“obbligatorietà” formulando l’altrettanto indispensabile principio
di “non superfluità del processo”.
Mi sono concentrata sul concetto di “completezza” delle
indagini, sulle modalità d’azione del magistrato inquirente, sui
suoi doveri e sui suoi oneri ai fini del corretto esercizio
dell’azione penale, anche alla luce delle novità introdotte dalla
Legge Carotti nel 1999. Ho ripercorso le tappe dell’intera strada
che il Pm è tenuto a compiere partendo dalle prime battute del
procedimento fino a quando gli si presenta da risolvere
l’alternativa azione-inazione, soffermandomi in particolare sul
dovere di “obiettività” e sull’onere di risultato che la legge gli
impone.
Appassionatami ad un’ affascinante lettura, ho deciso di dedicare
un breve spazio al profilo comparatistico; l’idea è stata quella di
mettere a confronto il “nostro” principio di obbligatorietà con le
scelte effettuate in altri sistemi giuridici concentrando
l’attenzione in Germania, negli ordinamenti di Common Law, ed
in Francia dove vige, in totale opposizione al nostro ordinamento,
un dichiarato principio di “discrezionalità dell’azione penale”.
IV
Nel terzo capitolo ho voluto passare in rassegna i principali attori
del palcoscenico investigativo, ovvero i soggetti attivi della fase
antecedente al processo approfondendo il ruolo della “pubblica
accusa” nel rinnovato modello processuale, ripercorrendo le
tappe che hanno scandito l’evolversi di questa importante figura
e non tralasciando né il ruolo della polizia giudiziaria, valido
supporto investigativo al servizio del magistrato inquirente, né
l’importanza assunta dal difensore che, grazie alla possibilità
riconosciutagli di compiere, per suo conto, investigazioni
difensive, contribuisce non poco ad arricchire e completare la
ricerca del Pm.
Infine ho ritenuto doveroso analizzare le forme di controllo
previste dal legislatore per monitorare e vigilare sulla
“correttezza delle determinazioni del Pm in ordine all’esercizio
dell’azione penale”. Ho strutturato l’ultima parte dell’elaborato
distinguendo le forme di controllo preventivo, cioè quelle che
vengono attuate prima che l’azione penale venga esercitata, da
quelle successive, ovvero quelle predisposte nell’ambito
dell’udienza preliminare, quindi a “processo iniziato”; ho quindi
analizzato e approfondito i poteri del Giudice per le indagini
preliminari inerenti all’archiviazione e quelli del Giudice
V
dell’udienza preliminare - ampliatisi a seguito della succitata
legge Carotti, con l’introduzione dell’art. 421bis cpp e la
modifica dell’art. 422 cpp - relativi all’ordinanza di integrazione
delle indagini ed all’ordinanza di integrazione probatoria.
Ecco, anche se certamente il mio lavoro non può considerarsi un
punto d’approdo per chi si interessa dell’argomento, potrebbe
essere uno spunto di riflessione circa la reale concretizzazione
del principio in esame; non a caso e senza entrare nel merito,
dall’analisi del nostro sistema di giustizia penale emergono
molteplici attenuazioni, fisiologiche e non, della tanto osannata
“obbligatorietà”.
VI
CAPITOLO 1 – IL PROCESSO PENALE TRA
INQUISIZIONE E “GIUSTO PROCESSO”.
1.1 – Le prime forme di composizione delle liti. Dalla
vendetta privata ai riti ordalici.
La tradizione germanica ci mostra come ,alle origini, l’unica vera
forma (seppur rudimentale) di risoluzione dei conflitti fosse la
vendetta privata.
La logica dello scambio vendicatorio imponeva che per la
soddisfazione della vittima e per la riaffermazione del legame
familiare bisognasse ricambiare inevitabilmente il sangue con il
sangue, ripagare con la stessa moneta colui dal quale si fosse
subiti un offesa.
La caratteristica del popolo germanico era l’identificarsi in un
insieme di uomini liberi e uguali, e forse era per questo motivo
che i concetti di “pena” o di “indagine giudiziaria”(comparsi per
la prima volta tra il VI e il VII secolo) venivano considerati
inconcepibili dal momento che avrebbero comportato,almeno
all’epoca, una asimmetria delle parti in giudizio.
7
Si registravano, intorno al X secolo, immense difficoltà nel
campo dell’amministrazione della giustizia: i privati cittadini,
vittime o colpevoli, erano poco inclini all’obbligo di comparire di
fronte ad un “autorità superiore” e soprattutto non riuscivano ad
accettare l’idea di dover conformarsi alle prescrizioni di una
sentenza; i poteri territoriali dovettero dunque sforzarsi di cercare
soluzioni adeguate per evitare questo stato di cose: introdurre
sanzioni severe fu il passo inevitabile che bisognò compiere. Ben
presto sorsero le prime imposizioni dall’alto: si ebbe la
trasformazione della vendetta nel versamento,a favore della
famiglia della vittima,di una somma di denaro ,l’ammontare della
quale variava a seconda della gravità del reato commesso: fu
creato un vero e proprio “tariffario” dal quale si desumeva
limpidamente la stratificazione della società; si trattò, tuttavia, di
una pratica tanto “innovativa” quanto difficilmente praticabile
soprattutto a causa delle persistenti inimicizie tra le famiglie che
propendevano sempre per la spontanea e privata composizione
delle liti. Fu in questo contesto che nacque quello che può dirsi il
primo vero e proprio “giudizio”: quello ordalico o rito “del
duello”,un giudizio ritualistico,pubblico nel quale per la prima
volta le parti comparivano di fronte ad un giudice ,esponevano le
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proprie ragioni corredate da elementi di prova ,spesso prestavano
giuramento per rafforzare la propria posizione, un giudizio orale
che si concludeva con l’emanazione di una “solenne sentenza di
duello” con la quale il giudice decideva la prova alla quale
dovevano sottoporsi le parti. La logica di questa pratica era
attribuire alla vittoria del duello il significato di “pronuncia
divina favorevole alla parte”. L’ordalia di solito consisteva in
prove relazionate col fuoco,ad esempio introdurre le mani in
1
focolai accesi o afferrare metalli incandescenti; a volte gli
accusati venivano costretti a rimanere a lungo sott’acqua o
immersi in acqua bollente ,dei veri e propri “giochi di morte”
insomma! Se le persone uscivano vive da questi “duelli” oppure
non eccessivamente ferite allora veniva dedotto che Dio le
considerava innocenti e che non era necessario né doveroso
attribuir loro alcun castigo aggiuntivo.
1.2 – L’introduzione dell’uguaglianza nella vendetta privata:
Hammurabi e il “taglione”.
1
Per una rassegna approfondita sul giudizio ordalico,sullo svolgimento
delle imprese mortali e sulla casistica dei duelli si veda GIORGIA
ALESSI;il processo penale,profilo storico,Laterza 2001 pag 10 e ss.
9
Hammurabi governò a Babilonia tra il 1792 e il 1750 a.C. Sotto il
suo regno vide la luce una delle prime raccolte di leggi
conosciute dalla storia dell’umanità, ma soprattutto una delle
prime raccolte di leggi che ci è pervenuta quasi per intero: 282
sentenze scolpite su una stele di diorite (una roccia molto
resistente) rinvenuta durante una campagna di scavi francese
nella città di Susa sul finire dell’Ottocento, ed oggi conservata
nel museo del Louvre a Parigi. Qualcuno l’ha definito un vero e
proprio “codice” anche se presenta la struttura di un opera
letteraria:è composto da un prologo ed un epilogo (scritti in una
lingua molto colta,accessibile solo ai sapienti) tra cui si
inseriscono le disposizioni normative (scritte in una lingua
comune, semplificata affinchè tutti potessero comprendere la
reale portata dei precetti). Un testo dall’alto valore simbolico,
grazie al quale è possibile ricostruire la situazione socio-
economica del regno di Hammurabi, analizzare e studiare non
soltanto gli aspetti più pertinenti al ramo della giustizia ma anche
quelli inerenti alla gestione della vita pubblica in generale, ai
2
rapporti commerciali, familiari e culturali.
1 Va precisato che nella realtà l’opera di Hammurabi deve essere
considerata un “modello letterario” . Ne sono prova, oltre alle infedeli
riproduzioni in argilla rinvenute in Mesopotamia, le enunciazioni contenute
10
Il carattere “pubblico” del testo era ciò che lo rendeva
innovativo: per la prima volta un corpus organico di regole
comportamentali era accessibile a tutti : un cittadino babilonese
poteva finalmente regolare la propria condotta in base a delle
chiare regole legali pubblicamente consultabili, poteva scegliere
liberamente di agire in un determinato modo piuttosto che in un
altro, poteva avere piena conoscenza dei comportamenti vietati e
delle relative sanzioni. Fu proprio da quel momento che per la
prima volta si sentì parlare di “conoscibilità delle leggi” e di
3
“presunzione di conoscenza delle leggi”, principi che
in molti testi economici risalenti alla stessa epoca i quali testimoniano che
l’applicazione dei prezzi di vendita o di affitto erano differenti rispetto a
quelli realmente applicati. Così Paolo De Lalla; lezione del 20/04/2009.
Corso di procedura penale. Facoltà di giurisprudenza. Università degli studi
di Napoli FedericoII.
3
In Italia il principio della presunzione di conoscenza delle legge ,meglio
conosciuto come “ignorantia legis non excusat”, si trova codificato all’art 5
c.p. Si tratta di una “presunzione assoluta” :nessuno potrebbe mai
giustificarsi di fronte ad un giudice dichiarando di non aver avuto
conoscenza della legge di cui gli venga contestata la violazione, né alcuno
potrà mai essere ammesso a fornire la prova della reale ed effettiva
ignoranza di qualsivoglia disposizione normativa. Il rigore di tale principio è
stato ridimensionato da una storica sentenza additiva della Corte
costituzionale (364/1988) la quale ha dichiarato la parziale incostituzionalità
della norma di cui all’art. 5 nella parte in cui non prevedeva la scusabilità
dell’ignoranza inevitabile”. L’attuale disposizione è così formulata
:”l’ignoranza della legge penale non scusa tranne che si tratti di ignoranza
inevitabile”. Il carattere “inevitabile” dell’ignorantia legis potrebbe essere
per esempio desunto da un eccessiva complessità o contraddittorietà delle
norme. Così FIORE C. – FIORE S..; diritto penale: parte generale. UTET
giuridica. Torino,2008.
E’ bene ricordare che, con un'altra nota sentenza (5361/1984), il giudice
delle leggi ha stabilito che “l’errore nell’interpretazione della legge può,
eccezionalmente, essere scusato laddove sia riconducibile ad una oggettiva
11
attualmente rappresentano il presupposto fondamentale per
l’attivarsi di qualsiasi sistema punitivo.
Il codice si fonda in massima parte sulla famosissima Legge del
Taglione, meglio conosciuta con la formula “occhio per occhio,
4
dente per dente” , formula che descrive chiaramente il
meccanismo sanzionatorio che veniva adoperato: nella maggior
parte dei casi infatti, la pena prevista era identica al reato che era
stato commesso: l’omicidio veniva punito con la morte; se la
vittima avesse avuto figli la pena per l’assassino era l’uccisione
della sua prole; per l’omicidio di un servo era prevista come
sanzione il pagamento di un’ammenda (di un ammontare pari al
prezzo dello schiavo ucciso). Astrattamente si potrebbe pensare
ad un tentativo di introdurre il principio di uguaglianza nella
vendetta privata, ad un sistema che mirava a porre le basi di una,
seppur primitiva, democratizzazione della società : lo scopo era
quello di evitare il ricorso alla “giustizia fai da te” , cercare di
oscurità della norma violata (attestata anche da persistenti contrasti
interpretativi)”.
4
La Lex Talionis ha origini bibliche, era nota già nel mondo giudaico-
cristiano infatti la relativa locuzione “occhio per occhio,dente per dente”
deriva proprio da un versetto della Bibbia. Il principio non era sconosciuto
nemmeno alla tradizione romana, fu infatti codificato nella famosa legge
delle XII tavole (risalente al periodo arcaico) a proposito della sanzione da
infliggere a colui che avesse procurato lesioni personali ad un altro uomo:
“si membrum rupsit, ni cum eo pacit,talio esto”.
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attuare un azione pubblica volta a reprimere i reati più gravi , fare
in modo che i privati smettessero di attuare forme efferate di
vendetta e scegliessero l’alternativa della mediazione.
E’ pur vero che ai nostri occhi un tale corpus normativo potrebbe
sembrare ingiusto, oltre che contrario al comune senso di
giustizia, tuttavia è innegabile che rappresenti un enorme passo
avanti verso l’abbandono di forme orali e mnemoniche di
composizione delle liti e verso l’affermarsi di forme sempre più
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definite di giurisdizione.
1.3 – L’esperienza greco – romana e medioevale.
Nel mondo antico, in particolare all’epoca della democrazia
greca nonché a Roma, emblematiche vengono considerate quelle
esperienze dalle quali emerge l’attuazione di un azione pubblica
volta a verificare la correttezza ed il legittimo agire delle autorità.
6
A riguardo ci fu uno studioso che nel 2002 avviò una profonda
riflessione sul giudizio di “costituzionalità” delle leggi a Roma,
uno studio che si ritiene possa essere senza dubbio riferito e
5
VASCO FRONZONI; obbligatorietà dell’azione penale e cooperazione
giudiziaria internazionale , E.S.I. Napoli 2010.
6
Lo studioso di cui trattasi è Gaetano Mancuso.
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7
trasposto anche all’esperienza della polis ateniese. Va precisato
che non bisogna stupirsi se nella maggior parte delle opere datate
,che trattano tale argomento, il termine “controllo o giudizio di
costituzionalità” si rinviene sempre virgolettato! Questo perché
si sa che nel periodo considerato né Roma né Atene erano dotate
di una Carta Costituzionale, perciò tali termini vanno considerati
in un accezione diversa rispetto a quella che attualmente
immaginiamo, vanno prontamente contestualizzati e considerati
tenendo conto degli aspetti caratterizzanti tali civiltà.
Nel V sec. la competenza ad emanare atti normativi era attribuita
all’ ekklesia. Il popolo era sovrano ed il suo volere si
concretizzava tramite l’opera dell’assemblea e dei tribunali
(come emerge dagli scritti di Aristotele). La legge veniva
indicata con due termini alternativi : nomos e psèphisma la cui
differenza è ancora molto discussa tra gli studiosi moderni. In
quel periodo qualsiasi cittadino ateniese che si riteneva
danneggiato da un provvedimento delle autorità (in campo non
solo penale ma anche civile) poteva chiedere giustizia
7
Sul punto si veda anche FRANCESCA REDUZZI MEROLA, il giudizio
di costituzionalità nell’esperienza greco-romana, pubblicato su
www.unipa.it sotto la voce annali 2007.
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8
direttamente al tribunale popolare: dikàsterion , presentando
una graphè paranomon ovvero un accusa di illegalità oppure una
graphè nomon me epitedeion theinai ovvero un azione pubblica
per aver fatto votare o per aver proposto una legge sconveniente.
Entrambe queste azioni avevano come fine ultimo
l’annullamento della deliberazione e la punizione di colui che
l’aveva proposta. Quindi in ambito processualpenalistico un
accusato, nel momento in cui si difendeva, andava non solo a
contestare il fatto che gli veniva imputato ma anche la legge
vigente, la quale veniva sottoposta ad un incisivo controllo di
costituzionalità. L’obiettivo era verificare la conformità della
norma incriminata rispetto alle grandi leggi costituzionali
(nòmoi).
Caratteristica preponderante,che accomuna l’esperienza greca e
quella romana, era l’attivarsi dell’autorità sulla base della
richiesta del “danneggiato”, era il soggetto privato che chiedeva
8
La composizione di tale tribunale non offriva certamente le garanzie
minime che ci aspetteremmo da un “organo di giustizia”, infatti i soggetti
che ne facevano parte spesso e volentieri non erano dotati di alcuna
preparazione giuridica o conoscenza settoriale delle materie sulle quali
andavano poi a deliberare. Il tribunale era composto da cittadini (per la
maggior parte anziani) che di mattina si mettevano in fila di fronte
all’edificio per attendere il sorteggio! Questo era il meccanismo: si
sceglievano a caso dei soggetti fino a quando non si fosse raggiunto il
numero minimo per poter procedere. Si veda ALESSI G.; processo penale
(diritto intermedio) in Enciclopedia del diritto vol. XXXVI.
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