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Fernando Cancedda
Fernando Cancedda (Cagliari, 8 Maggio 1936) è un giornalista italiano.
Figlio di genitori sardi e primo di cinque fratelli, trascorre
l'infanzia a Firenze, dove abitava la nonna materna. Il padre,
funzionario statale, voleva fare di lui un magistrato. Fernando
invece, nonostante la laurea in Giurisprudenza, era aspirante
giornalista già dal liceo classico, dove scriveva, ciclostilava e
distribuiva il giornalino scolastico. La sua prima “vera” redazione
è stata, nel 1962, quella de “Il Giornale del Mattino”. Era la
stagione di una Firenze culturalmente vivace e cosmopolita, del
sindaco La Pira e di don Lorenzo Milani. Scriveva per “Testimonianze”, una delle riviste del
“dissenso” cattolico. Un anno dopo, con una sposa appena laureata in Lettere e una figlia di
poche settimane, viene assunto con selezione pubblica dal telegiornale Rai, l’unico allora in
Italia, con direttore Fabiano Fabiani. A trent'anni entra nella redazione del mitico Tv7, il
sogno di ogni giovane giornalista. Nel 1969 riceve la nomina a “inviato speciale”, secondo e
ultimo gradino della sua carriera professionale. Nel 1976 accetta con entusiasmo l’invito di
Andrea Barbato a entrare nella prima redazione del Tg2. Pochi anni dopo, con l’avanzata
implacabile della lottizzazione, Barbato viene costretto ad andarsene e l’entusiasmo
comincia a venir meno. Chi non aveva “santi in parlamento” poteva affermarsi solo se molto
disponibile, e Cancedda non lo è. Al contrario, si impegna nel comitato di redazione,
nell’Usigrai, e si espone nelle assemblee. Riesce a salvarsi professionalmente lavorando
nelle rubriche e nei servizi speciali, occupandosi spesso e con soddisfazione di cronaca, di
cultura, di costume e di religione. “Finché al Tg2 sopravvisse dignitosamente il giornalismo
26
d’inchiesta, ci fu ancora modo di divertirsi, o almeno di lavorare con serietà”. Nel '96,
sotto la direzione di Mimun, sceglie lo “scivolo” e la pensione anticipata.
Da allora continua a fare il giornalista, soprattutto su Internet, ma a titolo gratuito e
volontario, e lo stesso vale per il servizio che ha sempre reso ai colleghi negli organismi
della categoria (ordine e sindacato).
E’ dal 1994 che aspetta l’“Ulivo”. Nel 2008 decide per la prima volta a entrare in un partito
per aiutarlo a diventare davvero “nuovo”.
25
Fonte: www.nandokan.it
26
Ibidem
27
Intervista a Fernando Cancedda
Mi parli degli esordi della trasmissione. Quando è cominciato il programma?
La prima rubrica di approfondimento del telegiornale unico apparve nel 1962, quasi
cinquant'anni fa: RT - Rotocalco televisivo, a cura di Enzo Biagi, che dirigeva allora anche
l'unico telegiornale della Rai e di tutta l'Italia. Ne andarono in onda soltanto nove numeri.
L'anno dopo, il 20 gennaio 1963, nasceva Tv7, settimanale televisivo, con una serie di
servizi filmati (e veramente filmati, si girava ancora con la cinepresa in bianco e nero e i
cineoperatori venivano quasi tutti dal cinema), il primo dei quali era intitolato “La casa del
presidente”, dedicato alla vita privata del Capo dello Stato Antonio Segni. Io in quell'anno
avevo cominciato da poco a fare il giornalista della carta stampata, assunto come praticante
da un quotidiano fiorentino. Cronista di “nera” prima, cronista di “bianca” e di “giudiziaria”
poi. Direttore di quel quotidiano era stato fino a qualche anno prima della mia assunzione
Ettore Bernabei, lo stesso giornalista che era diventato da poco direttore generale della
democristianissima monopolistica Radiotelevisione italiana. Con i miei servizi sulla vita
politica e culturale fiorentina che con il sindaco Giorgio La Pira era spesso al centro
dell'attenzione nazionale e anche mondiale - ma su questo ci vorrebbe un saggio a parte -, io
già cercavo di mettermi in luce con la speranza di realizzare il mio sogno di giornalista
televisivo. Nel 1966, dopo una delle poche selezioni pubbliche promosse dalla Rai, venni
assunto al telegiornale, e nell'autunno dello stesso anno, dopo una breve permanenza al
notiziario, feci il mio primo ingresso nello stanzone di Tv7. Direttore del telegiornale e del
settimanale era Fabiano Fabiani, il caporedattore Brando Giordani, il capo servizio Emilio
Ravel. Fra i redattori e collaboratori della testata avevo ogni giorno accanto a me colleghi di
valore come Andrea Barbato, Furio Colombo, Arrigo Levi, Piero Angela, Raniero La Valle,
Piero Pratesi, Sergio Valentini, Alberto Ronchey, Ugo Gregoretti, Peppino Fiori, Gianni
Bisiach, Angelo Campanella, Carlo Mazzarella, Nino Criscenti, Emilio Fede, Manuela
Cadringher, Ennio Mastrostefano, Roberto Morrione, Mario Pogliotti ecc., tanto per citare
alcuni che frequentavano quello stanzone. Il privilegio di crescere professionalmente nella
più seguita redazione giornalistica italiana - andavamo in onda il lunedì in prima serata con
un pubblico di oltre sei milioni di telespettatori e ogni settimana i nostri servizi erano
recensiti dai maggiori quotidiani del Paese - mi farà comprendere in seguito quanto abbia
importanza la “scuola” nel nostro mestiere, ma su questo tornerò in seguito. Dai 6,2 milioni
del 1967 - e 76 di gradimento, un indice questo che sarebbe ancora utilissimo per valutare i
27
Luglio 2010
programmi ma che da decenni non viene pubblicato -, Tv7 passa a 8,7 milioni di ascolto e 76
di gradimento nel 1968, a una media di 11 milioni e 78 di gradimento nel 1969, a 11,4
milioni e 77 di gradimento nel 1970. L'ultimo anno di vita di Tv7 è il 1971, solo 28 puntate
con una media di 11,8 milioni di spettatori e 76 di gradimento. E già Tv7 aveva cessato di
essere l'unico settimanale televisivo. Andava in onda, infatti, AZ: un fatto, come e perché.
L'ultima puntata del vero, “mitico” Tv7 è stata nel luglio 1971. Dal 1972 il programma
venne ribattezzato (esorcizzato?) Stasera G7, ancora con una sua redazione di cui feci parte
sempre come “inviato speciale”. Andò in onda dal 1972 al 1976. Poi, con la riforma della
Rai, nacque il Tg2 e il direttore Andrea Barbato mi propose di optare per questa testata
(quella laica che prometteva di essere di sinistra, mentre il Tg1 restava il Tg ufficiale
democristiano e il Tg3 era ancora di là da venire). Accolsi quell'invito con entusiasmo.
L'organico prevedeva tuttavia soltanto redazioni tematiche (interni, esteri, cronaca, cultura,
sport, ecc.) e noi della vecchia redazione del settimanale confluimmo per la maggior parte
nella redazione cronaca. Personalmente ho continuato però a lavorare soprattutto per le
rubriche e i servizi speciali.
Com'era organizzato? (conduttori, giornalisti che vi lavoravano, durata e cadenza
della trasmissione, mezzi disponibili, programmazione)
I conduttori neppure esistevano. Anche i telegiornali erano letti dagli speaker. Alla sigla
iniziale facevano seguito, uno dopo l'altro, servizi - da tre a cinque per ogni puntata -
interamente girati in pellicola 16 mm da una troupe guidata dal giornalista (talvolta, come
capitò a me i primi tempi per imparare a conoscere il mezzo, affiancato da un regista). La
squadra era costituita di norma da operatore, assistente operatore, tecnico del suono, due
elettricisti, autista e perfino da un organizzatore per le trasferte più complesse. Una volta
completate le riprese, il servizio veniva montato in una delle sei o sette moviole
cinematografiche a disposizione del settimanale e l'autore del servizio era sempre vicino al
montatore per indicare i tagli e l'ordine delle sequenze. Nel caso di interviste in lingua
straniera il sonoro veniva inviato ai traduttori e il testo tradotto, opportunamente adattato,
veniva registrato in studio da doppiatori (per lo più attori professionisti). L'autore doveva
provvedere anche a scegliere i brani musicali con la collaborazione dei maestri di musica
addetti al Tg. Seguivano il missaggio delle colonne sonore, anche questo in sale e con
tecnici specializzati, e la trasmissione dal “tele-cinema” alle moviole ampex, le stesse dove
si registravano i notiziari ed eventualmente i pochi servizi del settimanale registrati negli
studi televisivi. Infine, qualche ora prima dell'orario previsto per la messa in onda, la
registrazione da studio dell'intera puntata era a cura del regista del settimanale. Prima però il
servizio veniva visto ed eventualmente corretto o addirittura censurato. Passavano a vederlo
in moviola prima il caporedattore, poi il caporedattore col caporedattore centrale e il
vicedirettore, poi il caporedattore col caporedattore centrale, il vicedirettore e il direttore del
telegiornale, e spesso non finiva qui, spesso la processione accompagnava in moviola
addirittura il direttore generale della Rai, Ettore Bernabei. Delle decine di servizi che
portavano la mia firma, ne ho contati almeno una cinquantina solo in quel periodo,
rimpiango la mancata messa in onda di molti che non riuscirono, una volta ultimati, a
superare gli ultimi, autorevoli controlli.
Quali erano i temi più toccati dalle vostre inchieste e chi li sceglieva?
Tutti i temi di attualità: dalla politica alla cronaca, alla cultura, al costume, allo sport, allo
spettacolo. La scelta veniva fatta dal caporedattore e dal caposervizio, su proposta del
giornalista autore o di loro iniziativa, o dietro suggerimento del direttore.
Qual era il Suo ruolo all'interno della trasmissione e come gestiva il lavoro degli altri
giornalisti? Erano tutti professionisti o anche free-lance?
Il mio ruolo è sempre stato quello di autore, formalizzato nel 1968 dal direttore Willi De
Luca con la nomina a “inviato speciale”, qualifica che ho mantenuto per i 28 anni
successivi, fino alla pensione. Non ho mai ambito a ruoli manageriali, che mi sono stati
attribuiti soltanto per un breve periodo, all'inizio degli anni '90, come curatore di Tg2
Pegaso. C'erano a Tv7 dei collaboratori a tempo determinato o addirittura occasionali che
non si chiamavano ancora “free-lance”.
Avvenivano dibattiti in studio? Il pubblico poteva intervenire?
No, ma talvolta, come fu per il movimento studentesco del '68, riunimmo in studio un folto
gruppo di rappresentanti delle organizzazioni giovanili per un'intervista collettiva e una
discussione tra loro. Non ricordo dibattiti in diretta né interventi del pubblico.
Come influivano sul lavoro le evoluzioni che intercorrevano dall’inizio del lavoro
d’indagine fino al suo termine? Quanto tempo occorreva per realizzare un contributo
completo?
Naturale che ci fossero aggiornamenti in corso d'opera fino alla messa in onda della puntata.
Il tempo per la realizzazione del servizio prevedeva il tempo necessario per la
documentazione, ma per i servizi di stretta attualità questo era ridotto al minimo
indispensabile perché il contributo avesse una sua dignità e originalità. E come tutti i bravi
giornalisti, abbiamo fatto anche noi i nostri “salti mortali”. Se le inchieste riguardavano
invece l'“attualità permanente”, la realizzazione poteva durare anche due o tre settimane.
Capitava mai che si iniziasse a lavorare su un tema e poi lo si dovesse abbandonare a
metà percorso?
Certo che capitava, o perché interveniva una censura politica o perché la raccolta del
materiale si rivelava insufficiente o squilibrata.
E modifiche radicali in corso d’opera?
Più raramente, ma capitava. Poteva darsi che, dopo aver visionato il servizio in moviola, il
caporedattore ti chiedesse di tornare a girarne una parte.
Avevate un modello di telespettatore medio sulla cui base regolare l’impostazione del
vostro lavoro?
Nel nostro caso, visto il livello degli ascolti, finiva per coincidere con quello dell'italiano
medio, ma credo che ognuno, dal direttore all'ultimo dei collaboratori, avesse il suo e fosse
necessariamente obbligato ad adeguarsi anche a quello degli altri.
Dopo la messa in onda delle vostre inchieste, qualcosa è cambiato?
Credo di sì, la gente il giorno dopo ne parlava sui tram e i personaggi coinvolti nelle
inchieste dovevano tenerne conto, sempre che non fossero riusciti nel frattempo a fare
pressioni efficaci per impedirle.
Quali sono le maggiori gratificazioni che ha ricevuto e riceve dal Suo lavoro?
La prima gratificazione è il piacere che provo nel farlo. Quando le circostanze me lo hanno
impedito, come l'involuzione del Tg2 negli anni '90, ho cercato di evitarlo e, quando questo
non era più possibile, me ne sono andato. Ora mi diverto a dirigere me stesso nel
giornalismo on line.
Il videogiornalismo d'inchiesta è più o meno impegnativo di quello della carta
stampata? Quali sono le principali differenze?
Credo che sia molto più impegnativo e che le differenze siano evidenti, a cominciare dalla
necessità di documentare con le immagini e con il sonoro quanto si racconta. Il vantaggio,
soprattutto a quel tempo, era la corsa al protagonismo in video delle persone da intervistare
e la popolarità della trasmissione che apriva - ma nei casi più delicati spesso invece
chiudeva - tutte le porte.
Secondo Lei oggi in tv ci sono programmi d'inchiesta validi?
Report, le inchieste di Riccardo Jacona (Presa Diretta, nda), qualche inserto di Annozero,
più raramente di Ballarò. Spero di non averne dimenticati altri.
Quali sono state in tutti questi anni le modifiche più incisive nell'organizzazione e nello
sviluppo delle inchieste moderne rispetto a Tv7?
Certamente la maggiore facilità di accesso alla documentazione, una tecnologia leggera e
quindi assai meno condizionante e la disponibilità di mezzi di ripresa infinitamente più
semplici e disponibili di quelli che avevamo a quel tempo. Quanto alla libertà di
espressione, invece, continua ad essere riservata a chi è abbastanza autonomo, coraggioso e
pronto a giocarsi la carriera e oggi, col precariato che incalza, anche il posto di lavoro. Noi
28
dovevamo pagare col mobbing, oggi per scoraggiare il giornalismo d'inchiesta non c'è più
nemmeno bisogno di quello.
Parliamo della cosiddetta “Legge Bavaglio”: se dovesse tornare di attualità, “non si
potrebbero avere notizie sulle indagini in corso prima delle udienze preliminari; non si
saprebbe nulla prima di due/tre anni; gli autori di riprese e videoregistrazioni senza
consenso potrebbero essere puniti con il carcere, a meno che non siano giornalisti
professionisti autorizzati, ma i più che oggi lavorano nei programmi di inchiesta sono
giornalisti pubblicisti; non si potrebbe più entrare nelle varie sedi per documentare e
denunciare abusi, soprusi, evasioni, corruzioni...”.
Che ne pensa?
Con la “legge bavaglio” si compie un autentico delitto contro lo stato di diritto. Si sta
realizzando l’antico sogno della Loggia P2 di oscurare i poteri di controllo. Non basta più
indignarsi, per questo è stato necessario promuovere immediatamente una grande, unitaria
manifestazione nazionale contro la macelleria politica e sociale in atto. Per quanto mi
riguarda, giuro che se e quando la “legge bavaglio” sarà approvata mi impegnerò a fare
28
Vedi Glossario
prevalere sempre e comunque il dovere di informare e il diritto di essere informati; che
attraverso tv, radio, giornali, siti e blog e con qualsiasi altro mezzo possibile darò qualsiasi
notizia che rivesta i requisiti del pubblico interesse e della rilevanza sociale come prevedono
le sentenze europee, i valori costituzionali e la legge istitutiva dell’ordine dei giornalisti; che
utilizzerò tutti gli strumenti possibili per disattivare questa norma ingiusta ed incivile che si
propone non solo di colpire giornalisti ed editori ma di oscurare l’opinione pubblica e di
rendere impuniti corrotti e corruttori; che sarò ora e sempre contro ogni bavaglio alla libertà
29
di informazione e all’articolo 21 della Costituzione.
Crede che ci siano anche cose positive in questa legge?
Sembrerebbe una proposta di buon senso tra il diritto alla riservatezza e il diritto dei
cittadini ad essere informati. Purtroppo così non è, restano altre disposizioni dello stesso
disegno di legge che vanno nella direzione opposta a questo equilibrio, a cominciare dal
giudice collegiale di distretto che dovrebbe autorizzare le intercettazioni, che insieme ad
altre complicazioni burocratiche destinate non ad accorciare - come sarebbe necessario - ma
ad allungare i tempi del processo, fa sì che la facoltà di intercettare prima, ed eventualmente
pubblicare, rimarrebbe comunque molto aleatoria. Aggiungo che l’alternativa, il riassunto, si
presta ad alcune considerazioni. Non solo per il pericolo di un uso strumentale, come ha
giustamente rilevato il sindacato dei giornalisti. Un altro aspetto di cui poco si parla è che
nessun riassunto, dal punto di vista giornalistico, avrà la stessa efficacia delle parole
pronunciate, pubblicate tra virgolette. Un testo non registrato sarà molto più facilmente
qualificato come fazioso e arbitrario, sia dagli intercettati che dai mass media che li
difendono. Si ridurrà notevolmente l’effetto mediatico sull’opinione pubblica, ma
soprattutto il danno all’immagine dei personaggi coinvolti. Chi può credere che le
intercettazioni di dirigenti corrotti che hanno portato in questi anni a non poche dimissioni
“eccellenti” avrebbero avuto lo stesso effetto quasi immediato se pubblicate per riassunto?
Io dico che basterebbe questo a fare la differenza in un Paese come il nostro dove il potere
30
politico ed economico dispone a suo piacimento dei più importanti mass media.
29
Fonte: www.nandokan.it
30
Ibidem
2.2.2 Az: un fatto, come e perché
31
Scheda del programma
TITOLO: AZ: un fatto, come e perché
GENERE: programma di approfondimento giornalistico del sabato sera
PERIODO: dal 1969 al 1976
SIGLA: immagini della regia
COLORI: bianco e nero
UN PROGRAMMA DI: Luigi Locatelli e Salvatore G. Biamonte
A CURA DI: Leonardo Valente
REGIA: Enzo dell'Aquila (poi Silvio Specchio)
CONDUTTORI: Enzo Mastrotefano (poi Bruno Ambrosi)
SVOLGIMENTO: Il conduttore introduce in studio il caso della puntata, mostrando dei
fotogrammi (le vittime, delle carte geografiche ecc.) per fornire alcuni dati essenziali alla
comprensione dell'inchiesta. Gli ospiti in studio sono due o tre, solitamente qualche esperto
e gli autori del servizio. Parte il racconto filmato con il commento audio degli autori. Si
tratta di una ricostruzione del caso sui luoghi in cui è realmente avvenuto, arricchito da
interviste di parenti, amici, testimoni, sopravvissuti, autorità pubbliche o gente comune.
Di tanto in tanto si torna in studio per qualche chiarimento e approfondimento.
ARGOMENTI: Temi di cronaca nera e attualità (es.: Omicidi irrisolti, morti sospette,
scomparsa di persone, mafia, malattia, aborto...)
REDAZIONE: Bruno Ambrosi, Franco Ferrari, Tina Lepri, Giuseppe Marrazzo, Gigi
Marsico, Giancarlo Santalmassi, Umberto Segato (poi anche Enzo Aprea, Francesco de Feo,
Mario Meloni, Milia Pastorino, Mario Pogliotti).
SUONO: Enrico Capozzo e Vito Surdo
LUCI: Gaetano Caracciolo
RIPRESE: Stefano Pontillo
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Fonte: Mediateca Rai di Santa Teresa (via della Moscova, 28 – Milano)
CAMERAMAN: Dino Procacci, Antonio Caputi, Fabrizio Gentile, Massimo Lombardi
MONTAGGIO: Licio Dentico e Leandro Testa
SCENOGRAFIA: Gaetano Castelli
EDIZIONE: Mino Marzetti e Luciano Benedetti
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Bruno Ambrosi
Bruno Ambrosi (Pontremoli, 14 maggio 1930) è un giornalista televisivo italiano.
Figlio di un brigadiere dei Carabinieri, trascorre parte della giovinezza nel suo paese
d'origine, San Piero Patti, dove frequenta le scuole dell'obbligo. Inizia giovanissimo l'attività
nella carta stampata, collaborando con “Il Momento - Mattino di Roma”. Poi lavora per la
“Gazzetta del Popolo” a Torino dove diviene inviato speciale. Giornalista Rai fin dalle
origini (primi anni '50) e iscritto all'albo della Lombardia dal 1º ottobre 1957, inizia a
collaborare con la Rai nel 1954, passando dalla carta stampata alla televisione. Il rapporto
con la televisione di Stato diventa esclusivo a partire dal 1961. Collabora all'organizzazione
e alla gestione della nascita dei tre telegiornali dell'azienda Rai: prima al Tg1, poi dal 1976
al Tg2 di Andrea Barbato, infine a metà anni '90 al Tg3, dove fu anche caporedattore oltre
che inviato speciale in vari Paesi di Europa, Africa e America Latina. In Africa resta per
circa otto anni, dove realizza servizi in più di 40 Paesi nel periodo della post-colonizzazione
e dell'inizio delle guerre civili. L'esperienza africana termina per una malattia e per un
contenzioso relativo alle spese di viaggio, per il quale i suoi detrattori lo soprannomineranno
“Sciupone l'africano”. Lavora nella redazione della trasmissione d'inchiesta Tv7, il
settimanale di approfondimento del Tg1. Uno dei suoi contributi più significativi è un
servizio riguardante le conseguenze dell'uso degli ormoni, usati per la crescita dei bovini,
sulla salute umana. Segue da cronista alcuni eventi famosi, come la strage del Vajont, la
morte di Enrico Mattei, il disastro di Seveso. Conduce un programma di approfondimento
giornalistico negli anni '70, dal titolo AZ, un fatto come e perché, in onda il sabato sera. Dal
1976 è per cinque anni conduttore del Tg1, dal 1981 ne è direttore per due anni. Sotto la sua
direzione la testata racconta la tragedia della morte di Alfredino Rampi, a Vermicino. Dopo
il ritiro dalla Rai, entra a far parte del consiglio dell'ordine dei giornalisti della Lombardia.
Attualmente ne è consigliere nazionale e si dedica alla formazione. Per nove anni gestisce
l'Istituto per la Formazione al Giornalismo “Carlo De Martino” di Milano, dove insegna
anche etica professionale e storia del giornalismo contemporaneo. Dal 1985 al 1990 è
consigliere della Regione Lombardia come indipendente eletto nelle liste del Partito
Comunista Italiano.
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Fonte: Wikipedia
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Intervista a Bruno Ambrosi
Mi parli degli esordi della trasmissione.
Anche AZ che aveva come sottotitolo esplicativo un fatto, come e perché si inserisce nel
filone di un giornalismo televisivo ormai maturo, più adulto, un'era che si era aperta nel '69
con la nascita del primo grande settimanale Tv7, che fondamentalmente si potrebbe definire
un “magazine” che ha avuto quasi un decennio di vita abbastanza gloriosa e, in seguito,
diversi tentativi di riesumazione senza i primitivi trionfi.
Quando è cominciato il programma? Per quello che ricordo io era l'inizio degli anni '70.
Com'era organizzato? (conduttori, giornalisti che vi lavoravano, durata e cadenza
della trasmissione, mezzi disponibili, programmazione)
Quel programma, come del resto gli altri supplementi, facevano capo alla Direzione del
telegiornale, anche se ne riceveva una delega un capo redattore, che nel mio caso era Sergio
Zavoli. Io fui chiamato proprio da lui come conduttore della trasmissione, dopo una sorta di
provino che consisteva in un'intervista da fare al prof. Sabino Acquaviva, un sociologo
docente a Padova e all'epoca molto consultato. Di fatto dovevo sostituire il primo conduttore
che era un bravo collega del Tg, Ennio Mastrostefano. Pur non avendo una vera e propria
redazione dedicata, AZ era aperta a tutti i colleghi telegiornalisti. Comunque tra i primi
redattori quasi esclusivi è da ricordare Giancarlo Santalmassi che ebbe, molti anni dopo, il
ruolo di Direttore del Giornale Radio Rai e quello di “Radio 24” de “Il Sole 24Ore”. Un
altro che ha fatto le sue prime armi lì era Gianni Minà, poi specializzatosi in vicende e
personaggi dell'America latina. La trasmissione andava in onda il sabato sera, in quella che
oggi si definirebbe una “seconda serata”, cioè poco dopo le 22, al termine di un programma
di grande successo, Studio Uno di Antonello Falqui, la trasmissione a quei tempi seguita
dall'intera platea del pubblico televisivo, milioni e milioni che oggi farebbero il trionfo di
qualsiasi programma. AZ praticamente ereditava l'enorme platea, se non completamente in
buona parte. Quindi anche quello giornalistico diventò in quegli anni un programma da
“boom”. Ma la sua “fabbricazione” era piuttosto complicata: una volta individuato il tema -
compito del responsabile della trasmissione, coadiuvato dal conduttore oppure per un
“input” del Direttore del Tg, che all'epoca era Willi Deluca -, si provvedeva ad invitare in
studio i cosiddetti “esperti” del tema da trattare: un protagonista della vicenda, un professore
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Luglio 2010
universitario di discipline attinenti, un sociologo - all'epoca usato come il prezzemolo in
cucina, cioè quasi dappertutto -, un religioso di chiara fama. La trasmissione era quasi
sempre costituita da un lungo filmato che enunciava “il fatto” e poi proseguiva con il
passaggio in studio, dove gli ospiti precisavano, testimoniavano, confermavano o
opponevano una tesi diversa. Nello spirito del tempo la trasmissione, salvo un paio di volte
imposte da un'attualità bruciante, non andava in diretta: veniva registrata in una tornata che
poteva durare anche quattro o cinque ore in uno studio di via Teulada a Roma, dove c'era
tutto lo Stato maggiore della Tv. L'agile videoregistrazione attuale non era ancora stata
inventata, quindi il programma era ripreso sì dalle telecamere - 3 o 4 - ma registrato su
pellicola cinematografica da un apposito dispositivo chiamato transcryber o, in italiano,
34
vidigrafo. La parte sonora, cioè le frasi pronunciate dagli ospiti, venivano registrate e poi
trascritte dagli stenografi e venivano poi consegnate al responsabile della trasmissione
(Zavoli, e poi Leonardo Valente o Luigi Locatelli), che provvedeva a compiere un vero
lavoro di taglio e cucito, ricomponendo il detto di ciascuno al fine primario, chiaramente, di
“censurare” eventuali giudizi troppo taglienti o avventurosi, ma anche di eliminare
ripetizioni, sfrondare frasi barocche, concentrare nei limiti del possibile il pensiero e le
prese di posizione degli intervenuti al dibattito. E così il “parlato” trascritto dagli stenografi
veniva a formare una sorta di copione scritto, lungo decine e decine di pagine sul quale il
responsabile effettuava interventi che potevano partire da una frase detta a p. 24 del copione,
collegata ad un'altra frase di p. 56 alla quale si univa un altro pensiero di p. 2. Non solo
eventuale “censura”, come si potrebbe pensare, ma soprattutto un lavoro di compattamento
degli interventi per rendere più scorrevole la trasmissione, che al momento della messa in
onda doveva durare 45/50' contro le ore e ore della registrazione avvenuta in studio. Questo
per i concetti. Ma una trasmissione Tv è fatta anche di “forma” e a questo doveva
provvedere il montatore, scelto tra i più bravi disponibili (leggendario il montatore principe
di AZ, il romano Luciano Benedetti che si era fatto le ossa a Cinecittà): riceveva, una volta
usciti dallo sviluppo, i rulli di pellicola pari a migliaia di metri, e doveva assemblarli
seguendo le indicazioni fornite dal “copione” (es: da p. 24 a p. .56 con un inciso di pag. 2),
evitando salti di immagine e di posizione del parlante, esattamente come una sequenza tutta
filata che non desse nemmeno la pallida idea di un “montaggio” così arzigogolato e
complesso. Un lavoro che iniziava nella tardissima serata del giorno della registrazione e
che poteva venire portato a compimento nella mattinata del sabato e, in casi eccezionali,
nelle ore a ridosso della trasmissione. Naturalmente io conduttore e il responsabile
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Vedi Glossario
partecipavamo a tutta l'operazione, che si concludeva nel mostrare al Direttore del Tg il
“prodotto”, eseguendo, quando necessarie, le modifiche da lui proposte.
Quali erano i temi più toccati dalle Vostre inchieste e chi li sceglieva?
E'difficile tracciare un confine netto tra giornalismo d'inchiesta e di approfondimento. Le
due strade in AZ si intersecavano spesso, privilegiando, quando era possibile,
l'approfondimento, che poi, per sua natura, si trasforma in inchiesta, segnalando le
strozzature, gli impedimenti, la burocrazia che ostacolano il raggiungimento di un certo
obiettivo. Valga per tutte la prima puntata da me condotta, che aveva un tema addirittura
proibito nella Rai di quel tempo: l'aborto, parola che non era neanche possibile pronunciare
ai microfoni. Era imperniata su un ottimo servizio realizzato in Piemonte da un bravissimo
collega di Torino, Gigi Marsico, che aveva indagato nel mondo delle “mammane”, delle
interruzioni di gravidanza ottenute con i decotti di prezzemolo o, peggio, con l'introduzione
di ferri da calza, con tutte le drammatiche conseguenze anche e spesso mortali provocate da
queste pratiche. La trasmissione provocò grande sconcerto ma, al contrario di quanto accade
oggi, neanche una riga sui giornali. Ne chiesi le ragioni all'acuto critico de “L'Unità”
dell'epoca, Giovanni Cesareo, un sociologo che teneva la rubrica televisiva sul giornale
comunista. Mi rispose che c'era un tacito accordo tra gli editori e i direttori dei quotidiani
perché si parlasse il meno possibile di televisione, vissuta allora dal mondo editoriale come
una temibile concorrente.
Qual era il Suo ruolo all'interno della trasmissione?
Da conduttore rivestivo un ruolo abbastanza eminente anche se ero considerato un
“milanese” e, com'è noto, la rivalità tra le due “capitali”, quella reale e quella morale, era
palpabile. Arrivato a Roma, un collega di grande spirito mi definì subito “il ritto
ambrosiano”, in quanto avevo scelto di condurre la trasmissione in piedi, rinunciando
all'abusata scrivania della tradizione.
I giornalisti erano tutti professionisti o anche free-lance?
Erano tutti assunti a tempo indeterminato, a parte alcuni con contratto di collaborazione. Il
termine “free-lance” a quei tempi era praticamente sconosciuto.
Avvenivano dibattiti in studio? Il pubblico poteva intervenire?
Non c'era assolutamente pubblico in studio, e il vero e proprio dibattito avveniva tra le
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persone invitate, ma sempre con toni decisi ma civili, anche perché il panel era scelto sì
con intenti anche di contrapposizione, ma senza estremismi di alcun tipo.
Come influivano sul lavoro le evoluzioni che intercorrevano dall’inizio del lavoro
d’indagine fino al suo termine? Quanto tempo occorreva per realizzare un contributo
completo?
Come in tutti i lavori di questo tipo si partiva da una segnalazione riportata dai giornali e
poi, una volta sul posto, ci si rendeva conto che la pista iniziale non era completa e
bisognava indagare anche in altre direzioni. Comunque, in genere, il lavoro doveva essere
completato nell'arco di una settimana, dieci giorni.
Capitava mai che si iniziasse a lavorare su un tema e poi lo si dovesse abbandonare a
metà percorso? E' capitato spesso, per mancanza di elementi concreti di indagine.
E modifiche radicali in corso d’opera?
Anche quelle, ovviamente, come capitò ad un lavoro fatto in tandem da me e Santalmassi
sull'inchiesta delle responsabilità della diga del Vajont, quello della distruzione del paese di
Longarone, con duemila vittime.
Avevate un modello di telespettatore medio sulla cui base regolare l’impostazione del
Vostro lavoro? No, a quell'epoca non si tipizzava lo spettatore.
Avevate dei buoni ascolti?
Già detto, quasi l'intero pubblico che era davanti al televisore il sabato sera.
Dopo la messa in onda delle Vostre inchieste, qualcosa è cambiato?
Non spesso. Quello che poi sarebbe stato definito “il sistema” era molto pigro e lento.
Un limite ed un pregio della trasmissione.
Il limite stava nel controllo che allora, come peraltro oggi, veniva effettuato “ab origine”
nella scelta degli argomenti da trattare, nelle persone da invitare al confronto. Il pregio,
sempre rapportato ai tempi, era un certo anticonformismo e l'audacia di affrontare temi
“scomodi”. Quello dell'aborto è emblematico.
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Ibidem
Il potere ha mai fatto qualche pressione sul Suo programma? L'azienda Rai
controllava e supervisionava preventivamente il materiale da mandare in onda?
Certo, le pressioni non mancavano, la filosofìa ricorrente era quella di non disturbare il
manovratore, vale a dire il Governo. E naturalmente non solo ogni servizio, ma ogni
sequenza, e a volte ogni singolo fotogramma erano esaminati preventivamente in maniera
molto occhiuta.
Ha/avete mai subito censure, minacce o contrattualismi?
La risposta potrebbe essere no dato com'era costruita la “macchina”. Io e la stragrande
maggioranza dei colleghi eravamo regolarmente assunti a tempo indeterminato e quindi non
ricattabili in chiave contrattualistica. Le minacce le ricevetti a suo tempo dal mondo delle
imprese funebri per una mia inchiesta sul racket funerario, che comunque andò regolarmente
in onda.
Quali sono le maggiori gratificazioni che ha ricevuto e riceve dal Suo lavoro?
Gratificazioni poche o nessuna, mai un elogio formale, mai un aumento dei stipendio, mai
una gratifica.
Il videogiornalismo d'inchiesta è più o meno impegnativo di quello della carta
stampata? Quali sono le principali differenze?
E' sicuramente più difficile ed impegnativo. Ai colleghi della carta basta frequentare un bar,
un ministero, un ufficio pubblico, un ospedale per rendersi conto di ciò che non va. Il
videogiornalismo è handicappato all'origine dalla sua “visibilità”. Una macchina da presa
minimamente professionale la si nota subito, per non parlare delle luci a volte
indispensabili, e questo fa sì che gli interlocutori, gli intervistati, i testimoni, al di là delle
eventuali reticenze, siano immediatamente consapevoli delle responsabilità derivanti da una
dichiarazione, per non dire dell'impossibilità, con quella attrezzatura, di poter accedere a
determinati luoghi.
Considera AZ il primo programma d'inchiesta nella televisione pubblica? Ce n'erano
altri a quel tempo?
Non fu il primissimo: di Tv7 si è già detto, ma prima ancora, agli inizi degli anni '60, ci fu
RT, il rotocalco televisivo inventato e diretto da Enzo Biagi.