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Infine, nell’ultima parte, concludo evidenziando in quale
direzione si siano evoluti i più recenti modelli socio-
pedagogici, nel tentativo di offrire un quadro della
situazione paradigmatica attuale sull’educazione femminile.
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PARTE PRIMA
1. Introduzione di ordine storico-normativa.
In tutte le legislazioni da cui la nostra ha avuto origine o
influenze la donna non aveva diritti rilevanti, non poteva
esercitare attività all’esterno della famiglia, era limitata
alla vita domestica e all’allevamento dei figli, mentre le
“cure esterne”, cioè, le attività politiche, commerciali,
artigianali, professionali erano riservate esclusivamente
all’uomo. Questa situazione nel diritto romano era
addirittura definita “infirmitas sexus” intesa come
incapacità naturale del sesso femminile. Ma mentre la
società dell’antica Roma si stava positivamente evolvendo
verso un graduale riconoscimento alla donna di nuovi diritti
e di nuovi poteri, l’avvento del Cristianesimo, con i dogmi
e la dottrina della Chiesa, ha arrestato questa tendenza.
I principi giuridici generali, poi, che avevano regolato la
condizione della donna prima dell’Unità d’Italia
rispecchiavano il filone fondamentale del diritto europeo
scritto, il diritto romano, con alcuni apporti delle
consuetudini barbariche.
Nel diritto romano dei tempi più antichi la figlia era
soggetta al potere del padre, più assoluto del potere
esercitato sui figli e sui nipoti, poiché valeva anche nel
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campo del diritto pubblico, escludendo la donna dalle
cariche e dagli onori.
Alla morte del padre la figlia passava sotto la tutela
legittima del maschio della famiglia che aveva ereditato la
potestà.
Per compiere, poi, gli atti giuridici di maggiore importanza
come vendere le cose di valore, promuovere una causa, fare
testamento, accettare un’eredità, contrarre un debito,
liberare uno schiavo, la donna aveva bisogno
dell’intervento del padre o del tutore. La sua capacità
giuridica, infatti, era limitata agli atti di ordinaria
amministrazione e alla vendita delle cose di minor valore.
La donna romana, sposandosi, lasciava la famiglia del padre
ed entrava in quella del suocero o del marito, ponendosi
sotto il potere di uno di questi, oppure rimaneva soggetta al
potere del proprio padre; la figlia, ovviamente, per sposarsi
doveva ottenere, sotto pena di nullità, il consenso paterno.
Così, nei matrimoni in cui il padre conservava il proprio
potere sulla figlia egli aveva diritto di revocare l’assenso e
richiamare in casa la donna con un atto unilaterale della sua
volontà. La moglie, poi, portava normalmente nella casa del
marito una dote, non conoscendo neppure quali fossero i
suoi diritti nei confronti della stessa.
Per continuare, la crescita dell’economia romana attenua la
portata della tutela, con un notevole progresso della
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condizione della donna libera. L’epoca imperiale, poi, porta
ad un miglioramento nella condizione giuridica della donna
romana, con l’affievolirsi della patria potestà e la
scomparsa della tutela delle donne non soggette alla patria
potestà .
Nel diritto privato, quindi, caddero gravi limitazioni. Le
donne maggiorenni ebbero la facoltà di amministrare i
propri beni, vendere, assumere obblighi, possedere un
personale patrimonio, nonché i beni “parafernali” (si
trattava di beni che non costituivano oggetto di convenzioni
matrimoniali e sui quali la sposa aveva pieno dominio) e la
donazione che il marito poteva fare in occasione delle
nozze. Però, numerose norme continuavano a limitare la
volontà e l’attività della donna e alla donna stessa erano
vietati tutti gli incarichi civili e pubblici.
In epoca cristiana, poi, il Codice di Giustiniano esprimeva
una posizione più favorevole alla condizione della donna
nella famiglia e nella società, ma veniva tardivamente e con
difficoltà applicato ad un Impero in disgregazione (in
questo Codice si auspicava che il padre usasse la
persuasione e non esercitasse duramente la patria potestà).A
seguito, quindi, della calata dei barbari si insinuarono
consuetudini germaniche anche riguardo alla donna, la quale
qui costituiva un “valore”. Infatti il padre aveva nei
confronti della figlia un potere “patrimoniale”, che veniva
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chiamato “mundium”, ed era legittimato a riscuotere il
“prezzo” della donna versato dalla parte del marito che la
acquistava o da colui che le recasse danno o la uccidesse,
se voleva evitare per ritorsioni la faida. Il detentore del
potere sulla donna o “munualdo”, poi, interveniva in tutti
gli affari patrimoniali che la riguardavano. Così, i membri
maschi della famiglia avevano il potere di uccidere la donna
libera che si unisse in matrimonio con un servo o che
commettesse adulterio e potevano costringere la donna al
matrimonio, anche prima dell’età legittima dei 12 anni o
accusarla di stregoneria.
La donna , secondo l’antico diritto germanico, non aveva
personalità giuridica alcuna. Per assicurare la solidarietà
tra lignaggi, il diritto germanico permetteva all’uomo di
sposare più di una donna libera, considerata pegno di pace.
L’uomo, inoltre, poteva ripudiare la moglie per sterilità o
solo perché questo era il suo volere.
Durante il Medioevo, poi, la vita della donna resta soggetta
agli interessi del gruppo familiare di appartenenza. Infatti,
anche quando si affermò l’ordinamento comunale, il potere
cittadino dovette venire a patti con i gruppi familiari. Nelle
famiglie più potenti il bene di scambio più prezioso restava
la donna. Le figlie continuavano ad essere soggette alla
potestà del padre, ed inoltre il marito aveva su di lei lo
“ius corrigendi”, cioè il diritto di correggerla anche con
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l’uso di mezzi violenti. Ma la valutazione della donna come
valore patrimoniale si era capovolta: non era più il marito
che pagava al padre il prezzo della sposa, ma il padre a
fornire i mezzi per il mantenimento della nuova famiglia,
cedendo dei beni in proprietà. Era questo l’istituto della
dote, rimasto in vigore in Italia sino alla riforma del
maggio 1975!
La figlia non possedeva, così, un patrimonio proprio, ma
solo un “peculium”, piccolo complesso di beni di varia
provenienza di cui spesso non aveva neppure la proprietà.
Dai primi decenni del XII sec. cadde in disuso o venne
vietata anche la donazione che la donna riceveva dal marito
all’atto del matrimonio. Al marito si riconobbe, alla fine
del XIII sec., il diritto di alienare i beni dotali. La donna
veniva, in questo modo, privata della dote e, per esclusione
a causa della dote, dell’eredità paterna.
Se nel diritto privato la donna subiva delle limitazioni, in
quello pubblico non aveva alcun diritto né potere. Malgrado
le enormi trasformazioni politiche, economiche, sociali,
culturali che Umanesimo e Rinascimento determinarono, la
condizione della donna nel diritto non subì,
complessivamente, un effettivo miglioramento.
Così, il primo spiraglio verso una graduale conquista di
diritti da parte delle donne italiane appare nei Codici civili
precedenti l’Unità d’Italia che prevedevano la sottomissione
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delle figlie al padre fino ai 30/40 anni o , secondo il
Codice Albertino (insieme di leggi concesse da Carlo
Alberto nel 1848), per tutta la vita del padre o del nonno,
per il matrimonio era comunque sempre richiesto il
consenso paterno. Sposandosi la donna passava sotto
l’autorità del marito al quale doveva obbedienza e rispetto;
ogni atto riguardante il suo patrimonio doveva essere
compiuto con l’autorizzazione del coniuge, ad eccezione
delle spese minute. Come madre, poi, pur avendo il diritto
al rispetto e all’obbedienza dei figli, non aveva su di loro
la patria potestà; nel caso in cui fosse rimasta vedova
poteva essere nominata solo “tutrice” dei propri figli, con
poteri limitati rispetto a quelli del genitore e svolti sotto il
controllo del giudice.
Solo l’Illuminismo rinnovò il concetto di famiglia,
auspicando che fosse liberata dai compiti e dai fini politici
ed economici, che provocavano sofferenze sul piano umano
e sociale e non rispondevano più alle esigenze dei tempi, e
fosse invece trasformata in una “comunità di affetti”.
Il Codice napoleonico, poi, strutturava la famiglia in modo
più moderno, ma continuava ad incentrarla sull’autorità del
marito e del padre. La donna acquistava, così, maggiori
diritti patrimoniali nei confronti della famiglia di origine,
ma sposandosi cadeva sotto l’autorità del marito che
limitava anche i suoi diritti patrimoniali.
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In Italia i Codici della Restaurazione, poi, cristallizzarono
forze di antichissima origine, indifferenti ai filoni
innovatori illuministici. I Codici civili preunitari
continuavano ad assoggettare la donna al potere del padre
(come abbiamo visto fino a 30/40 anni o per tutta la vita) e,
sposandosi, al potere del marito. Sui propri beni la donna
non aveva alcun diritto e, nemmeno se vedova, poteva
esercitare la patria potestà sui figli .
Le più liberali erano le province lombarde che, mutuate dal
Codice civile austriaco, non richiedevano l’autorizzazione
maritale per tutti gli atti giuridici della moglie.
Nel Parlamento dell’Italia Unita, poi, si svolgerà una lunga
battaglia che, nel corso di cento anni, porterà la donna da
esclusa dalla società civile a cittadina con pari diritti e
dignità.
Dai lavori preparatori del Codice civile italiano del 1865
emergevano due concezioni diverse della famiglia e della
donna: l’una radicata nel costume e nelle tradizioni di un
passato millenario, l’altra ispirata alle idee libertarie e
democratiche dell’Illuminismo. La prima esaltante la
massima medioevale “quilibet in domo sua dicitur rex”,
ossia “ qualunque uomo nella propria casa è da considerarsi
un re”, l’altra auspicante una nuova immagine della
famiglia e della donna. Chi assimilava i poteri del padre
(marito...) a quelli del re riteneva che la donna non potesse
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avere la titolarità e l’esercizio della patria potestà; gli altri
chiedevano uguale dignità e condizione giuridica. Quindi,
la patria potestà spetta ai genitori, ma durante il
matrimonio viene esercitata solo dal padre, dalla madre solo
in caso di impedimento del marito e dura fino alla maggiore
età o alla emancipazione del figlio o della figlia (art.220).
Sia il figlio che la figlia diventano, poi, maggiorenni a 21
anni. Si prevedono, inoltre, conseguenze a carico del
genitore che commetta abusi o amministri male i beni del
figlio. Di cui, durante il matrimonio, la patria potestà
veniva esercitata dall’uomo che, all’art. 131 veniva definito
“capo famiglia”. La moglie doveva seguire il marito
ovunque questi ritenesse opportuno fissare la sua residenza;
ne assumeva il cognome e la condizione civile; non poteva
compiere da sola gli atti giuridici più rilevanti, neppure per
cose di sua proprietà; non poteva esercitare il commercio
senza esplicito consenso del coniuge; non poteva intendere
una causa; non poteva testimoniare; non poteva far parte del
consiglio di famiglia. Si preferiva il sistema dotale, la cui
unica limitazione per il marito consisteva nel fatto che la
dote, in genere, era inalienabile. Nei confronti della moglie
che non possedeva neppure i beni della propria dote rimase
in vigore l’autorizzazione maritale per gli atti patrimoniali.
Facendo, poi, la donna acquisti necessari alla famiglia o
spese personali, affinché fossero essi stessi riconosciuti
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validi alcuni sostenevano che la moglie agisse per mandato
tacito del marito o con una sua autorizzazione o in qualità
di gestore degli affari del marito o nell’interesse di questi.
Per quanto riguarda le spese personali, dunque, si
stipulavano, all’atto del matrimonio, patti di trattamento,
definiti “patti di spillatico” (che si distinguevano in due
categorie: patti di spillatico “proprio” quando servivano per
spese personali liberamente decise dalla moglie o di
spillatico “improprio” se consisteva in un assegno mensile
del marito).
In ogni caso il Codice civile del 1865 portò alcuni
vantaggi. Ad esempio, a causa del riconoscimento della
maggiore età anche per la donna fissata a 21 anni, venne a
cadere l’antichissima norma del necessario consenso
paterno alle nozze della figlia. Però, per quanto concerne la
successione, il Codice del 1865, che pur ammette anche la
figlia alla successione ereditaria del padre e della madre,
continuava a favorire i maschi con alcuni strumenti legali.
Primo tra tutti stabilendo il padre per testamento possa
trasmettere il patrimonio familiare a un solo figlio tra
tanti, tranne una quota legittima sottratta all’arbitraria
volontà paterna.
Nel pubblico, la donna dell’Ottocento non poteva fare né
decidere nulla riguardo alla politica; non poteva votare né
essere votata; aveva rarissimi contatti con il mondo del
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lavoro e quando li aveva si basavano su rapporti di
sfruttamento.
Tanto la “Dichiarazione dei diritti della donna e della
cittadina” presentata nel 1793 da Olimpia de Gouges,
giovane provinciale che nella suddetta opera ebbe il
coraggio di sostenere che: “se le donne hanno il diritto di
salire sulla patibolo devono avere anche quello di salire
sulla tribuna”, ghigliottinata nel medesimo anno poiché
ritenuta da Robespierre pericolosa per la solidità e la virtù
della nuova famiglia borghese, quanto la “Rivendicazione
dei diritti della donna” di Mary Wollstonecraft (1792)
hanno la loro origine nella proclamazione egualitaria di
Condorcet e nei “cahier de dolèances et rèclamation de
femmes” presentati agli Stati Generali, la prima grande
assemblea della classe nobile.
Comunque, già a partire dal XV sec., alcune europee
avevano asserito, nei propri scritti, il diritto ad essere
considerate esseri umani e di conseguenza a decidere del
proprio destino. Si tratta di donne che si possono definire
le “femministe storiche” le quali, pur identificandosi con le
altre donne, rifiutavano una vita regolata da norme fatte da
uomini e imperniata sugli uomini, non accettando le
concezioni dominanti del tempo riguardo alla natura,
funzione, ruolo, valore relativi alle donne.
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Il femminismo storico, quindi, nasce da un sentimento di
opposizione e le prime femministe scrivono per sovvertire
l’ordine delle cose: sono donne colte che rivendicano il
diritto all’istruzione per le altre criticando le regole
sociali cui tutte sono debitamente soggette.
Il clima di rivolgimenti politici ed economici dei sec. XII
e XIII (la guerra civile inglese, la Rivoluzione francese del
1789, la Rivoluzione industriale) consentono loro di
intensificare le proprie rivendicazioni.
Le femministe europee del XIII e del XIX sec. invocano il
diritto alla cittadinanza e alla partecipazione politica. Nel
XIX secolo si dedicano, poi, ad organizzare movimenti
femminili, allo scopo di rivendicare, per il proprio sesso,
diritti politici e legali che vanno dalla custodia dei figli
minorenni alla proprietà privata, dall’istruzione pubblica al
voto. Così, fra il 1875 e il 1925, i movimenti per la parità
dei diritti conseguono molti dei loro obiettivi. Inoltre nel
contesto dei recenti movimenti socialisti fa la sua comparsa
anche un socialismo femminista che contestava le
condizioni malsane in cui erano costrette a lavorare le
donne.
Da qui, le femministe socialiste mettono in discussione i
modelli tradizionali che da secoli regolano e limitano il
lavoro delle donne; chiedono uguaglianza sul posto di
lavoro, l’accesso a lavori migliori, retribuzioni più alte,
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condizioni di lavoro meno penalizzanti e un’istruzione più
diffusa.
Nel XX sec. si giungerà, così, a rivendicare pari
opportunità tra uomini e donne nella scelta dell’impiego,
nell’accesso alla formazione professionale e nelle
possibilità di carriera.
Attraverso i sindacati, i partiti socialisti e le diverse
organizzazioni femminili, queste donne hanno allargato la
gamma di rivendicazioni femministe al mondo del lavoro
femminile, retribuito e non.
Controintuitivamente, poi, il primo Paese dove compaiono
leggi di tutela delle donne è l’Inghilterra vittoriana.
Infatti, nel 1842, viene emanato un decreto che vieta alle
donne, alle ragazze, ai bambini di meno di dieci anni di
lavorare nel sottosuolo. Ciò aprirà la strada ad altre
importantissime leggi di tutela. In ogni caso, le inglesi
sono le prime a rivendicare il diritto di voto nel 1831.
Nel 1848 viene fondato, poi, a Londra il “Queen’s College”
allo scopo di impartire alle donne un’istruzione
universitaria.
Nel 1857 il Parlamento inglese approva una legge sul
divorzio appena più liberale della precedente: prima di
allora, ogni divorzio richiedeva una legge separata dal
Parlamento, ora invece di prevede la separazione legale e i
coniugi possono divorziare nel caso in cui la moglie abbia
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commesso adulterio oppure nel caso in cui il marito abbia
commesso adulterio più un altro reato come l’abbandono o
la crudeltà estrema. Nel 1865 viene sollevata, nel
Parlamento inglese, la questione del suffragio femminile.
Comunque già agli inizi del XX sec. le inglesi hanno
ottenuto notevoli conquiste:
1) hanno il diritti di far parte dei consigli municipali e
scolastici;
2) possono diventare “poor-lawer officer” (figura
professionale simile all’attuale assistente sociale);
3) possono ricoprire la carica di ispettore di fabbrica;
4) possono votare nelle elezioni municipali e di contea, se
dispongono dei requisiti di censo.
Nel 1869, anno in cui a Londra viene pubblicato “The
subjection of Women” di John Stuart Mill ( uno tra i più
efficaci sostenitori del femminismo ottocentesco), le
inglesi ottennero abbastanza facilmente il voto
amministrativo grazie soprattutto alla campagna d’opinione
condotta dalla “Società Nazionale per il voto femminile”: la
conquista per il voto politico fu, invece, conseguita dopo
una lunga fase di lotte anche violente.
Figure inglesi di spicco furono quelle di Emmeline
Pankhurst e delle sue figlie le quali, insieme alle loro
seguaci, poiché richiedevano principalmente il diritto al
voto furono soprannominate ironicamente “suffraggette”.