9
bancaria, aumentando la complessità gestionale e organizzativa della
stessa.
La crescente concorrenza registratasi nei mercati finanziari di tutto il
mondo si è manifestata sia sotto forma di una maggiore competitività
all’interno dei circuiti creditizi fra banche che ha provocato, di riflesso,
una riduzione dei margini di interesse connessi all’attività tradizionale
di raccolta dei depositi e di concessione dei prestiti, sia sotto forma di
maggiore competitività fra circuiti creditizi e circuiti mobiliari.
“Se vedi un banchiere buttarsi dalla finestra, tu salta con lui…c’è
sicuramente qualcosa da guadagnare!”, così affermava Voltaire,
riferendosi alla grande capacità di reddito delle banche nel diciottesimo
secolo. Se questa fiducia nella capacità delle banche valeva fino a
qualche decennio fa, non mancano oggi invece esempi di banche che
mostrano difficoltà in termini di redditività a causa dell’incapacità delle
stesse di sapersi adeguare alle veloci trasformazioni del contesto
economico in maniera tempestiva, individuando gli strumenti più idonei
e concentrandosi su quelle aree critiche che possono divenire punti di
forza in termini di recupero del vantaggio competitivo e della
redditività.
Se è pur vero che tale problematica non riguarda soltanto il nostro
sistema bancario, ma tutte le economie mondiali, è necessario
comunque evidenziare come tale elemento di criticità si sia acuito nel
nostro Paese in seguito alla creazione della moneta unica e, quindi, ad
un confronto diretto con le altre banche europee.
Inoltre, occorre rilevare che il passaggio da una situazione di
iperintermediazione ad un sistema maggiormente competitivo ad alta
intensità concorrenziale tra le diverse tipologie di intermediari ed il
progressivo processo di disintermediazione che vede da un lato i
risparmiatori sostituire i depositi bancari con investimenti in attività
caratterizzate da un minor grado di liquidità e da un maggiore
10
rendimento (essenzialmente quote di fondi comuni di investimento) e,
dall’altro, parte delle imprese affidate ricorrere direttamente al mercato
dei capitali, se da una parte ha ridotto la redditività dell’intero
comparto bancario, dall’altra ha stimolato la ricerca di nuove soluzioni
gestionali, organizzative e di prodotto nonché l’apertura “obbligata”
all’innovazione finanziaria.
Le mutate condizioni dello scenario economico-finanziario e i suoi
riflessi in termini organizzativi, strutturali e regolamentari, hanno
posto, infatti, il management di fronte ad una necessaria ridefinizione
delle strategie aziendali e ad una maggiore attenzione verso quegli
aspetti della gestione che, a causa delle precedenti favorevoli
condizioni di scenario, erano state trascurate o messe in secondo piano.
L’attività delle banche si allontana sempre più dalla tradizionale attività
di intermediazione remunerata attraverso i flussi di interesse e tende,
invece, a configurarsi come un’attività di erogazioni di servizi
remunerata attraverso commissioni.
L’insieme delle tendenze evolutive delineate ha, inevitabilmente,
determinato un ampliamento dei rischi complessivi a carico
dell’intermediario creditizio.
Le banche, per compensare la crisi dei margini di intermediazione, oltre
ad indirizzare la propria attività verso l’erogazione di servizi, hanno
rivolto in maniera massiccia la propria operatività verso il trading di
strumenti finanziari, accrescendo l’esposizione ai rischi di tasso, di cambio e
di interesse. L’ampliamento dell’operatività ed il fenomeno della
despecializzazione hanno, quindi, provocato un aumento della vulnerabilità
degli intermediari alla variazione dei tassi ed il verificarsi sempre più
frequente di squilibri a livello di bilancio, derivanti dalla composizione
temporale dell’attivo e del passivo.
Diviene pertanto necessario gestire le diverse tipologie di rischio e i
loro effetti sulla gestione complessiva delle aziende bancarie.
11
Per questo, a livello internazionale, nel corso degli ultimi anni, ha
assunto valenza ed è stato oggetto di crescente attenzione il tema della
gestione dei rischi finanziari, da intendersi come “l’insieme dei criteri
di valutazione e di controllo delle principali fonti di rischio dell’attività
bancaria”
1
. D’altra parte, anche il principio della “sana e prudente
gestione” dell’impresa-banca richiede che il rischio sia conosciuto,
misurato e che il suo costo venga incorporato nei prezzi praticati alla
clientela.
In aggiunta ai fenomeni evidenziati, anche l’area tradizionale di
intermediazione è divenuta oggetto di crescente preoccupazione.
La ricerca di un recupero dei margini di intermediazione in aree diverse dalla
gestione denaro in senso stretto, non sempre, infatti, ha fornito dei risultati
soddisfacenti: il ridotto flusso, rispetto alle attese, dei redditi derivanti dai
servizi e la non sempre remunerativa gestione dei titoli di proprietà, ha
continuato a vincolare il bilancio delle banche all’intermediazione tradizionale
e ai risultati da questa conseguiti
2
.
Per tale motivo un corretto e moderno approccio alla gestione del
rischio di credito, come già in parte avviene per le altre tipologie di
rischi, appare sempre più come un tema rilevante, soprattutto se si tiene
conto proprio del fatto che, nonostante lo sviluppo dell’attività di
negoziazione, il rischio di credito riveste ancora una rilevanza notevole
rispetto al complesso dei rischi assunti e resta una delle principali
determinanti dei casi di crisi finora verificatesi. E’ importante
sottolineare come, tuttavia, un nuovo approccio alla gestione dell’area
crediti debba avvenire in maniera integrata con le altre tipologie di
rischio.
1
Cfr. Lusignani G. “La gestione dei rischi finanziari”, il Mulino, Bologna, 1996, p.9
2
Cfr. Ecchia S. “Il Rischio di credito: metodologie avanzate di previsione delle insolvenze”,
Giappichelli, Torino, p.4.
12
Tale rinnovata attenzione verso il rischio di credito, sia a livello di
singoli affidamenti che a livello di portafoglio, si è sviluppata lungo
diverse direttrici.
Innanzitutto, si è assistito ad una crescente diffusione e ad un inteso
sviluppo dei sistemi di scoring introdotti originariamente verso la fine
degli anni settanta come strumenti di supporto alle decisioni di
affidamento ed al monitoraggio delle esposizioni creditizie. A partire
dai modelli di scoring basati sull’analisi discriminante tali strumenti
sono stati oggetto di un continuo processo evolutivo, che ha reso
disponibili, negli anni recenti, sofisticati sistemi di selezione del rischio
di credito basati su strumenti quantitativi come le reti neurali, gli
algoritmi genetici o la logica fuzzy.
La maggiore attenzione nei confronti del rischio di credito è
riscontrabile anche nella crescente diffusione di dati e di informazioni
relative al merito creditizio di tutti i soggetti che richiedono capitale di
debito al sistema finanziario.
Negli anni recenti, si è, infatti, registrato la nascita di un numero
crescente di società specializzate nell’offerta di informazione relative il
rischio creditizio degli affidati (società di rating) e ad un progressivo
ampliamento delle informazioni che queste società rendono
pubblicamente disponibili alle istituzioni finanziarie che si trovano a
dover misurare e gestire il rischio di credito (tassi di insolvenza,
matrici di transizione per classi di rating, tassi di recupero, ecc.).
Accanto a questo affinamento degli strumenti per gestire il rischio di
credito a livello individuale si è assistito anche alla diffusione ed allo
sviluppo di modelli di misurazione del rischio volti a fornire una stima
non solo dell’esposizione di una singola esposizione ma anche
dell’intero portafoglio di impieghi, individuando, di conseguenza,
anche l’assorbimento di capitale ad esso connesso.
13
Si tratta dei modelli recentemente sviluppati da alcune istituzioni
finanziarie internazionali che propongono di estendere la logica Value
at Risk (Var), sviluppata inizialmente per i rischi di mercato, anche al
rischio di credito.
L’obiettivo finale di tali sistemi di risk management è fornire una
misura integrata dell’esposizione al rischio connesso alle diverse
attività svolte da una istituzione finanziaria e, soprattutto, di
determinare stime omogenee che consentano di verificare la redditività
corretta per il rischio sostenuto in ogni attività, anche allo scopo di
realizzare un efficace processo di allocazione del capitale. In questo
senso, l’utilizzo di tali modelli assume una valenza strategica, in quanto
allocare in modo efficiente il capitale consente di migliorare la
redditività del patrimonio e, quindi, creare valore per gli azionisti.
Infine, una crescente attenzione nei confronti del rischio di credito è
riscontrabile anche da parte delle autorità di vigilanza le quali,
consapevoli dei limiti e dei potenziali effetti distorsivi connessi allo
schema di adeguatezza patrimoniale originariamente introdotto dal
Comitato di Basilea nel 1988, sono attualmente impegnate nell’analisi
della possibilità di riforma di tale schema ed, in particolare, della
possibilità di sostituire i requisiti patrimoniali standard attualmente in
vigore con un sistema di modelli interni così come proposto per i rischi
di mercato.
Oltreché dal perfezionamento dei modelli e dei sistemi di misurazione
del rischio interni alle banche, la gestione del rischio di credito è stata
accompagnata anche dalla nascita e dalla diffusione di un insieme di
nuovi strumenti e tecniche gestionali che in estrema sintesi consentono
di trasferire il rischio di credito implicito in ogni operazione d’impiego
a soggetti distinti rispetto alla banca: ci si riferisce in particolare allo
sviluppo delle operazioni di titolarizzazione degli attivi bancari
(securitization), alla crescita ed alla diffusione di un mercato
14
secondario dei prestiti (loan sales), ed alla nascita degli strumenti
derivati per la gestione del rischio di credito.
Questi tre elementi, oltre a consentire la trasformazione di attività
illiquide legate al bilancio dell’intermediario che le aveva generate fino
alla loro naturale scadenza in attività negoziabili, rendono possibile la
separazione fra la funzione di origination del credito, cui è
indiscutibilmente legata la relazione di clientela, dalla necessità di
conservare in bilancio il singolo asset e quindi l’assunzione del relativo
rischio di credito.
L’insieme delle considerazioni svolte costituisce la base di partenza del
lavoro di questa tesi che non pretende certamente di fornire una
trattazione esaustiva delle tecniche e delle metodologie a disposizione
per gestire il rischio di credito, ma intende passare in rassegna alcuni
temi rilevanti, soffermandosi in modo particolare sugli strumenti più
innovativi a disposizione del management bancario per affrontare
questa complessa ed in continua evoluzione tipologia di rischio.
In modo particolare, ampio spazio sarà dedicato ai modelli di
portafoglio di misurazione del rischio di credito basati sulla logica Var,
ma anche attenzione particolare sarà rivolta agli altri strumenti
disponibili che possono costituire un valido ausilio al contenimento del
rischio a livello di singolo affidamento.
Il primo capitolo si sofferma sulla definizione del concetto di rischio,
introducendo la distribuzione normale quale strumento di analisi del
rischio secondo la teoria di portafoglio.
Viene, inoltre, fornita una classificazione delle diverse tipologie di
rischio che caratterizzano l’attività di intermediazione ed esaminati il
rischio di credito ed il concetto di gestione integrata dei rischi,
sottolineando come tale tipologia di rischio non possa essere comunque
trattata in maniera isolata dalle altre.
15
Il secondo capitolo è dedicato all’analisi delle metodologie tradizionali
e delle soluzioni emergenti in tema di valutazione del rischio di credito
connesso ad un singolo affidamento. Dopo aver introdotto le tecniche
tradizionali di valutazione del rischio di insolvenza, il capitolo dedica
ampio spazio ai modelli di scoring e ai più recenti sistemi di stima
della probabilità di insolvenza che si avvalgono dell’Intelligenza
Artificiale come i Sistemi Esperti, le reti neurali, gli alberi decisionali,
gli algoritmi genetici e la logica fuzzy.
La parte conclusiva del capitolo invece illustra le più recenti tecniche
di gestione del rischio di credito che si stanno affermando a livello
internazionale e la cui diffusione è attesa anche nel nostro mercato
come la securitization, i loan sales ed i credit derivatives.
Il terzo capitolo offre una disamina dei modelli per la quantificazione
del rischio di credito basati sulla logica Var che, a livello teorico,
possono essere utilizzati da un intermediario per stimare il capitale
assorbito da una singola posizione o dall’intero portafoglio impieghi.
In particolare, la prima parte del capitolo è dedicata all’esame dei
modelli Var per il rischio di mercato, distinguendo tra modelli
parametrici e non parametrici : l’obiettivo è di introdurre il concetto di
Valore a Rischio, illustrarne le origini e le logiche che ne hanno
favorito la diffusione. La seconda parte del capitolo è specificamente
rivolta alla possibilità di “estendere” tale avanzata metodologia anche
all’area crediti.
Tre, nello specifico, sono gli approcci esaminati: l’approccio della
distribuzione delle perdite, ritenuto maggiormente coerente con il
sistema italiano, l’approccio CreditMetrics sviluppato dalla banca
commerciale J.P.Morgan ed , infine il modello ExVar elaborato dalla
Bank of Japan.
Il quarto capitolo analizza gli aspetti di natura operativa ed
organizzativa connessi all’introduzione di un moderno approccio di
16
credit risk management. In particolare, nel corso del capitolo si cerca di
analizzare come i nuovi approcci si inseriscano nella struttura
organizzativa esistente, individuando le figure e le funzioni che saranno
chiamate a presidiarne il loro corretto funzionamento, coerentemente
con le nuove tendenze strategiche emergenti (Relationship Banking,
Business Process Reenginiring) e nel rispetto delle indicazioni
provenienti dalla vigilanza.
L’ultimo capitolo, infine è dedicato all’approccio seguito dalla vigilanza nella
misurazione del capitale associato all’esposizione creditizia. Il capitolo
partendo dall’attuale disciplina dei coefficienti patrimoniali illustra il percorso
evolutivo della normativa in corso, soffermandosi sul ruolo assegnato ai
sistemi di controllo interno ed illustrando le proposte di modifica alla
disciplina corrente avanzate da alcune prestigiose istituzioni a livello
internazionale, quali l’International Swaps and Derivatives Association
(ISDA), l’International Institute of Finance (IIF) e la Federal Reserve, e dal
Comitato di Basilea.
17
CAPITOLO 1
I RISCHI DELL’ATTIVITA’ CREDITIZIA
1 Il concetto di rischio: un modello di riferimento
Ogni soggetto che svolge un’attività di tipo economico è esposto
all’eventualità che i risultati finali realizzati siano diversi da quelli
attesi. Il probabile verificarsi di tale fenomeno prende, propriamente, il
nome di “rischio”.
Il rischio esiste sempre nel momento in cui esiste incertezza su quale
stato di natura, tra infiniti possibili, si manifesterà in un dato momento
futuro. In definitiva, la concezione di “rischio” è normalmente
riconducibile ad eventuali scostamenti dei risultati ottenuti rispetto ai
valori attesi, causati dell’impatto di fattori aleatori sulle variabili in
oggetto. Il manifestarsi, infatti, di un evento futuro nei suoi aspetti
qualitativi e quantitativi dipende dal concorso di un insieme di fattori di
difficile individuazione e determinazione nel loro influire, nonché
molteplici e mutevoli. Una parte importante del processo di previsione
del rischio consiste nell’anticipazione dello scenario che interesserà la
formazione dell’accadimento futuro; ma ciò non è sufficiente ad
esaurire il problema, in quanto all’individuazione dei fattori in grado di
influire sul risultato finale, non corrisponde la certezza che gli stessi
opereranno, in quanto essi potranno operare, non operare o potranno
risultare di peso diverso da quello previsto. La situazione esposta è
propria di uno stato di incertezza.
Infatti, le ipotesi di decisioni prese in condizioni di incertezza hanno
come condizione costitutiva e imprescindibile la casualità con cui si
18
manifestano i diversi stati di natura possibili. L’incertezza degli eventi
è ineliminabile e la sua esistenza, essendo legata a quella degli
accadimenti stessi e del loro succedersi nel tempo, costituisce la
matrice di qualsiasi rischio
3
.
In definitiva, l’esistenza di un rischio è un problema strettamente
connesso a quello dell’esistenza dell’incertezza. Tuttavia, anche se i
concetti di rischio e incertezza sono collegati, essi non s’identificano. Il
problema definitorio della differenza tra rischio e incertezza ha
interessato la letteratura di carattere economico sin dai primi del
novecento. Il primo tentativo di definizione di rischio e incertezza
risale all’opera di Knight del 1921
4
.
Secondo Knight è possibile distinguere tra “incertezza misurabile” ed
“incertezza non misurabile”, assegnando il termine “rischio” per la
prima e “incertezza” per la seconda.
Di certo, l’incertezza non si identifica con l’impossibilità di definire le
manifestazioni di un fenomeno, in quanto, in condizioni di incertezza, il
verificarsi di un fenomeno e l’epoca in cui si verifica non sono noti a
priori secondo valori unici, ma possono assumere molteplici valori,
secondo una certa distribuzione di probabilità. Se è possibile desumere
questa distribuzione di probabilità in via sperimentale (nel caso, in
particolare, di fenomeni di natura fisica), si possono effettuare delle
scelte su basi quantitative, essendo nota a priori la probabilità dello
scostamento rispetto al valore atteso. L’eventualità, così determinata,
del verificarsi dello scostamento rappresenta quello che propriamente
viene definito “rischio”. Nel caso in cui i fenomeni in considerazione
siano di tipo economico, bisogna passare dall’utilizzo di un concetto di
probabilità oggettiva (secondo il cosiddetto approccio frequentista),
1
Si veda a proposito B.De Finetti,- F.Emanuelli “Economia delle assicurazioni” , UTET, Torino,
1967, pp..31-32
4
Cfr. F.Knight,“ Risk , Uncertainty and Profit”, ripubblicato, Kelley, New York, 1964.
19
all’utilizzo di una probabilità di tipo soggettivo (approccio
soggettivista). Infatti, l’operatore che dovrà compiere delle scelte,
dovrà individuare delle distribuzioni di probabilità che, seppur in parte
fondate su dati empirici, risentono di elementi di soggettività
5
. Di
conseguenza, pur in presenza di uno stesso accadimento, le
distribuzioni di probabilità saranno differenti da operatore ad operatore,
poiché differenti saranno le informazioni a disposizione e la capacità di
interpretazione delle stesse
6
. Una volta individuata questa distribuzione
di probabilità “soggettiva” bisogna includere nel processo di decisione
un ulteriore elemento di natura prettamente soggettiva: il grado
specifico di avversione o propensione al rischio che dipende da fattori
personali e da fattori esterni influenti sotto il profilo psicologico
7
.
L’atteggiamento decisionale di fronte al rischio può dunque essere di
8
:
1. avversione, tipica degli investitori che preferiscono rendimenti attesi
bassi, abbinati a rischi altrettanto bassi. Tale situazione è la più
frequente: gli investitori saranno disposti ad accettare incrementi di
3
La distinzione così delineata tra probabilità oggettiva e il relativo approccio frequentista e probabilità
soggettiva (approccio soggettivista) ha dato luogo per lungo tempo a un dibattito tra economisti e
matematici circa l’approccio migliore per trattare problemi di natura economica soggetti a incertezza.
Chiude definitivamente tale dibattito K.J.Arrow, che in un famoso articolo pubblicato nel 1951,
(Alternative Approaches to the Theory of Choice in Risk-Taking Situation, in Econometrica, Vol 19,
pp. 404-437) evidenzia come l’atto di prendere una decisione sia estremamente soggettivo in quanto
dipende dalle condizioni soggettive e dalle preferenze di chi le prende, nonché dalle informazioni a
disposizione e dalla loro distribuzione di probabilità. Per un approfondimento, in breve, su tale
dibattito e le soluzioni in questa direzione avanzate si rimanda a R.Locatelli “Rischio e
intermediazione nelle banche e negli assicuratori”, Il Mulino, Bologna,1995, p.109 e ss.
6
Per un discorso più approfondito e recente si rimanda a L.Guiso-D.Terlizzese “Economia
dell’incertezza e dell’informazione”, Hoepli, Milano, 1993.
7
Possono essere considerati fattori esterni sotto il profilo psicologico l’andamento congiunturale,
l’influenza dei mass media, il grado di sicurezza ed il tipo di lavoro e l’entità di capitale a
disposizione. Cfr. S.Ecchia, a cura di, “Il rischio di credito, metodologie avanzate di previsione delle
insolvenze” , Giappichelli, Torino, 1996, pp. 17-18.
8
Cfr. S.Ecchia [1996] p.18.
20
rischio solo se combinati con incrementi più che proporzionali del
rendimento atteso;
2. propensione. È il caso più raro, ed è la situazione opposta alla
precedente: l’investitore è propenso a minimizzare le perdite e a
massimizzare l’utilità attesa dei profitti;
3. neutralità, rappresenta l’astrazione teorica: l’investitore opererà le
sue scelte in base alla pura speranza matematica dei profitti. Al
variare della combinazione rischio/rendimento offerta dai possibili
investimenti passerà da un investimento all’altro sempre seguendo
questo criterio oggettivo, accettando incrementi di rischio solo se
combinati con incrementi del rendimento atteso tali da migliorare
quella speranza matematica.
In generale, è possibile concludere affermando che, ogni qualvolta un
operatore deve assumere una decisione, egli non si baserà
esclusivamente sui valori della speranza matematica, ma, in quanto
influenzato dalla sua specifica psicologia del rischio, altererà le
valutazioni o le indicazioni che ne emergono , interpretandole alla
luce del contesto personale, ambientale, ossia alla luce della propria
“funzione di utilità”. Le decisioni di investimento, quindi, effettuate in
base alla speranza matematica, possono essere ritenute accettabili solo
se si combinano i risultati dei modelli matematico-statististici utilizzati
con l’intuizione e le scelte discrezionali e si accettino tutti i risultati
probabili.
21
xi
pi
0
Figura 1.1: Distribuzione normale delle probabilità
1.1 La distribuzione normale come strumento di analisi del rischio
Uno strumento di analisi del rischio, che trova la sua fondatezza negli
studi matematici, probabilistici e statistici, si basa sull’assunzione della
distribuzione normale come rappresentativa dei fenomeni economici di
cui si cerca la soluzione
9
.
Si ipotizzi che i risultati di un investimento possano essere
rappresentati su un diagramma, con riferimento ad un sistema di assi
cartesiani e che i valori attesi (xi) siano rappresentati sull’asse delle
ascisse, mentre le rispettive probabilità (pi) sull’asse delle ordinate.
Si otterrà la seguente curva (figura 1.1):
9
Il modello di distribuzione normale esposto è tratto da L.Staffico “I flussi di cassa nelle decisioni di
investimento”, Giuffrè, Milano , 1987, pp. 87-94 e da A.Sironi, “La gestione dei rischi di mercato: il
metdo del capitale a rischio” in P.L. Fabrizi, a cura di, “Nuovi modelli di gestione dei flussi finanziari
nelle banche”, Egea, Milano, 1995, pp..516-521.