INTRODUZIONE
Con l’espressione Lessico Psicologico si intende una forma particolare di
linguaggio caratterizzata da sostantivi, verbi e aggettivi che si riferiscono
non a oggetti reali, ma a Stati Mentali propri e altrui.
Nelle conversazioni spontanee, i bambini sono in grado di parlare di Stati
Interni, riferirsi a se stessi o agli altri, dalla fine del secondo anno di vita
(Bretherton e Beegly, 1982; Camaioni e Longobardi, 1997; Dunn, 1998),
facendo riferimento soprattutto a percezioni, desideri ed emozioni, mentre
più tardivamente, dal terzo anno di vita, compaiono i riferimenti a stati
cognitivi, ad esempio attraverso l’uso dei verbi “pensare” e “sapere”
(Wellman, 1991).
Il riferimento agli Stati Mentali è considerato un indicatore di una “Teoria
della Mente” del bambino; infatti l’età in cui i bambini cominciano a
produrre i termini cognitivi, emotivi e volitivi, coincide con quella in cui gli
stessi bambini attuano comportamenti considerati predittori e correlati della
Teoria della Mente, come ad esempio il gioco di finzione (Lillard, 1993),
nel quale sono implicati meccanismi simili a quelli responsabili della
produzione dei termini psicologici (Leslie, 2004). La capacità di far
riferimento a Stati Mentali evolve a partire dalle fasi più precoci dello
sviluppo linguistico e successivamente si consolida in relazione al processo
di scolarizzazione ed attività, quali la composizione e la comprensione dei
testi. Proprio per questo motivo i testi narrativi sono considerati uno
strumento per la comprensione della psiche umana e per la costruzione della
Teoria della Mente (Bruner, 1990).
La tesi è articolata in tre capitoli, i primi due introducono la cornice teorica
del Lessico Psicologico, mentre nel terzo capitolo si descrivono i risultati
della ricerca.
Nel primo capitolo vengono illustrati gli aspetti del pensiero narrativo
individuati da Bruner (1986;1990;1991) e le tre forme di narrazioni, quali
le esperienze personali, gli script e le storie di fantasie, esponendo i fattori
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che influenzano lo sviluppo della competenza narrativa, come le differenze
culturali nei modi di raccontare e le strategie dei genitori per elicitare le
narrazioni.
Nel secondo capitolo vengono descritti quattro approcci della Teoria della
Mente: la teoria modularista, la Theory-theory, la “simulation theory” e
l’approccio interazionista. Viene esposto come il linguaggio è un correlato
della Teoria della Mente, in quanto strumento con cui i contenuti vengono
illustrati nel discorso che circonda il bambino, ed espressione spontanea
delle sue conoscenze sulla mente e i suoi stati, con l’utilizzo del Lessico
Psicologico. Si approfondiscono le caratteristiche e l’evoluzione del Lessico
Psicologico, vengono inoltre presentati alcuni studi che hanno analizzato lo
sviluppo di tale linguaggio in età prescolare e scolare.
Il terzo capitolo presenta lo studio, che fa parte di un progetto di ricerca più
ampio, centrato sulla relazione tra Lessico Psicologico e Teoria della
Mente. L’obiettivo è confrontare l’uso di termini che denotano Stati Mentali
all’interno di tre prove narrative, (Storia Inventata, Storia Personale e Storia
Ipotetica) somministrate a bambini di terza classe della scuola primaria
(Camaioni et al., 1992; Camaioni et al., 1998, Longobardi e. al. 2008).
I risultati della ricerca hanno evidenziato che i testi prodotti per la prova
intitolata “Storia Ipotetica” sono più lunghi in termini di numero di parole e
proposizioni. Per quanto riguarda l’uso del Lessico Psicologico, non è
emersa alcuna differenza tra le prove narrative. Da un’analisi più
approfondita è stato evidenziato un uso diverso delle categorie di Lessico
Psicologico nelle tre storie, in particolare, nelle Storie Ipotetiche sono più
frequenti i termini Percettivi, (ad esempio vedere, sentire), mentre le Storie
Personali si contraddistinguono per un utilizzo maggiore di termini
Emotivi, sia Positivi sia Negativi, (ad esempio voler bene, litigare), di
termini Volitivi (ad esempio desiderare e riuscire) e di termini Morali (ad
esempio ammirare, dovere).
Un ulteriore dato interessante riguarda la correlazione tra i parametri
linguistici presi in esame (Lessico Psicologico, Struttura narrativa e
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sintattica) relativamente alle Storie Inventate e Personali. Infatti la varietà e
la frequenza di Riferimenti a Stati Mentali è correlata significativamente
con la produzione di testi più completi e articolati sul piano narrativo.
Inoltre è emerso che la complessità sintattica delle Storie Inventate e
Personali, definita in base alla presenza di proposizioni subordinate, correla
significativamente con l’uso del Lessico Psicologico.
In definitiva, questo studio, seppur circoscritto ai bambini di terza classe
della scuola primaria, contribuisce a delineare la relazione tra Lessico
Psicologico, abilità narrative e complessità sintattica come espressione di
una capacità di Teoria della Mente che diviene più complessa nel corso
dello sviluppo.
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CAPITOLO I
LA NARRAZIONE
1.1 Il pensiero narrativo
S’ipotizza che alla base di qualunque tentativo di dare un senso alla
esperienza umana, ci sia un particolare tipo di pensiero e che esso guidi
anche la comprensione e la produzione di testi narrativi.
Fin dalla più tenera età ci si trova immersi, nel mondo delle narrazioni, non
solo fiabe, favole e storie più o meno canonizzate nella cultura in cui si vive
ma racconti di esperienze della vita quotidiana in cui i personaggi sono
familiari o addirittura noi stessi come nei racconti autobiografici.
Sono racconti, a volte salienti ma molto spesso quotidiani e ripetitivi, che
s’intrecciano e si annodano per costruire l’identità della persona (Smorti,
1997; Cavarero 1997). Le narrazioni sono quindi precoci, spontanee poiché
si manifestano senza pressioni ambientali o specifiche istruzioni.
Ciò fa ipotizzare la presenza di una disposizione della mente umana a dare
forma all’esperienza per mezzo della narrazione; Bruner (1986) ipotizza che
esista una forma di pensiero comune a tutti gli esseri umani, che si esprime
attraverso la narrazione e che permette di comunicare i significati che si
colgono dalle esperienze, di mettere in relazione il passato con il presente e
rappresentare gli individui come soggettività dotate di scopi, piani e valori.
Il pensiero narrativo è una forma di pensiero che si basa sulla logica delle
azioni umane, delle relazioni tra le azioni e gli stati interni corrispondenti
(intenzioni, affetti, emozioni e valori). La sua finalità non è la verità o la
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spiegazione dei fenomeni (come il pensiero scientifico) ma la comprensione
e l’interpretazione dell’esperienza.
Il pensiero narrativo e il discorso narrativo sono caratterizzati da una serie
di proprietà (Bruner 1986; 1990; 1991).
1. Sequenzialità: nelle narrazioni gli eventi sono disposti lungo un
processo temporale e hanno una durata.
2. Particolarità e concretezza: le narrazioni trattano essenzialmente di
avvenimenti e di questioni non generali e astratte, ma specifiche riguardanti
le persone.
3. Intenzionalità: indica come la narrazione riguarda le azioni umane, le
intenzioni, pensieri e sentimenti.
4. Opacità referenziale: il rapporto tra senso e referenza non è univoco, il
valore delle realtà è in sospeso (Quine, 1961), infatti nelle narrazioni non si
può parlare in termini di verità o falsità, di realismo o di immaginario, ma
solo di verosimiglianza.
5. Ermeneuticità: gli eventi che compongono la storia possono essere
compresi in rapporto al contesto che li contiene. L’interdipendenza parte-
tutto determina una circolarità ermeneutica che rende inadeguato qualsiasi
strumento di analisi di tipo esplicativo o causale. La narrazione è sempre
prodotta a partire dal punto di vista del narrante, ed è recepita in base al
punto di vista dell’ascoltatore. Il significato della narrazione dipende anche
dall’interpretante (Peirce, 1960), cioè dalla rappresentazione che il soggetto
ha del mondo e che media la relazione segno-referente.
6. Violazione della canonicità: ciò che distingue una narrazione da altre
forme di racconto è la rottura di una processualità “normale” degli eventi;
ad un certo momento della storia avviene un imprevisto, un evento
precipitante che crea una situazione di squilibrio, facendo così deviare il
corso delle azioni, la narrazione affronta contemporaneamente la canonicità
e l’eccezionalità. Fin quando un comportamento è adeguato alla situazione,
rispetta certe norme di previsione e si presenta come autoesplicativo (Baker,
1978). Quando esso viola queste aspettative di adeguatezza, la narrazione
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prende in esame le ragioni di questa eccezione costruendo un mondo
possibile nel quale questa eccezione acquista significato. Ciò può essere
fatto trovando uno stato intenzionale che mitiga o renda comprensibile lo
schema concettuale canonico (Lucariello, 1990; Fleisher Feldman, Bruner,
Render, Spitzer, 1990).
7. Composizione pentadica: una narrazione è formata da cinque elementi,
attore, azione, scopo, scena, strumento (Burke, 1945).
8. Doppio scenario: narrare significa coordinare tra loro due diversi
scenari: lo scenario dell’azione (la successione dei fatti) e lo scenario della
coscienza (i sentimenti, i pensieri, le intenzioni dei personaggi, oltre che del
narratore stesso) (Greimas e Courtes, 1976).
11. Incertezza: la narrazione si svolge secondo un livello di realtà incerto.
Il linguaggio è metaforico e “ congiuntivo”. Esso esprime la possibilità non
tanto ciò che accade, quanto ciò che potrebbe o dovrebbe accadere.
Queste proprietà fanno del pensiero narrativo una funzione della mente
profondamente legata ad altri aspetti dello sviluppo: l’intenzionalità situa lo
sviluppo del pensiero narrativo nel più ampio contesto riguardante lo
sviluppo cognitivo, affettivo e sociale, l’opacità referenziale è legata alla
capacità di rappresentazione, non solo perché nelle narrazioni vengono
rappresentate le credenze e i punti di vista altrui, ma anche perché queste
credenze vengono rappresentate come rappresentazioni (Astington, 1990).
Il pensiero narrativo è un modo universale di organizzare e dare un senso
all’esperienza, ma le forme in cui esso si esprime sono culturalmente
determinate: ogni cultura, attraverso i proprio sistemi simbolici quali il
linguaggio, le modalità del discorso, le forme della vita sociale, le
narrazioni, con i valori e credenze in esse rappresentati, fornisce i significati
e il senso dell’esperienza umana.
Che cosa merita di essere raccontato, in che modo, a chi e in quali
circostanze: questo è ciò che deve essere conosciuto da ciascun membro di
una data cultura.
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I contenuti e le forme della narrazione vengono trasmessi ai bambini fin da
quando sono molto piccoli, intessendo intorno a loro una trama di racconti,
storie, narrazioni, fiabe e favole.
Questo insegnamento implicito sui valori fondanti, sulle credenze, sulle
interpretazioni della realtà, sul significato da attribuire alla propria e
all’altrui esperienza, è importante quanto ciò che una cultura trasmette
attraverso l’istruzione esplicita.
Poiché la narrazione è una forma di comunicazione facile, interessante,
emotivamente carica che realizza nel modo più naturale il bisogno degli
adulti di entrare in relazione con i bambini, Bruner (1990) ha ipotizzato che
la comunicazione narrativa svolga un ruolo rilevante per l’acquisizione del
linguaggio che è acquisito per riferirsi alla propria esperienza soggettiva e
intersoggettiva; esso rivela tutto il suo potere conoscitivo e comunicativo
nei contesti in cui la diade madre-bambino coopera per il raggiungimento di
uno scopo comune.
La giornata dei bambini è scandita da attività quali la pappa, il bagnetto, il
gioco sul tappeto, guardare un libro seduti sulle ginocchia di un adulto; le
parole per le cose e per le azioni, servono a incorporare in strutture
comunicative i momenti salienti di queste situazioni condivise, di questi
contesti intersoggettivi che andranno a costituire la storia della bambino e di
chi se ne prende cura.
In sintesi nell’evoluzione della persona, il linguaggio servirebbe, prima
ancora che al pensiero paradigmatico, al pensiero narrativo.
Questa ipotesi è sostenuta dagli studi sulle prime produzioni infantili i quali
confermano, che il racconto delle esperienze personali costituisce la più
semplice struttura narrativa (Labov e Waletsky, 1967).
Il terzo anno di vita è cruciale per lo sviluppo della capacità di costruire
racconti. Miller e Sperry (1988), osservando longitudinalmente cinque
bambine tra i 2 e i 2.6 anni, hanno verificato che a questa età si manifesta la
capacità di raccontare eventi accaduti tempo prima, soprattutto facendo
riferimento a piccoli incidenti di cui si è stati protagonisti o ai quali si è
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assistito; i racconti erano accompagnati da espressioni verbali che
esprimevano lo stato emotivo associato agli episodi che, evidentemente, era
troppo difficile codificare linguisticamente.
Il ruolo dell’adulto è importante per aiutare il bambino a capire quali
informazioni fornire affinché il racconto sia comprensibile.
Peterson e McCabe (1994) hanno trovato che la tendenza manifestata da
alcune madri, quando i figli avevano 2 anni, a chiedere precisazioni
riguardo chi fosse presente, dove e quando si fosse svolto l’evento
raccontato, era predittiva dell’inserimento di queste informazioni nei
racconti prodotti all’età di 3 anni e mezzo.
Una delle evoluzioni più significative è quella di interpretare un fatto o un
evento alla luce degli stati interni dei personaggi; ciò che distingue una
storia vera e propria da un evento è una situazione imprevista che viola una
aspettativa o un canone (Lucariello 1990); tale violazione può essere colta e
risolta solo tenendo conto delle emozioni di coloro che agiscono nella
narrazione.
Già a 4 anni i bambini sembrano sapere che una storia è interessante perché
presenta un evento problematico, che il protagonista deve fronteggiare e
risolvere; quello che manca ancora è la capacità di esplicitare i suoi stati
interni (desideri, intenzioni ed emozioni). Trabasso e colleghi (1989),
infatti, hanno trovato che a 3 e 4 anni i racconti prodotti riguardano
principalmente azioni e oggetti presenti nei librini mostrati e che solo a 5
anni, le sequenze di azioni vengono raccontate in funzione dello scopo cui
sono dirette e vengono fornite spiegazioni sulle motivazioni dei personaggi;
tuttavia solo a 9 anni vengono prodotte storie strutturalmente complesse e
coerenti. In seguito si affina la capacità, che continua a maturare per tutta
l’età adulta, di compiere delle analisi e delle valutazioni più raffinate sulle
motivazioni dei personaggi, sulle loro disposizioni e caratteristiche
psicologiche.
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