INTRODUZIONE
“PolØmos è padre di tutte le cose”, diceva Eraclito, “la guerra compare in
tutte le cose ed è ineliminabile”; la guerra, che fin dal principio fu posta dagli
uomini in cielo, gli dèi la amano, e ad essi gli uomini fanno sacrifici propiziatori e
dopo la vittoria immolano i prigionieri e lasciano una parte del bottino. Venne
così legata al mondo morale delle cose lecite e sante e il guerriero valoroso parve
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il migliore degli uomini”.
Ben riassumono queste poche righe l'atteggiamento che da sempre l'uomo
ha avuto nei confronti della guerra dove, fatta eccezione del mondo cinese, che
guardava ai guerrieri come ai briganti, e del buddismo, si trattava ovunque di
bellicissimo sentimento universale.
Naturalmente oggetto di studio lungo l'avvicendarsi dei secoli, ci si rende
subito conto come sia difficile comprenderne pienamente il senso, sia partendo da
un punto di vista storiografico dove se ne descrive la storia la modalità e
l'intreccio con l'evoluzione della società e della politica, sia da un punto di vista
piø tecnico relativo alla strategia, ci si accorge come sia difficile coglierne i
significati. Allora è da un punto di vista filosofico e politologico che si opera,
rispondendo alle domande: “perchØ si fa la guerra?” e poi: “che cosa significa la
guerra?”, ma ancora le risposte non sembrano essere definitive.
E se da “polØmos” deriva “scienza delle guerre”(ovvero la polemologia) e da
“werra” (germanico) “la mischia” Rabelais individuava in “bellum” quel risaltare
della qualità della bellezza che avviene in guerra, la stessa esaltazione della bellezza
di cui parla Nietzche e che per de Maistre diventa sinonimo di divinità.
Dal lato opposto, in “La Repubblica” Platone afferma che la guerra è vanità
ovvero “massima fonte di mali privati e pubblici” intendendola come un surplus
1
Da Note di polemologia <http://www.enzino.net/page 3.html>, 2001.
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che lo stato va cercando dandone un'argomentazione semplice e perentoria che
lascia senza parole per la sua indiscutibilità, e Voltaire percorrendo la stessa scia
ironica la definisce stupida, ove tutti sono d'accordo sul “fare il maggiore male
che si può se ci sono cinque o sei soldi da guadagnare”.
Per Hobbes l'essenza della guerra non è nell'atto del combattere ma nella
manifesta intenzione a farlo, e si manifesta “durante il tempo in cui gli uomini
vivono senza un potere comune che li tenga in soggezione, essi si trovano in
quella condizione che è chiamata guerra, e tale guerra è di “ogni uomo contro
ogni altro uomo”, quindi per Hobbes la guerra non è il singolo conflitto, ma è una
condizione in cui la dimensione della pace è residuale. Se invece si vogliono
studiare le guerre da un punto di vista empirico degli uomini e dei mezzi impiegati
sono utili le opere di Wright, Singer e Richardson che offrono una costruzione
fisiologica della guerra basata sull'osservazione diretta, e così facendo proseguono
un'opera di sistematizzazione delle conoscenze empiriche cominciata nel
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Novecento.
Un quadro teorico sistematico viene offerto da Clausewitz, per il quale, la
guerra è “la continuazione della politica con altri mezzi”, definizione che noi a
posteriori notiamo invertirsi sotto l'esperienza della guerra fredda, quando,
essendo il conflitto continuamente minacciato, finisce paradossalmente per
diventare sempre piø improbabile portando a essere la politica continuazione della
guerra con altri mezzi.
Nella sua opera “Della guerra”, Clausewitz mostra inoltre una forte
tendenza alla guerra assoluta che alcuni interpretano come una sua forte
vocazione militaristica ma che si può leggere come la restituzione di un immagine
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pura e teorica del conflitto come scontro passionale estremo ed illimitato.
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Questi grandi progetti di ricerca sono rispettivamente: “A study of war”, 1942, “Correlates of war
project”, e “Statistics of deadly quarrels”, 1960.
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Clausewitz, K. Von, Della guerra, trad. it. Mondadori, Milano, 1970. In quest’opera si trova
anche la definizione piø qualificante di guerra intesa come “quell’atto di forza che ha per iscopo di
costringere l’avversario a sottomettersi alla nostra volontà” da cui si ricavano le caratteristiche
definitorie del concetto di guerra, che sono: intenzionalità, collettività e violenza.
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Pensieri ed approcci diversi che risentono dell'influenza del tempo in cui
vengono formulati, influenzati dal tipo di struttura della società e della loro
capacità produttiva, così come dell'organizzazione degli eserciti e dalle
innovazioni tecnologiche (di certo grandi cambiamenti avvengono nel passaggio
tra età del ferro ed avvento della polvere da sparo), e politiche (ad esempio la
nascita dello Stato moderno, con le sue concezioni che diventano piø complesse,
come quella marxista, dove la guerra politica è il tentativo di chi ha il potere di
esasperare le passioni nazionali e religiose per stravolgere la sola lotta permanente
che è la lotta di classe) o come la nascita dell'idea di nazione, o il formarsi della
sovranità popolare.
Grandi cambiamenti si hanno con la rivoluzione industriale che apporta novità
alla portata di qualsiasi conflitto (basti pensare alla velocità dei movimenti dovuta a
navi e automobili) sino a raggiungere livelli estremi di violenza con i conflitti della
modernità, alla guerra totale dei totalitarismi e alla guerra paradosso del periodo
dell'equilibrio del terrore, sino alle guerre post-bipolari: globalizzate e illimitate.
Nel corso della storia neppure la religione (Cristiana) ha condannato la
guerra (salvo il Buddismo), infatti nonostante i precetti di fratellanza e amore
verso il prossimo, essa non si è risparmiata di avventurarsi nel teorizzare la guerra
giusta, al Cristianesimo evangelico che si presentava come compimento
dell'ebraismo adoratore del “Dio degli eserciti”, risuonò rivoluzionaria la
condanna della guerra, infatti si diceva: ”Chi colpisce di spada, perirà di spada!”.
Già S.Agostino accettava la guerra se espressione della volontà di Dio,
mentre dopo le crociate S.Tommaso concludeva la teoria della guerra giusta in
queste condizioni: l'autorità del principe, la giusta causa e l'intenzione retta.
Esplorare la sfera della giustificazione delle guerre, aiuta a comprendere il
mondo di ieri (e quello di oggi visto che le immagini di città bombardate alla
televisione vengono spesso associate le parole “guerra giusta”) ed apre il discorso
che riguarda le guerre illegittime in cui sono stati coinvolti il Medio Oriente e i
Balcani in questo ultimo ventennio.
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Ma se da un lato la definizione guerra giusta significa dare un giudizio
morale, da un altro punto di vista si entra in un campo dove è il diritto il
parametro attraverso cui misurare una guerra, e allora il diritto va in guerra, e
nella sfera del diritto internazionale, nasce il concetto di guerra legittima; con
Grozio la guerra è assimilabile ad un processo, svuota la parola “giusta” dalle sue
dimensioni morale e religiosa, e la guerra diventa giusta se condotta secondo le
regole del diritto bellico.
Il discorso verterà sulle guerre combattute dopo la caduta del muro di Berlino,
dopo il declino dell'Unione Sovietica, dove la sola superpotenza rimasta in piedi
erano gli Stati Uniti, e in quel momento tra loro e la totale egemonia politica ed
economica si ergevano ormai solamente l'Onu e in modo meno evidente l'Unione
Europea: sarà con la guerra contro l'Iraq del 2003 che sarà piø lampante questo
tentativo degli Stati Uniti di rovesciare un sistema sovranazionale che può avere gli
strumenti necessari per impedire il conseguimento degli obiettivi della loro politica
estera (anche nelle guerre nei Balcani e in quella in Afghanistan la comunità
internazionale aveva espresso il suo dissenso in quanto illegittime, ma non si era
arrivati a una contestazione così ampia come in Iraq nel 2003, dove si richiedeva in
maniera forte il rispetto della legalità).
Probabilmente se nel parlare di guerre illegittime assumerò un tono
eccessivamente critico e forse parziale, e prediligendo autori che si sono impegnati
contro le forze che hanno causato quelle guerre è perchØ scrivo con la convinzione
che nel tempo e nei luoghi in cui vivo, regni una sorta di confusione,
premeditatamente organizzata e orchestrata dalle grandi potenze (e dai loro
“protetti”), prodotta dall'operare fuorviante e meschino di buona parte di quella rete di
mass media che fa entrare tutti i giorni nelle nostre case un dato numero e tipo di
informazioni che spesso non sono altro che piccoli input che hanno lo scopo di dare
una comunicazione omogenea ed acritica che ci distolga dal tentativo di comprendere
i fatti del nostro tempo per indurci a dare il nostro tacito consenso alle azioni
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deplorevoli che questa classe dirigente intraprende spesso in nome di cause molto
meno nobili di quanto dica.
Infatti, se da un lato il nuovo ordine economico e geopolitico e sociale si
impone oggi attraverso l’esercizio del controllo su ogni forma di espressione umana,
dove vengono condizionate sempre di piø le nostre aspettative e scelte di vita,
dall'altro, la comunicazione, nell’era globale, è un collante fondamentale per tutti e
tutti ne diveniamo strumenti, prodotti e riproduttori, utilizzandola ne assumiamo e
trasmettiamo i significati, i sottintesi, le omissioni; vale a dire, tutto ciò che crea senso
comune, criteri di giudizio, opinione, consenso.
Diveniamo così sicuri che il sistema in cui viviamo sia il migliore e di aver
raggiunto un livello di sviluppo al quale tutti volenti o nolenti dovranno adattarsi,
intimamente certi che libertà, democrazia e giustizia ci appartengano, siano
proprie della nostra civiltà, e che chiunque le attacchi diventa nemico.
E se qualcuno osasse chiedersi che cosa siano quella pace, libertà, giustizia che ora
sono messe in pericolo e su quali presupposti si fondino, ecco che uscirebbe dai
parametri che ordinano questo sistema e diventerebbe immediatamente nemico.
Ecco perchØ ritengo necessario interrogarsi e chiedersi se davvero il
terrorismo è terrorismo e se davvero stiamo sventolando i baluardi di libertà e
democrazia o se non siamo solo parte di un grande “matrix” ove è necessario
distogliere la nostra attenzione dalla realtà affinchØ non arriviamo a renderci conto
di quanto stiamo sacrificando.
Anche il linguaggio a cui veniamo abituati ci porta in un mondo che ne
annebbia le sfumature e le parole diventano armi di disinformazione di massa,
bombardati da informazioni, decontestualizzate, incomplete, e spesso manipolate,
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dove il “doublespeak”non è utilizzato solo dai politici ma anche dai giornalisti.
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Termine coniato da Gorge Orwell nel 1946 che indica un uso del linguaggio finalizzato a
manipolare l’informazione che viene data, è un codice usato per ottenere approvazione su qualcosa
quando in realtà sto parlando di altro, ad esempio: “strategia dello shocking and awe” sta per
bombardamento massiccio, “costruire una nazione”, suona meglio di imporre o influenzare un
determinato sistema politico, così come definire il nemico “asse del male” dona la qualifica di
protettore del bene per l’umanità.
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Si configurano così due modi di agire a seconda del target: nei paesi
occidentali attraverso una martellante propaganda mediatica che convince
all'indispensabilità di provvedimenti presi per la salvaguardia da attacchi
terroristici e richiede di raggiungere livelli di profitto sempre piø alti (in piena
libertà individuale, dove il perseguimento della felicità nella libera impresa e
nell'acquisizione di beni si contrappone all'intolleranza per ogni forma di
intervento e controllo dello Stato) e nei confronti dei paesi non occidentali
attraverso l'esportazione di libertà e democrazia ma dietro cui si nascondono
interessi economici ed egemonici.
Sono guerre da vendere come i famosi panini, (ci sono agenzie specializzate
in pubblicità e pubbliche relazioni finanziate dall'amministrazione americana con
lo scopo preciso di produrre libri, o gestire i mass media con lo scopo di creare
determinate reazioni nell'opinione pubblica!), sono guerre in cui comunque alla
fine l'America la fa franca nel diritto internazionale penale, e continua la sua
cavalcata impunita ed indomita.
Se da una parte tutto ciò è assai scoraggiante, secondo l'intellettuale
americano Noam Chomsky, è avvenuto però un cambiamento nell'opinione
pubblica americana dall'amministrazione Reagan a quella di Bush, grazie ad un
movimento pacifista radicato nella società civile che rende sempre piø arduo il
lavoro di chi deve riuscire a giustificare guerre terribili dalla potenza micidiale e
devastatrice che continuano a sacrificare vite innocenti e ad annientare intere città
con le loro infrastrutture e risorse in nome della vecchia causa imperialista.
Molte menzogne dunque. Come il terrorismo, si guardi all'Italia, dal 2001 ad
oggi si è parlato in continuazione di misure antiterrorismo, quando però non vi è
stata neanche una vittima dovuta ad attacchi terroristici ma si ignorano i morti
ammazzati dalla criminalità organizzata, dalla 'ndrangheta per esempio, che è
ancora troppo radicata nelle frange della pubblica amministrazione per essere
debellata.
Il terrorismo che viene usato per infondere paura, sentimento forte, la paura,
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che quando diventa collettivo rasenta la psicosi, col suo effetto virulento fa
impazzire l'assetto sociale, a tutto beneficio delle società investigative che
crescono a dismisura insieme ad una serie di rapporti ad hoc di monitoraggio del
terrorismo accuratamente redatti dallo stesso Dipartimento Americano o meglio
ancora dalla Cia.
La guerra è spesso propaganda e mistificazione della realtà e sta a noi allora
cercare la verità. Ma la realtà della guerra così come la realtà della miseria,
dell'ignoranza, dell'ingiustizia non sono condizioni necessarie della società
umana. C'è chi lotta contro quella realtà.
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CAPITOLO 1
TERMINOLOGIA E CONTESTO
1.1 La guerra tra male e bene, chiarimenti terminologici
Il dato ineluttabile che riscontriamo nel parlare di guerra è che nascendo con
l'uomo, ancora non si è trovato modo di debellare l'umanità dalla sua esistenza.
Ciò che è certo è che se per alcuni la guerra è male assoluto (oggi queste persone
vengono chiamate pacifiste e irrealiste!), vi sono correnti di pensiero che
assumono la guerra in altre ottiche, frutto dei tentativi nella storia dell'uomo di
dare giustificazione a uccisioni e distruzioni: vorrei illustrarle in quanto ai giorni
nostri si richiamano spesso termini propri di quelle teorie.
Dal naturale separarsi in pacifisti e bellicisti (o anche interventisti), sono
nate teorie che frapponendosi fra questi due estremi, cercavano di giustificare le
guerre, ed è così che venne di volta in volta, a seconda dei punti di vista concepita
la guerra, come male minore, come male necessario, poi ancora come un bene,
sino ad arrivare alla guerra come sanzione, conseguente alla violazione di un
diritto, (andando così a ripristinarlo) o come riparazione dovuta a quella
violazione.
Se concepita come male minore, in quanto male si contrappone ad un bene
che è la pace, il quale non è detto che sia un bene assoluto, ad esempio per alcuni
la pace è un bene concorrente ad altri ad esempio il benessere, e la pace in quanto
bene viene così relativizzato permettendoci di relativizzare anche il suo opposto
che è la guerra il quale sebbene sia un male, tra altri mali assumerà il carattere di
male minore.
Dai filosofi della storia che concepiscono l'antagonismo (anche quello che
sfocia in conflitto) funzionale al progresso umano la guerra è considerata male
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necessario, cioè la guerra diventa un male da cui nasce un bene, un male che è
teleologicamente necessario, cioè è un mezzo per raggiungere un fine
desiderabile, è cioè un male giustificato, e a seconda della definizione di
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progresso, la guerra servirà al progresso morale, civile o tecnico.
Insieme a chi la vede come un male necessario, ci sono pensatori, perlopiø
storicisti, che la giustificano invece come un male apparente, cioè un male che
nasconde un bene, in senso teologizzante o razionalizzante, ad abbracciare questo
secondo modo di vedere è Kant, secondo il quale “forse la guerra nasconde
disegni di saggezza suprema per prepararci all'unione di stati liberi in un sistema
moralmente fondato”.
Non mancano coloro che intendono la guerra come un bene, o oggetto di
esaltazione, da Nietzche, per il quale è la guerra che può render santa ogni causa e
non viceversa, la memoria va alle poesie di D'Annunzio e all'esaltazione che
scaturisce dal futurismo di Tommaso Marinetti, che cito per la sua incredibile
dedizione alla violenza come espressione di un dinamismo fine a sØ stesso e non
al raggiungimento di obiettivi: "Noi vogliamo glorificare la guerra - sola igiene
del mondo [...], il militarismo, il patriottismo, il gesto distruttore dei liberatori, le
belle idee per cui si muore e il disprezzo della donna. Vita= aggressione. Pace
universale= decrepitezza e agonia delle razze. [...]. Soltanto la guerra sa
svecchiare, accelerare, aguzzare l'intelligenza umana, alleggerire ed aerare i
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nervi...guerra sola igiene del mondo".
Infine troviamo una teoria collocabile tra pacifisti (coloro per cui una guerra
è sempre illecita) e interventisti (cui basta il fatto che la guerra sia l'attuazione di
un potere sovrano per definirla lecita), ovvero la teoria della guerra giusta (da
distinguersi come vedremo piø avanti dalla guerra santa), e che assume particolare
rilievo in questo lavoro in quanto analizzerò se e in che modo gli osservatori
5
Cfr. N.Bobbio, Il problema della guerra e le vie della pace, Il Mulino, Bologna, 1979.
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Queste le parole di Marinetti nel manifesto: "In quest'anno futurista" indirizzato agli "studenti
d'Italia" e datato 29 settembre 1914.
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