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INTRODUZIONE
Il motivo per il quale ci si appassiona e si decide di scrivere a riguardo di un argomento
come il panico non è mai immediatamente chiaro. Inizialmente, si tratta di intuizioni
confuse che, man mano, prendono forma scorrendo centinaia di articoli scientifici,
pagine di manuali di psicologia e psichiatria.Ad un certo punto si delinea con forza che,
in tutte queste pagine, si celano racconti di uomini e donne, di ogni età e contesto
sociale, che hanno agito il loro sintomo come strategia per vivere come meglio era loro
possibile. Il panico è parte della loro vita, nella singolarità della personalità di ognuno, è
un messaggio che ci invita a guardare oltre, è un disagio contemporaneo che merita
un‟attenzione che va aldilà della descrizione fenomenologica del Disturbo di Panico
fornita dal DSM IV-TR.Sintomo di un malessere sociale diffuso, espressione della
fragilità che caratterizza il nostro tempo, il panico si rivela essere un disagio, a volte
insostenibile, che si ribella ad ogni semplificazione diagnostica e categoriale. Pertanto,
le linee di riflessione che nascono dalla Teoria della Complessità consentono di cogliere
il senso profondo di una realtà psicopatologica così sfaccettata e polimorfa.
La lettura di Edgar Morin, filosofo e sociologo francese, padre del pensiero della
complessità, ha illuminato il mio percorso in questa direzione.
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Ricordando le sue parole: " Oggi vediamo che le scienze biologiche e fisiche sono
caratterizzate da una crisi della spiegazione semplice. E di conseguenza quelli che
sembravano essere i residui non scientifici delle scienze umane - l'incertezza, il
disordine, la contraddizione, la pluralità, la complicazione ecc. - fanno parte oggi della
problematica di fondo della conoscenza scientifica". E ancora: " La complessità è
difficile. Quando si vive un conflitto interiore il conflitto può essere tragico: non è un
caso se grandi menti hanno sfiorato la pazzia. Penso a Pascal, penso a Holderlin, penso
a Nietszche , penso ad Artaud. Si tratta di convivere con la complessità e con la
conflittualità cercando di non sprofondarvi dentro e cercando anche di non infrangerci
contro di esse. In questo senso l'imperativo della complessità è ciò che chiamo la
dialogica. "
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Edgar Morin è noto per l'approccio transdisciplinare grazie al quale ha superato i confini tra varie
discipline, trattando un'ampia gamma di argomenti. L'autore ha dedicato gran parte della sua opera ai
problemi di una riforma del pensiero, affrontando le questioni centrali che pone alla base delle sue
riflessioni sull'umanità e sul mondo: la necessità nella nostra epoca di una nuova conoscenza che superi
la separazione dei saperi e che sia capace di educare ad un pensiero della complessità.
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Cfr. Morin, 1983.
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L‟aspetto che si pone in tutta la sua urgenza trattando del panico è prima di tutto la
sofferenza, la paura, l‟angoscia, fino allo sfociare in un disturbo vero e proprio, nella
patologia.
Tuttavia, l‟attacco è da leggere anche come l‟esteriorizzazione di un messaggio che
guida in una trasformazione di vita fondamentale e positiva. Normalmente, abbiamo
poca consapevolezza delle nostre emozioni positive, che sono poi le nostre risorse.
Siamo concentrati sul malessere.
Citando F.M. Dostoevskij [1989]: “a volte l‟uomo è straordinariamente,
appassionatamente, innamorato della sofferenza”.In Memorie del Sottosuolo, l‟autore
scrive: “Fra l‟altro io sono convinto che alla vera sofferenza l‟uomo non rinuncia mai.
La sofferenza è l‟unica fonte di consapevolezza. E sebbene all‟inizio io abbia ammesso
che la consapevolezza è la più grande disgrazia per l‟uomo, io so però che l‟uomo l‟ama
e non la scambierebbe con nessun genere di soddisfazione.” [1989, p.40].
Il sintomo, in realtà, è anche un'abbagliante apertura alla vita, una possibilità di
riscrivere la propria storia, di ricostruire il percorso per ritrovare il proprio posto nel
mondo.
I primi due capitoli di questo lavoro sono un‟argomentazione sul panico, in un‟ottica di
complessità, che considera l‟influenza sulla nostra esistenza del contesto storico e del
mondo simbolico che costituisce la cultura umana del momento in cui viviamo.
Ogni tentativo di semplificare la realtà clinica e ogni conoscenza ed esperienza che non
sia letta in una prospettiva relazionale e complessa, si rivelerebbe precaria. Il panico si
manifesta come esperienza individuale ma è la profonda espressione di una rete
relazionale e sociale che non fornisce alla persona le competenze per reggere la
complessità dell'esistenza. Non c'è diagnosi che non debba essere continuamente
riformulata nell'orizzonte intersoggettivo della relazione e che sfugga alla ricerca del
senso e alla soggettività della persona che soffre.
Assumendo come filo conduttore una riflessione sull‟epistemologia del panico, il mio
interesse si è rivolto poi, nel terzo capitolo, alla possibile terapia del disturbo a esso
correlato.
Emergerà dalla lettura di questo lavoro che la cornice di riferimento è psicodinamica,
La dialogica è il riconoscimento che la relazione fra opposti è insieme antagonista e complementare, non
prevede conciliazione, ed ha valenza positiva come nella dialettica hegeliana.
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attraverso lo studio di Freud, dei pionieri della psicoanalisi e di autori che ne hanno
trasformato certi assunti e che oggi ne costituiscono le basi.
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Nello spazio dei possibili approcci psicoterapeutici, ho scelto poi di approfondire il
Cognitivo-Comportamentale (che le ricerche dimostrano essere particolarmente efficace
nel trattamento degli attacchi di panico), di introdurre un‟argomentazione sulla
Psicofarmacologia impiegata nel Disturbo di Panico e di proporre una trattazione
dell‟approccio EMDR (Eye Movement Desensitization and Reprocessing).
L‟EMDR è un metodo ideato dalla psicologa statunitense Francine Shapiro a partire dal
1987, per intervenire su disagi che possano essere collegati ad esperienze traumatiche di
diversa natura e che conservano un‟influenza sulla vita della persona.
Esperienze traumatiche gravi (come maltrattamenti, abusi, incidenti, lutti ) così come
microtraumi ripetuti nel tempo, apparentemente senza conseguenze nell‟immediato,
sono fattori che possono in realtà concorrere all‟origine del Disturbo di Panico nella
persona.
L‟attacco di panico è definito dalle persone che lo vivono come un‟esperienza che non
si può esprimere verbalmente, è una sofferenza indicibile.
L‟impossibilità di condividere il vissuto del panico rende evidente la necessità di
trovare anche dimensioni terapeutiche che, per usare le parole dello psicoanalista Daniel
Stern [1998], si pongano “al di fuori della dicibilità” .
L‟esperienza qualitativamente diversa delle persone con questo disagio e il suo
incremento nella nostra società rappresentano la sfida di ogni modello di psicoterapia e
può (e forse dovrebbe) essere il terreno di confronto e produttiva integrazione tra i
diversi approcci, e non di reciproca esclusione.
Il quarto capitolo del mio lavoro è proprio una riflessione sulla produttività
dell'integrazione tra differenti approcci teorici e di intervento terapeutico.
La rigidità e lo scarso contatto tra le diverse scuole provoca disorientamento,
smarrimento in noi studenti che ci affacciamo al ventaglio di possibilità che il vasto
numero di indirizzi di psicoterapia offre e, ancor più, nei pazienti che si trovano a dover
affrontare una scelta che confonde.
In realtà, a mio avviso, sono individuabili tra i vari modelli più punti di contatto
piuttosto che di differenza, tale da permettere una loro produttiva integrazione.
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Bowlby, Sullivan, Winnicott, Horney, Kohut, solo per citarne alcuni.
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Il presupposto ineliminabile che ogni persona è unica nelle sue difficoltà, così come
nella maniera di superarle, dovrebbe unire, piuttosto che dividere.
Nel caso specifico del Disturbo di Panico, ho provato ad illustrare come la Terapia
Cognitivo Comportamentale possa essere arricchita da strategie di intervento
provenienti da altre tradizioni terapeutiche, come il metodo EMDR, in un approccio di
tipo integrato.
La complessa origine bio-psico-sociale del panico giustifica le difficoltà nel giungere a
una soluzione del disturbo e impedire la cronicizzazione.
Il soggetto che ne soffre dovrebbe essere posto in una condizione terapeutica in cui
l‟attenzione verso la sintomatologia e l‟assunzione di farmaci sia un primo passo che lo
conduca al trattamento psicoterapeutico.
La realtà clinica del panico può essere, pertanto, colta solo mediante un‟ottica
multidisciplinare e solo partendo dal presupposto che, al di sopra di ogni orientamento
teorico, è la relazione stessa che cura, in un discorso che privilegia sempre le
caratteristiche della persona, alla quale adattare l‟intervento terapeutico, mai il
contrario.
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CAPITOLO I
Il Panico, una psicopatologia emergente
"Seduta alla finestra guardava la sera invadere il viale. Teneva la testa appoggiata
contro le tendine e sentiva nelle narici l’odore del cretonne polveroso. Era stanca.
Poca gente per strada. Passò l’inquilino della casa di fondo che rientrava. Sentì i passi
risuonare sul marciapiede di cemento, poi lo scricchiolio della ghiaia sul sentiero
dinanzi alla fila di costruzioni nuove, color mattone.
Un tempo c’era un campo laggiù e loro solevano giocarci ogni sera, insieme agli altri
ragazzi del quartiere. [...]
Molti anni erano passati da allora: adesso lei e i suoi fratelli e sorelle s’erano fatti
grandi e la mamma era morta. Anche Tizzie Dunn era morto e i Water erano tornati in
Inghilterra. Come tutto cambia! Toccava a lei ora d’andarsene come gli altri, lasciare
la casa. La sua casa![...] Forse non li avrebbe più rivisti quegli oggetti, dai quali mai
aveva immaginato di doversi separare un giorno. [...] Sì, aveva acconsentito ad
andarsene, a lasciare la casa. Ma era ragionevole da parte sua?
Si sforzava di prendere in considerazione ogni lato del problema. Lì almeno non le
sarebbero mai mancati cibo e alloggio; né, quel che più conta, le persone che era
avvezza a vedersi intorno sin dalla nascita. [...] Nella casa nuova, però, in un paese
lontano e sconosciuto, non sarebbe andata così. Sarebbe stata una donna maritata lei,
Eveline, e la gente le avrebbe usato rispetto. Non si sarebbe lasciata trattare come sua
madre, no. Ancora adesso, per quanto avesse già diciannove anni compiuti, le avveniva
a volte di temere la violenza paterna.[...]
C’erano poi le eterne discussioni per i soldi, il sabato sera; discussioni che la
sfinivano. Dava lo stipendio intero in famiglia - sette scellini alla settimana - e Harry
mandava quanto poteva; ma il guaio era cavarli al padre, i quattrini. Era una
spendacciona, le diceva, una scervellata e non se la sentiva lui di darle i soldi
guadagnati con tanta fatica per vederli buttare dalla finestra; questo e altro le diceva,
perché era sempre di cattivo umore il sabato sera. Alla fine però glieli dava e le
chiedeva se non aveva per caso l’intenzione di comperare qualcosa per il pranzo della
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domenica. [...] Un lavoro duro, sì, una vitaccia; eppure, ora che stava per lasciarla, già
non la trovava più così insopportabile.
Ne avrebbe cominciata un’altra, adesso, con Frank. Era buono e forte Frank, e di
cuore generoso. Sarebbe andata via con lui quella sera, col piroscafo della notte.
Sarebbe andata via per diventare sua moglie e vivere con lui a Buenos Aires nella casa
che l’aspettava. [...]
Naturalmente il padre era venuto a saperlo e le aveva proibito d’avere a che fare con
lui. «...Li conosco, va’ là, questi marinai!...» aveva detto. Un giorno avevano litigato,
Frank e il padre, e da allora avevano dovuto vedersi di nascosto. [...]
Il tempo passava ma lei rimaneva lì seduta presso la finestra, la testa appoggiata
contro le tendine e l’odore polveroso del cretonne nelle narici. Giù dal viale saliva il
suono di un organetto. Lo conosceva quel motivo. Strano che venisse proprio quella
sera a rammentarle la promessa fatta alla madre, la promessa di tenere insieme la
famiglia fintanto che avesse potuto. [...] E mentre stava lì a meditare, la penosa visione
della vita della madre operava nel più profondo del suo essere una specie di maleficio;
una vita di sacrifici meschini conclusasi nella pazzia finale. [...] S’alzò di scatto.
Fuggire! Fuggire doveva! Frank l’avrebbe salvata. Le avrebbe dato vita e forse anche
amore. E voleva vivere lei! Perché avrebbe dovuto essere infelice? Anche lei aveva
diritto alla felicità. [...]
Era alla stazione di North Wall, in mezzo alla folla ondeggiante. Egli la teneva per
mano[…] Taceva, si sentiva le guance pallide e fredde. Se fosse partita, domani si
sarebbe trovata in alto mare, con Frank, diretta a Buenos Aires. Avevano già fissato i
posti.
Come poteva tirarsi indietro dopo tutto quel che aveva fatto per lei? [...] Una campana
le rintoccò sul cuore. Sentì ch’egli l’afferrava per mano. [...]Tutti i mari del mondo le
s’infrangevano sul cuore.
E lui la trascinava dentro, la voleva annegare. Con ambo le mani s’aggrappò alla
cancellata. [...]
No! No! No! Era impossibile. Le mani strinsero freneticamente le sbarre. [...] Lo vide
correre al di là dei cancelli, chiamandola perché lo seguisse. [...] Volse allora gli occhi
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verso di lui la faccia pallida, passiva, come un povero animale impotente, e i suoi occhi
non gli diedero alcun segno d’amore o di addio o di riconoscimento".
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Una delle prime donne presenti nell'opera di James Joyce è Eveline, protagonista
dell'omonimo racconto in Gente di Dublino.
E' una storia vera, un vero "caso clinico", filtrato da elementi di immaginazione poetica,
aggiunti con raffinata consapevolezza psicologica.
Eveline è una ragazza in conflitto con il mondo, ma ancor prima con se stessa.
Joyce non ne descrive il carattere o l‟aspetto fisico, ma ne delinea una personalità
complessa e multiforme, attraverso il racconto delle sue vicende.
Eveline, stanca ormai di tutto ciò che le è abituale, è sulla soglia di un grande
cambiamento esistenziale. Ha diciannove anni, fa la commessa, dopo la morte della
madre vive con il padre ed i suoi fratelli maggiori. Eveline “Sentiva nelle narici l‟odore
del cretonne polveroso...”, l‟odore di qualcosa che è ormai vecchio, monotono.
Il suo innamorato le offre la possibilità di cambiare, di trasgredire. Egli vuole strapparla
alla sua vita monotona per poi trasferirsi insieme in America del Sud.
Eveline però è ancorata ai suoi doveri: l'atteggiamento oppressivo del padre la intristisce
ma non la induce alla fuga e la promessa fatta alla madre, in punto di morte, di tenere
unita la famiglia rinforza l'insidioso senso di colpa.
La libertà è una scelta troppo difficile per lei. E‟ influenzata dal mondo esterno a tal
punto che non riesce ad ascoltare se stessa.
Il fondamento della sua identità è nel suo passato, nell'appartenenza alla sua famiglia
che le impedisce di concepire nuovi orizzonti: Eveline deve prendere il posto della
madre morta, questo è l'imperativo dominante nel profondo, che le impedisce di
emanciparsi, che la ancora al passato fino all' alienazione.
Il debito di appartenenza la imprigiona e la vincola, reprimendo la sua più intima
soggettività. Il suo presente è lacerato tra la possibilità di uscire dai confini del suo
mondo, di rendersi autonoma e il dovere di restare ancorata ai valori del suo sistema
famigliare d'origine, al passato, alla volontà altrui.
Sorge il dubbio.
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Joyce, 1974
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L'ansia irrompe allora inevitabile: un attimo di panico, il terrore di impazzire, l'angoscia
della depersonalizzazione.
Ogni strutturazione psicopatologica della personalità poggia su un dubbio non risolto,
sia esso affettivo, comportamentale o ideologico.
La parola dubbio deriva dalla medesima radice etimologica del termine numerico due. Il
dubbio è la duplicità che s‟insinua nel nostro pensiero, la scissione e quindi,
potenzialmente, un'identità doppia.
Come ricorda la filosofia di ogni epoca, la posizione etica dell'individuo origina sempre
dalla scelta, ovvero dalla risoluzione del dubbio.
Un simile discorso si può rapportare alla vita psicologica.
Per quanto la coscienza umana sia imprescindibilmente relazionale, dialettica e quindi
duale, il dubbio non risolto porta alla cristallizzazione del conflitto intrapsichico che ne
sta alla base, alla confusione, alla rigidità.
Risolvere il dubbio non significa, di fatto, rinunciarvi.
Significa, piuttosto, trasporlo ad un livello di coscienza più complesso e integrato.
L'attacco di panico è il segnale psicosomatico che scatta nel momento in cui l'identità
ordinaria di una persona viene improvvisamente e violentemente in contatto con una
seconda identità, antitetica e destrutturante nei confronti della prima.
Pensieri e sensazioni di disagio affiorano come una critica al sistema dell'io consolidato
e generano angoscia: è l'incontro con la dualità, uno slittamento da un'identità ad
un'altra, fino a quel momento sconosciuta e, quindi, destabilizzante.
Eppure, da un certo punto di vista, gran parte di ciò che ci permette l‟evoluzione
personale è data dalla possibilità dell‟incontro con il diverso, l'altro da sé.
Può accadere, nella propria esistenza, di arrivare ad un certo punto in cui diventa
inevitabile fare i conti con la propria dimensione interiore e di sentire di essere portatore
di un malessere psicologico che rende faticoso ogni atto, anche il più semplice.
Qual è il problema principale? Pochi riescono a fermarsi a riflettere per rendere
possibile l‟incontro con sé stessi.
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La sensazione di trovarsi in una via senza uscita è uno dei vissuti più strazianti di chi
soffre di attacchi di panico ed è, spesso, accompagnato dall‟idea di un fallimento
personale che invade ogni situazione vitale.
Il dubbio, in questo caso, origina dal conflitto tra il bisogno di appartenenza e quello di
autonomia, tra i valori conformi alla propria intima natura e i modi collettivi di
pensiero. Nel mezzo c'è uno spazio di trasformazione durante la quale l'individuo è in
balia dell'ansia.
Il panico sopraggiunge, allora, come segnale, come crisi di rifiuto nei confronti della
propria identità e delle relazioni psicologiche e sociali che la costituiscono.
Eveline si arresterà, così, sulla soglia del panico, senza attraversarla.
Il senso di colpa la ferma un attimo prima della crisi e la giovane donna sceglierà di
sopprimere i suoi bisogni personali: tradisce sé stessa piuttosto che venir meno ai
doveri imposti dal suo sistema famigliare.
1.1 Il Disturbo di Panico
Ogni storia è la storia di qualcuno.
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E‟ interessante notare quanto l‟esperienza del panico sia intrinsecamente legata
all‟etimologia del termine.
La parola “panico” deriva dal nome dell‟antico dio greco Pan, una divinità non
olimpica, mezzo uomo e mezzo caprone.
Il nome del dio greco deriva dal greco “paein”, che letteralmente significa tutto e,
infatti, secondo la mitologia, Pan era lo spirito di tutte le creature naturali .
La mitologia greca racconta che Pan si fosse affiancato agli ateniesi durante la battaglia
di Maratona, costringendo i Persiani alla fuga in preda al terrore.
Altri racconti narrano che Pan venne visto fuggire per la paura da lui stesso provocata.
Il termine “peur panique”, sembra essere stato utilizzato per la prima volta da Francois
Rabelais, scrittore e umanista del rinascimento francese, nel 1534. Il panico divenne
poi una situazione umana e psicopatologica ampiamente conosciuta dai grandi psichiatri
clinici del 1800 e del 1900.
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Bruner, 1992
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Lo stesso Freud [1987], in una lettera a Wilhem Fliess
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, descrive una sua crisi,
descrizione che non può non rimandarci al panico così come oggi lo conosciamo:
“[…] d‟un tratto sopravvennero poi disturbi cardiaci […] una violentissima aritmia, una
tensione cardiaca, un senso di pressione e bruciore costanti alla regione del cuore, una
corrente di calore nel braccio sinistro, qualche accenno di dispnea [respiro affannoso ],
tutto ciò mi accadde sotto forma di attacchi, che si protraevano per due terzi della
giornata ed erano accompagnati da un senso di oppressione sull‟umore, che si
esprimeva con immagini di morte e di decesso..”.
Le origini del panico nell‟ambito clinico sono, invece, ben più recenti: nella letteratura
classica si parlava di crisi d’ansia acuta.
Attualmente, per il riconoscimento dei quadri psicopatologici, si fa riferimento a
strumenti di diagnosi descrittiva dei disturbi mentali.
E‟ stata una questione ampiamente controversa il fatto che il panico dovesse o meno
essere considerato un quadro clinico distinto rispetto agli altri disturbi ansiosi.
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Il DSM-II, nel 1968, influenzato dalla nosografia accettata fino a quel momento,
suddivideva i Disturbi d’ansia in Nevrosi d’ansia e Nevrosi fobiche.
Questa dicotomia rifletteva solo la differenza clinica tra condizioni d‟ansia collegate ad
uno stimolo definito e condizioni d‟ansia più generali, senza causa specifica apparente.
Per la prima volta, nella terza edizione del Diagnostic and Statistical Manual of Mental
Disorder, l‟American Psychiatric Association [1980] introdusse la categoria diagnostica
del “Disturbo da attacchi di panico\agorafobia”, caratterizzato dal fatto che la persona
presentasse, almeno per un certo periodo, attacchi di panico ripetuti e inaspettati, quindi,
slegati da situazioni contingenti e specifiche.
Questo diede a sua volta un impulso notevole alla ricerca dei meccanismi che lo
caratterizzavano.
Strumenti quali il DSM offrono il vantaggio di descrivere le situazioni di disagio
psichico attraverso un linguaggio codificato e ateoretico e si fondano su una vasta base
empirica.
L‟attacco di panico non è diagnosticabile come un disturbo a sé stante, in quanto lo
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Fliess era un otorinolaringoiatra tedesco che nel 1887 incontrò Freud ed instaurò con lui, per anni,
un'amicizia intensa.
7
Cfr. Borgna, 1997, p. 53