1.1 Michail Bulgakov: l’artista, il potere, Molière
Michail Afanas’evič Bulgakov è un uomo che ha molto amato. Ha adorato la sua
famiglia, ha idolatrato la letteratura, il teatro.
Il primo romanzo, La guardia bianca, è un’ode a valori come la pace, l’amore, il decoro
e a principi come il buon gusto, la cultura, l’onestà intellettuale che sono propri della
famiglia Bulgakov e ne esprimono il modo di vita. Non soltanto nella Guardia bianca,
ma anche in molte lettere e pagine di diario, traspare l’immensa fedeltà dell’autore verso
i suoi cari, l’attaccamento per la vecchia e amata casa al numero 13 dell’Andreevskij
spusk e per la città natale, Kiev.
In una lettera all’amico Pavel Popov, egli scrive: “ A volte, quando nei miei tristi sogni
rivedo il paralume, la tastiera del pianoforte, la partitura del Faust, e lei, vorrei dirle: “
Venite con me al Teatro d’Arte, voglio farvi vedere uno spettacolo. Ed è tutto quanto io
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possa offrire.” Pace, mamma?”. Questa lettera risale al 1932, quando la disgrazia della
repressione letteraria si è già abbattuta sull’autore. In un momento di grande sconforto e
malinconia, di profonda solitudine, egli ricorda figure, oggetti del passato, un’atmosfera
di calore e d’intimità domestica che manca nella sua vita da quando ha lasciato Kiev e
ha scelto di dedicarsi alla letteratura.
Elaborare un’analisi completa, dipingere un ritratto somigliante a Bulgakov non è un
compito agevole, giacché temo di cadere in affermazioni riduttive e di intrappolare la
penna in aggettivi e definizioni schematiche e banali. Amo ritenerlo un esempio di vita,
specialmente per noi giovani, un uomo che ha compiuto delle scelte, spesso ardite per il
clima storico in cui ha vissuto, e con coraggio, caparbietà, con spirito indomito ha
sempre inseguito e difeso il suo disegno. Ha saputo rialzarsi con rinnovato vigore ed
entusiasmo ogni volta che le sue creature venivano respinte ed “uccise”. Anche nei
momenti più tetri, in cui lo sconforto, la rassegnazione, il rancore lo stavano divorando,
comunque il suo amore per l’arte, la voluttà provata nello scrivere, hanno sempre avuto
in lui il sopravvento. Si deve però riconoscere che questo suo ardore per la scrittura, ed
anche per la verità, per la libertà, lo hanno divorato giorno dopo giorno, condotto
inesorabilmente verso la distruzione, non solo del corpo, ma soprattutto dello spirito.
Nel corso della sua tortuosa e animata carriera letteraria, ritenuta dall’autore stesso “un
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garbuglio terrificante” , l’artista si è dedicato alla prosa e alla drammaturgia. È fuori
d’ogni dubbio il suo grande talento come narratore, ma ritengo che il teatro sia stata
“l’irrinunciabile tentazione” della sua vita. In una lettera a Iosif Vissarionovič Stalin,
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J. A. E. Curtis, I manoscritti non bruciano, Milano 1992; cfr. lettera a P. Popov del 24 aprile 1932, pp.
152-153.
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Ivi, cfr. lettera al fratello N. A. Bulgakov del 21 febbraio 1930, pp. 111-113.
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Bulgakov dichiara di non sapere se egli sia necessario al teatro sovietico, ma sa di aver
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bisogno del teatro sovietico come dell’aria che respira .
Questa sua inclinazione profonda verso il teatro, come forma d’arte, si è sempre
scontrata con il teatro, inteso come istituzione, e con uno in particolare, il Teatro d’Arte
di Mosca. A Jakov Leont’ev, nel 1936, ecco cosa scrive a proposito del suo rapporto
con il MChAT ed i suoi due dirigenti, Stanislavskij e Nemirovič-Dančenko: “Oggi è un
giorno speciale per me. Sono trascorsi esattamente dieci anni dalla prima dei Giorni dei
Turbin. Sono seduto allo scrittoio in attesa che appaia alla porta una delegazione di
Stanislavskij e Nemirovič, per omaggiarmi con un discorso ed un prezioso regalo. Nel
discorso verranno menzionati tutti i miei drammi mutilati o rovinati, cui seguirà la lista
di tutte le gioie arrecatemi da Stanislavskij e Nemirovič durante i dieci anni passati al
Teatro d’Arte. Quanto al regalo di valore, sarà costituito da una capiente casseruola,
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piena di tutto il sangue che mi hanno succhiato nel corso di questi dieci anni” . Sono
parole cariche di un esplicito e velenoso risentimento contro il Teatro d’Arte, definito da
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lui stesso “la tomba dei suoi drammi” , Stanislavskij, con il quale non avrà mai un
rapporto idillico, e Nemirovič-Dančenko, ritenuto un “filisteo” .
I dispiaceri, i dolori non sono provocati esclusivamente dal MChAT, ma soprattutto dai
continui ed ingiustificati attacchi da parte dei critici, degli scrittori e del potere, quello
stesso potere che s’illude di averlo piegato quando, tra il 1938 e il 1939, scrive Batum.
Un tratto che contraddistingue Bulgakov è la sua straordinaria coerenza di artista,
rettitudine che, si potrebbe pensare, egli abbia violato con quest’ultimo dramma. In
realtà l’autore, sia nella prosa sia nella drammaturgia, trae ispirazione principalmente da
se stesso, dalla sua biografia, dalle sue esperienze passate e presenti. Un personaggio
come Stalin è una presenza costante, e tremenda, un uomo che ha un ruolo
fondamentale nel destino di Michail Bulgakov. Scrivendo Batum, il drammaturgo si
occupa di un soggetto che lo affascina, ma non è sfiorato dall’idea di scrivere questa
pièce per guadagnarsi una stima sociale e politica di cui non ha mai voluto godere.
In una lettera del 1921 scrive al cugino Konstantin di avere la sfortuna di cercare la
creatività individuale, proprio in un momento in cui sembra che la letteratura cerchi
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qualcosa di completamente diverso . La letteratura sovietica è al servizio della classe
operaia, è esaltazione dell’ideologia, è propaganda di taluni schemi politici e sociali.
Bulgakov non è dalla parte del conformismo sovietico, ma persegue un’arte pura, una
sua pratica culturale che non è affiancata da concetti di classe o di partito. Questa sua
individualità artistica, il suo costante rifiuto di obbedire, gli valgono il sospetto, e spesso
anche l’accusa, di essere un antiproletario, un anticomunista, uno scrittore reazionario,
antisovietico. Sin dalla prima dei Giorni dei Turbin, i critici danno inizio ad un’acerrima
campagna di stampa contro Bulgakov; aspro è anche lo scontro con la censura, con le
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Ivi, cfr. lettera a I. V. Stalin del 30 maggio 1931, pp. 135-139.
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Ivi, cfr. lettera a J. Leont’ev del 5 ottobre 1936, p. 265.
5
Ivi, cfr. dal diario di E. S. Bulgakova, p. 262.
6
Ivi, cfr. lettera a K. P. Bulgakov del 1° febbraio 1921, pp. 30-31.
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istituzioni, ed in particolare con il Comitato centrale per il repertorio. Ritengo sia errato
considerare la satira, le critiche mosse al regime sovietico come gli attacchi di uno
scrittore di destra, di un nostalgico del potere autocratico. È evidente che non accoglie
con entusiasmo la rivoluzione bolscevica, ma non sostiene neppure la vecchia classe
dirigente, spodestata dal nuovo potere “rosso”, i banchieri, gli avvocati, i proprietari
terrieri, le famiglie aristocratiche, ovvero gli speculatori in fuga, dominati dalla venalità,
la vigliaccheria, la falsità.
Dunque che cosa difende Bulgakov?
Egli sostiene un certo tipo d’uomo, quell’intelligencija russa, ritenuta da Michail
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Afanas’evič lo strato migliore della società , che si è perduta nel caos dei rivolgimenti
politici e nello spargimento di sangue. L’autore vorrebbe preservare uno stile di vita
che è cultura, buon gusto, amore di verità, onestà intellettuale, apertura mentale.
Vorrebbe salvaguardare un macrocosmo culturale, un ambiente a cui sentirà di
appartenere per sempre, in un periodo in cui non schierarsi equivale ad una condanna
alla persecuzione e alla repressione. L’indipendenza del pensiero, l’antidogmatismo, la
satira sociale costituiscono la colpa di Michail Bulgakov. Egli non sarà mai un uomo e
un cittadino pienamente libero, tuttavia morirà senza essere stato neppure schiavo.
Dalla fine degli anni Venti Bulgakov viene praticamente soffocato, ridotto al silenzio, la
maggior parte delle sue opere sono ritenute non idonee alla pubblicazione e alla
rappresentazione. L’impotenza nei confronti del potere, gli affronti subiti, tutto questo
provoca nello scrittore un grave esaurimento nervoso, complicato dalla paura di uscire
di casa e di restare solo. Soffre di crisi e attacchi di panico, è ossessionato dalla morte, è
un uomo che, come si legge nel diario di Elena Sergeevna, “ha scritto venti drammi e
lavora ad un ritmo frenetico, e nonostante tutti gli sforzi compiuti non possiede niente,
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tranne un paio di logori pantaloni” .
Certamente anche il “silenzio” di Stalin, dopo la telefonata del 1930, contribuisce ad
acuire questo suo stato di profonda devastazione psicologica, ad affliggere ulteriormente
la sua esistenza. Tra lo scrittore e il Segretario generale s’instaura nel corso degli anni
un rapporto decisamente singolare, un misto di fascino e timore. Stalin ammira
Bulgakov, è conscio del suo talento artistico, e forse è proprio in virtù di questa sua
stima se lo scrittore sfugge alla deportazione e alla morte.
La cabala dei bigotti mostra una situazione politica dominata dal terrore, un’atmosfera
in cui l’arte è sinonimo di servilismo, come nella Russia sovietica. Scrivendo di Molière
e di Luigi XIV, Bulgakov raffigura anche se stesso e l’ombra del suo re Sole.
Attraverso la figura del celebre drammaturgo francese, l’autore può manifestare alcune
sue concezioni sul teatro; ad esempio, in Vita del signor di Molière, il narratore sostiene
che Jean – Baptiste Poquelin “aveva inteso creare una scuola di recitazione d’impronta
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Ivi, cfr. lettera al Governo sovietico del 28 marzo 1930, pp. 114-120.
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Ivi, dal diario di E. S. Bulgakova, p. 310.
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più sciolta e naturale, affidata totalmente all’istinto” . In questo passaggio Bulgakov
esprime la sua idea di recitazione, arte in cui il segreto è affidarsi alla naturalezza e
all’individualità dell’attore. Questo suo pensiero entrerà in contrasto con il celebre
“sistema” di Stanislavskij, un metodo pedagogico caratterizzato anche da una serie di
esercitazioni e improvvisazioni con gli attori.
Riflettendo sulla vicenda di Molière, egli può inoltre concentrarsi sul fondamentale
motivo del destino dell’artista e sul problema del rapporto tra artista e potere. Un
Molière, un Puškin, un Bulgakov, sono questi dei Maestri che difendono
appassionatamente la libertà ma, al tempo stesso, sono fragili, disarmati, e la loro sorte è
mortalmente legata al volere di un Luigi XIV, di un Nicola I, di un regime. L’artista
allora, pur di poter scrivere, tenta di ingraziarsi il potere o, quantomeno, vede in esso
una speranza, l’opportunità di porre fine all’emarginazione cui è stato condannato. Ma
chi avrebbe dovuto proteggerlo o salvarlo, si rivela un traditore, un aguzzino: “Maestà,
abbiate la bontà di darmi spiegazioni… Vi ho forse adulato troppo poco? Ho forse
strisciato troppo poco? Maestà, dove si trova un adulatore come Molière? Ma perché,
Bouton? Per il Tartuffe. È per il Tartuffe che mi sono umiliato. Speravo di trovare un
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alleato. E accidenti se l’ho trovato! Non ti umiliare, Bouton! Odio la tirannia dei re!” .
Molière è uno degli scrittori più venerati da Bulgakov, nella sua biografia, nel suo
destino artistico, vi sono molteplici corrispondenze, un’evidente rassomiglianza con la
vita dell’autore. “Sganarello” non è soltanto drammaturgo, ma anche attore e regista. È
un’illustre commediografo che, pur di compiacere il più terribile tra gli spettatori, il re, è
costretto ad inserire nelle sue commedie dei balletti, degli intermezzi inutili. Nonostante
l’evidente mancanza di autonomia, Molière continua a scrivere ciò che più lo aggrada e
a metterlo in scena; cerca di racchiudere nello spettacolo la vita, e negli attori i diversi
prototipi, caratteri che realmente si possono riscontrare nei tipi umani in un determinato
periodo storico. Il drammaturgo, lo scrittore, il commediante, l’artista, forte del proprio
genio, è comunque destinato ad essere vittima dell’odio di una società, sia essa del XVII
o del XX secolo, che vuole, ed ottiene, la sua rovina.
Michail Bulgakov dedica ben tre opere a Jean-Baptiste Poquelin: La cabala dei bigotti
(Molière), Vita del signor di Molière e Jourdain, lo stolto. La pièce Jourdain, lo stolto
è scritta tra il settembre – novembre 1932 su commissione del Teatro Studio Zavadskij.
L’opera segue il canovaccio del Borghese gentiluomo e racchiude un insieme di temi
molieriani. Essa è la dimostrazione della magistrale conoscenza di Bulgakov dei motivi
e dei soggetti dell’autore francese. Innestando sullo sfondo del Borghese gentiluomo
scene ed eroi tratti da altre commedie di Molière, come il Don Giovanni ( Don Giovanni
e la Statua del commendatore), Il matrimonio per forza ( il filosofo Pancrace), L’avaro
(il servitore Brindavoine), Bulgakov aspira ad una più ampia interpretazione del testo
molieriano. In questa rielaborazione si possono infatti individuare alcuni temi
bulgakoviani, come il tema del teatro, e il tema della magica trasformazione della vita
9
M. A. Bulgakov, Vita del signor di Molière, Milano 1969, p. 115.
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M. A. Bulgakov, La cabala dei bigotti, in IDEM, Teatro, Bari 1968, p. 688.
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tramite l’arte scenica. In Jourdain, lo stolto Molière non compare mai, ma il suo spirito
è sempre presente accanto ai leggendari attori della sua compagnia, Louis e Armande
Béjart, André Hubert, Charles La Grange, François La Thorillière, Edme e Catherine De
Brie, Jeanne Beauval. Proprio loro sono chiamati nell’opera a dimostrare, con l’aiuto
dei loro tradizionali mezzi, espedienti di attori, il miracolo della genesi dello spettacolo.
La pièce è composta da Bulgakov con l’intento di fornire un’immagine del teatro di
Molière, rappresentare il suo lato comico e mostrarne il risvolto tragico.
La scena per gli eroi di Bulgakov è a un tempo “ fonte di disperazione e d’ispirazione”,
come sostiene Louis Béjart, è un luogo d’inchini servili e di brillanti successi. Jourdain,
lo stolto continua il tema, già affrontato nella Cabala dei bigotti, della difficile sorte
dell’attore, della sua grandezza e della sua “prigionia”.
Al tempo della messa in scena del Borghese gentiluomo, il ruolo di Jourdain appartenne
a Molière. In Jourdain, lo stolto la parte del protagonista è assegnata a Louis Béjart
anche se, nel 1670, aveva già lasciato la compagnia. L’attore in gioventù fu molto
vicino a Molière, condivise con lui gioie e sventure, ed appartenne a quella famiglia,
fondata da Jean – Baptiste Poquelin, unita da vincoli teatrali e legami di parentela.
Probabilmente Bulgakov vede in Louis Béjart un possibile sostituto di Molière, sia nel
ruolo di leader della troupe, sia come interprete di Jourdain, proprio per questa ragione.
Nell’opera Jourdain, lo stolto è rappresentata la tragedia dell’uomo che tenta di liberarsi
da una vita ordinaria, quotidiana, alla ricerca di un altro mondo. Sul palcoscenico
compare una realtà bizzarra, ma questo stravagante mondo, che circonda Jourdain, in
Bulgakov “si umanizza” in modo originale. L’universo della farsa molieriana per
l’autore è quasi reale e animato e, come ha affermato Venjamin Kaverin, “scoprendo
11
Molière, Bulgakov scopriva se stesso” .
11
V. Kaverin, Di Bulgakov e del suo “molierismo”, in M. A. Bulgakov, La vita del signor di Molière, Milano
1969, p. 14.
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