INTRODUZIONE
Ero a Roma, una calda giornata della primavera del 2009, quando Simone
Piazza, amico e fondatore dell'Associazione La Casetta, mi chiamò al telefono. Mi
chiese se fossi disponibile a partecipare ad un progetto artistico per dare vita ad un
musical insieme ad un gruppo di adolescenti della provincia di Treviso, finanziato
dal Centro Servizi per il Volontariato. In qualità di musicista, ma anche di donna
appassionata delle relazioni umane, soprattutto con persone di questa fascia di età,
così affascinante e contraddittoria, accettai. Vivevo da mesi, da cantautrice quale
sono, una profonda frustrazione rispetto a come certi modelli televisivi stessero
profondamente intaccando la costruzione di significato degli adolescenti, anche per
quanto riguarda la sfera dell'esperienza artistica. Da Saranno Famosi ad Amici di
Maria de Filippi, da X-Factor a Music Farm, sentivo come fosse propinato ai
ragazzi un paradigma di arte (fosse essa musica, danza o teatro) distorto e
pericoloso: arte come apparenza, come fonte di successo certo, come strumento per
alimentare un narcisismo sociale dilagante ed alienante. Avevo finalmente
l'occasione di agire in prima persona per contrastare questa tendenza, offrendo ai
ragazzi un'alternativa a questo modello televisivo, un'alternativa che fosse vera e
concreta, che fosse fatica e stupore, sacrificio e conquista, scoperta e commozione.
Dopo poco decisi che su questo progetto avrei condotto anche la mia ricerca
di chiusura del percorso universitario in sociologia. Il mio lavoro e quello dei miei
colleghi avrebbe avuto così una risonanza diversa, e avrebbe potuto forse fungere
da modello per altre iniziative come questa. Avevo di fronte a me un'occasione
preziosa per toccare con mano i vissuti dei giovani, figli di quest'epoca tormentata e
scoraggiante, un'opportunità per capire se e come si possa agire in quello che
sembra essere un nichilismo senza scampo. Scrive a proposito Umberto Galiberti:
Oggi l'educazione emotiva è lasciata al caso e tutti gli studi e le statistiche
concordano nel segnalare la tendenza, nell'attuale generazione, ad avere un
maggior numero di problemi emotivi rispetto a quelle precedenti. E questo
perché oggi i giovanissimi sono più soli e più depressi, più rabbiosi e ribelli,
più nervosi e impulsivi, più aggressivi e quindi impreparati alla vita, perché
privi di quegli strumenti emotivi indispensabili per dare avvio a quei
5
comportamenti quali l'autoconsapevolezza, l'auto-controllo, l'empatia, senza
i quali saranno sì capaci di parlare, ma non di ascoltare, di risolvere i
1
conflitti, di cooperare.
Ma sono davvero tutti così i giovani italiani? Esperti ed opinionisti versano
fiumi di inchiostro nel tentativo di descrivere una materia spesso inafferrabile e
ingestibile. Ma cosa accade se si dà la parola proprio ai ragazzi, se li si osserva e li
si interroga cercando di sospendere il giudizio su di loro, nel tentativo di vedere il
mondo attraverso i loro occhi? Da dove provengono la fragilità, la deficienza di
strumenti emotivi, la noia, la rabbia attraverso cui spesso vengono descritti? E
ancora, sarebbe mai riuscita l'arte a scardinare questi limiti e ad accompagnare i
giovani coinvolti nel progetto verso una maggiore consapevolezza emozionale,
personale, relazionale e sociale? Avendo vissuto in prima persona la portata
rivoluzionaria e liberante della pratica artistica ne ero convinta, ma dovevo
dimostrarlo. Sapevo che studiare una situazione sociale vivendo attivamente
all'interno di essa non sarebbe stato semplice, ma immaginavo l'enorme potenziale
conoscitivo che un lavoro del genere avrebbe racchiuso. Trattandosi di un progetto
pilota, il primo condotto dalla neonata Associazione La Casetta, in collaborazione
con l'Associazione Legambiente di Treviso, e, per quanto mi sia dato di sapere, il
primo sul territorio trevigiano che avesse queste caratteristiche, ho trovato
sociologicamente interessante e socialmente utile analizzarlo a fondo, studiandone
gli obiettivi, la preparazione, lo svolgimento, i punti di forza e quelli deboli,
focalizzandomi soprattutto sulle trasformazioni che tale lavoro poteva innescare
nelle vite dei ragazzi coinvolti. Il tutto con lo scopo di fornire anche un'analisi
dettagliata e strumenti di riferimento a chi, istituzione pubblica o associazione di
volontariato che sia, volesse intraprendere in futuro un percorso simile con una
simile utenza.
Molte volte credevo di aver chiaro l'obiettivo del mio studio, molte altre l'ho
visto infrangersi di fronte a continue smentite delle mie premesse e a continue
inversioni di rotta. Il mio è stato un viaggio in mare aperto, di cui non conoscevo la
meta né potevo prevedere le condizioni meteorologiche che avrei incontrato.
Credevo di poter effettuare uno studio sugli adolescenti di oggi in grado di portarmi
1
Galimberti U., L'ospite inquietante, Rizzoli, Milano, 2007, p. 48
6
a risultati conoscitivi significativi sul piano generale, ma l'esiguità del gruppo ha
ridotto la portata del mio lavoro ad uno studio di caso, imponendomi di lasciare da
parte le pretese di rilevanza statistica. Credevo di trovarmi di fronte ad un gruppo
omogeneo di ragazzi apatici e teledipendenti da “salvare” attraverso l'arte, mi sono
trovata a lavorare con persone estremamente diverse l'una dall'altra, ciascuna con
esperienze, aspettative, situazioni sociali differenti che richiedevano proposte,
risposte e attenzioni differenti. Credevo che avrei potuto monitorare chiaramente le
trasformazioni dei vissuti dei ragazzi, partendo dal presupposto che il progetto fosse
qualcosa di assolutamente inappuntabile e perfetto, mi sono scontrata con i limiti
che inevitabilmente manifestava e con le difficoltà relazionali che a volte si sono
generate anche all'interno del gruppo di noi educatori e professionisti. Così, di mese
in mese, il mio obiettivo si è trasformato in quello di osservare, semplicemente,
senza pretese. Prendere nota, ascoltare, elaborare, facendo attenzione ai dettagli
esterni e alle risonanze che alcune situazioni producevano dentro di me. Per fare
questo ho fatto riferimento a diversi strumenti e teorie propri soprattutto della
sociologia della comunicazione e della sociologia dell'arte. Perché l'arte ha avuto un
ruolo determinante lungo tutto il percorso, in maniera a volte più visibile, altre volte
più implicita e nascosta, ma comunque costante.
In questo modo, vivendo questo cammino, utilizzando di volta in volta
strumenti diversi della “cassetta degli attrezzi” di cui mi sono arricchita via via nel
corso degli anni di studio, lasciandomi condurre dai miei compagni di viaggio (il
gruppo di operatori ma soprattutto i ragazzi stessi) a scoprire quali fossero i
cambiamenti che tutti noi avevamo vissuto nello scorrere dei mesi, rileggendo il
materiale raccolto di settimana in settimana, osservando le registrazioni video di
alcuni momenti, sono arrivata a cogliere soltanto alla fine il vero senso del mio
lavoro: l'aver accompagnato con sguardo critico e imperfetto un progetto nuovo e
speciale, lasciandomi interrogare dalle situazioni difficili così come da quelle
apparentemente più banali, cercando di riconoscere la portata socialmente
innovativa che, nonostante tutti i limiti e le difficoltà, questo lavoro ha portato e
porterà con sé.
7
Come sempre suole accadere in un lungo viaggio,
alle prime due o tre stazioni l'immaginazione resta ferma
nel luogo di dove sei partito, e poi d'un tratto,
col primo mattino incontrato per via,
si volge verso la meta del viaggio
e ormai costruisce là i castelli dell'avvenire.
Lev Tolstoj
8
CAPITOLO 1
STORIA NATURALE DELLA RICERCA
1.1 Oggetti e obiettivi di studio
Innanzitutto è bene chiarire quale sia l'oggetto principale del mio studio. E'
l'associazione promotrice del progetto? E' lo svilupparsi di quest'ultimo nel tempo e
in tutte le sue tappe? Sono i giovani coinvolti? E' il mio ruolo di osservatrice e
attrice, con la riflessione metodologica che questo comporta? E' l'arte come
strumento di interazione, di trasformazione e di crescita dei partecipanti? Ebbene, la
complessità di questo lavoro risiede nel fatto che andrò a studiare un po' tutte queste
cose, ma il soggetto chiave sono e resteranno per tutta la mia ricerca i ragazzi, intesi
come membri di una comunità profondamente dinamica ed eterogenea al suo
interno. Dalle loro parole, dai loro gesti, dai loro silenzi, cercherò di cogliere la
bontà del progetto, l'efficacia delle nostre proposte, l'intensità delle trasformazioni
relazionali e personali che le pratiche condotte siano in grado di generare. Dai loro
racconti cercherò di farmi un'idea delle vite che conducono, dal loro modo di sentire
l'esperienza artistica proverò a studiare come quest'ultima si inserisca nel loro
universo simbolico, e come possa arrivare a trasformarlo. Dalle relazioni che
tesseranno tra di loro e con noi operatori cercherò di comprendere il loro
relazionarsi al mondo esterno. Con un'attenzione particolare alla dimensione
diacronica degli elementi, alle realtà dinamiche dell'azione e dell'interazione,
cercando di capire, in ultima istanza, se l'arte vissuta in prima persona, sulla propria
pelle, come esperienza vera, stimolante e soprattutto condivisa (con dei coetanei
diversi da sé, e con operatori adulti, a volte spiazzanti) possa generare un qualche
cambiamento nella percezione che i partecipanti al progetto hanno di sé e della loro
emotività, se possa portare ad una maggior consapevolezza, se non addirittura ad un
miglioramento, della loro sfera relazionale (familiare, amicale, etc.) fino a giungere
a quella sociale.
9
1.2 Strumenti metodologici utilizzati
Dal momento che avrei dovuto essere presente a tutti gli incontri con i
ragazzi, e avrei perciò assistito necessariamente (in quanto impiegata attivamente
all'interno del progetto) all'avanzare dei lavori in tutte le sue fasi, non ho avuto
dubbi sul fatto che questa avrebbe potuto essere una buona occasione per una
ricerca etnografica. Non avrei dovuto negoziare l'accesso al campo, visto che la mia
presenza sarebbe stata addirittura antecedente alla formazione della comunità di
attori che avrei osservato, la quale prima di novembre non era che un'entità astratta,
atomizzata nei singoli universi di individui sconosciuti tra loro. L'idea di tenere un
diario etnografico di questa esperienza mi entusiasmava, non solo scientificamente
(non ho mai condotto un'osservazione etnografica vera e propria prima d'ora), ma
anche umanamente ed artisticamente.
Dovendo ricoprire un ruolo attivo all'interno del progetto, quello che per un
altro ricercatore sarebbe stato tempo interamente dedicato all'osservazione, per me
doveva essere invece ripartito tra l'osservare e l'agire, il prendere nota e il
coinvolgere, programmare, il prendere iniziativa. Per questo i dati raccolti nel mio
diario etnografico non mi sarebbero bastati: sarebbero stati incompleti, imprecisi,
non abbastanza dettagliati. Non ho certo la pretesa (illusoria) di realizzare un
“quadro completo” della situazione, ma i dati etnografici di cui avrei disposto mi
sembravano davvero insufficienti a condurre una ricerca approfondita ed esaustiva.
Così, ho scelto di avvalermi di tecniche multiple, per poter approdare ad una visione
complessiva dei dati, effettuando una triangolazione delle coordinate informative
provenienti dai diversi strumenti, proprio come si fa su di una mappa. Sapevo anche
però che agendo in questo modo avrei corso il rischio di cadere in una ricerca
inconsistente, in quanto selezionare dati determinanti all'interno di una così vasta
mole di materiale sarebbe stata un'operazione molto difficile.
Inizialmente noi organizzatori credevamo che avremmo lavorato con una
quarantina di ragazzi, perciò decisi di accompagnare l'osservazione etnografica con
dei questionari da somministrare a ciascuno di loro a inizio percorso. Ben presto
però il gruppo si ridusse a una ventina di persone, per restare infine a giugno con
appena dodici ragazzi in scena. Le tecniche di analisi quantitativa che intendevo
10
utilizzare non avrebbero consentito una generalizzazione, essendo riferite ad un
gruppo così ristretto di individui, perciò decisi che avrei adoperato anche altri
strumenti per accompagnare quello che sarebbe stato il mio diario etnografico:
l'analisi delle registrazioni video di alcuni momenti particolarmente significativi, lo
studio di alcuni scritti dei ragazzi stessi e la realizzazione di tredici interviste
discorsive (sia ai giovani che agli operatori) a conclusione della prima parte del
progetto, a giugno 2010. Ho voluto comunque fare attenzione a quanto i ragazzi
avevano scritto nel questionario somministrato loro a novembre, e ho ritenuto
importante somministrarne un altro (molto simile) a giugno, non perché questo
avesse significatività statistica bensì per avere un ulteriore strumento (forse più
libero dell'intervista in quanto anonimo) di analisi di alcune tematiche, anche in
funzione di una comparazione con il questionario-fratello somministrato in autunno.
Ogni incontro settimanale è stato filmato con la telecamera dell'associazione: la mia
esigenza conoscitiva andava infatti ad unirsi alla necessità pratica degli
organizzatori di disporre di materiale video da montare a fine percorso per
realizzare un documentario riassuntivo dell'esperienza. Per la realizzazione del
copione dello spettacolo, il regista avrebbe chiesto ai ragazzi di compilare alcuni
stampati che chiedevano i loro pensieri, vissuti, impressioni rispetto ai temi trattati
nel musical. I loro scritti, così come il materiale video, i questionari, le interviste e il
diario etnografico, opportunamente integrati e selezionati, sono stati la materia
prima del mio studio.
La mole di dati accumulata a giugno era vastissima. Su cosa dunque
indirizzare il mio interesse? Cosa sacrificare e cosa invece valorizzare? Mi sono
limitata a tratteggiare sinteticamente le storie di vita dei ragazzi coinvolti, non sono
entrata in profondità su questo argomento perché avrebbe richiesto un'ulteriore
raccolta di informazioni e avrebbe irrimediabilmente deviato la mia ricerca. Non mi
sono soffermata nemmeno su un'analisi troppo dettagliata delle dinamiche di
gruppo che si andavano a instaurare durante ciascun incontro. Anche questo
avrebbe potuto costituire da solo, come l'argomento precedente, un oggetto di studio
vasto e complesso. Della danza di azioni e reazioni che si svolgevano
coinvolgendomi sotto l'occhio vigile della telecamera ho preferito invece
11
selezionare soltanto quei casi che mi sarebbero tornati utili al discorso complessivo.
Ho anche deciso di tralasciare, tranne i casi in cui poteva essere strategicamente
rilevante, lo studio dei rapporti che i ragazzi vivevano con i loro familiari, con i
professori e con i coetanei al di fuori del progetto. Anche il rapporto dei ragazzi con
la società che li circonda (il mondo della politica, della cultura, dell'economia, etc.),
che inizialmente speravo di poter studiare nel suo evolversi durante il progetto
(progetto che come vedremo ambisce ad avere anche riscontri positivi proprio in
questo contesto) è sceso in secondo piano. Ho voluto dare invece rilievo alla
dimensione emotiva dei ragazzi, al loro vissuto interiore e a come il progetto abbia
trasformato la loro percezione del gruppo, dell'”altro” diverso da loro, dei loro
limiti, delle loro potenzialità, dei loro sogni. Quello che ne consegue, è un racconto
variopinto e dinamico, un mosaico di annotazioni, impressioni personali ma
soprattutto di voci. Scrivono Altheide e Johnson:
Le diverse voci che abitano la cultura, che, in diversa misura, hanno contribuito al
dialogo sul campo, devono abitare anche il resoconto etnografico, riproducendo al suo
2
interno la multivocalità o la cacofonia della cultura ospite.
E sono proprio le voci dei protagonisti ad avermi permesso di rendere quella
dimensione processuale che è diventata il tratto distintivo della mia ricerca, a
guidarmi di settimana in settimana a cogliere il senso del mio studio. Ho lasciato
che fossero soprattutto le parole dei ragazzi e degli operatori raccolte a giugno
3
(nella loro veridicità ma anche nella loro deformazione) a condurmi a ritroso
nell'esperienza che insieme avevamo vissuto. Questo procedimento mi ha permesso
di selezionare ulteriormente le note etnografiche, ma soprattutto l'enorme quantità
di materiale fotografico e audiovisivo che avevo raccolto. Lo strumento principe,
alla fine del percorso, si è rivelato essere proprio l'intervista discorsiva, supportata
attivamente dalle altre tecniche che sono slittate in secondo piano, a svolgere una
2
Altheide DL. & Johnson JM., Criteria for assessing interpretive validity in qualitative
research. In NK Denzin and YS Lincoln (Eds.) Handbook of Qualitative Research (p 490).
3
Come vedremo, senza dubbio alcuni argomenti trattati durante le interviste sono stati alterati
dal ruolo che io avevo ricoperto durante tutto l'anno (non ero solo un'intervistatrice, ma ero anche
l'educatrice che una volta li aveva rimproverati, un'altra volta li aveva accompagnati a casa etc.).
Tuttavia credo di poter affermare che, mettendo a confronto le parole dei ragazzi con i dati più
oggettivi di cui disponevo, tali alterazioni siano diventate portatrici di importanti informazioni.
12
funzione ancillare. Una volta scongiurato il pericolo di perdermi tra le decine di
pagine di note sul campo e di scritti dei ragazzi, la grande quantità di dati emersa
dai questionari, le sessanta ore di filmati e le settecento fotografie raccolte, ho
utilizzato (sapendo bene dove cercare, indirizzata proprio dalle interviste) quasi
esclusivamente le informazioni necessarie a supportare i racconti degli intervistati.
Tali racconti potevano essere letti sia come affidabili resoconti di situazioni reali,
sia come descrizioni personali del mondo, costruite per dar vita ad una propria
narrativa specifica. Ho cercato di non chiudermi ad uno soltanto dei due approcci,
ma di passare dall'uno all'altro a seconda dei casi, tenendo conto che ogni racconto
viene costruito dall'intervistato impiegando le risorse culturali di cui dispone e che
quindi tale personale narrazione può essere considerata una storia culturale, con la
forza retorica che essa racchiude. Scrive a proposito Richardson:
La partecipazione a una cultura include la partecipazione alle narrative di
quella cultura, una comprensione generale dell'insieme di significati e delle
4
relazioni reciproche.
Questo significa dare valore al modello di spiegazione impiegato
dall'intervistato, provare a vedere il mondo secondo la sua prospettiva, a partire
dall'autenticità della sua esperienza.
1.3 Una posizione scomoda
La mia non è mai stata una presenza neutra: non lo è quella di qualsiasi
osservatore partecipante, tantomeno sarebbe potuto esserla quella di un'osservatrice-
attrice interna qual ero io, coinvolta in prima persona nella programmazione e nello
svolgimento delle attività. Questa posizione ibrida, fatta di momenti di osservazione
e di studio così come di azione, di relazione attiva con i ragazzi, di gestione dei
lavori, è stata spesso faticosa e difficile da amministrare. Oscillare tra l'illusione di
poter mantenere una forma di obiettività scientifica e la presa di consapevolezza di
essere sempre in qualche modo implicata nello scorrere delle relazioni e nelle
4
Richardson L., Writing Strategies: Reaching Diverse Audiences, Sage, Newbury Park (CA),
1990, p. 24
13
reazioni emotive che di volta in volta esse generavano in me, mi ha avvicinato alla
prospettiva che Marianella Sclavi descrive come ascolto attivo e auto-
consapevolezza emozionale. Le sue “sette regole dell'arte di ascoltare” hanno
guidato la mia ricerca soprattutto nella seconda parte del percorso, quando mi sono
rassegnata alla mia incapacità di mantenere una qualche obiettività scientifica e ho
cominciato a lasciare che fosse la ricerca stessa a portarmi a conoscere sempre più
chiaramente cosa avrei potuto scoprire:
1. Non avere fretta di arrivare a delle conclusioni. Le conclusioni sono la
parte più effimera della ricerca.
2. Quel che vedi dipende dal tuo punto di vista. Per riuscire a vedere il tuo
punto di vista, devi cambiare punto di vista.
3. Se vuoi comprendere quel che un altro sta dicendo, devi assumere che ha
ragione e chiedergli di aiutarti a vedere le cose e gli eventi dalla sua
prospettiva.
4. Le emozioni sono degli strumenti conoscitivi fondamentali, se sai
comprendere il loro linguaggio. Non ti informano su cosa vedi, ma su come
guardi. Il loro codice è relazionale e analogico.
5. Un buon ascoltatore è esploratore di mondi possibili. I segnali più
importanti per lui sono quelli che si presentano alla coscienza come al tempo
stesso trascurabili e fastidiosi, marginali e irritanti, perché incongruenti con
le proprie certezze.
6. Un buon ascoltatore accoglie volentieri i paradossi del pensiero e della
comunicazione. Affronta i dissensi come occasioni per esercitarsi in un
campo che lo appassiona: la gestione creativa dei conflitti.
7. Per divenire esperto nell'arte di ascoltare devi adottare una metodologia
5
umoristica. Ma quando hai imparato ad ascoltare, l'umorismo viene da sé.
Prendere coscienza della propria limitatezza non significa però arroccarsi
rassegnati in posizione di difesa, schiacciati da un relativismo senza scampo. La
Sclavi ricorda proprio questo: lasciando da parte la fretta e la superbia di chi non si
sposta mai dal proprio punto di vista, per recuperare il valore del dettaglio in prima
battuta considerato inutile e banale, il valore dei momenti di crisi e di conflitto, il
valore delle proprie emozioni nello sviluppo della ricerca si può approdare a
risultati euristicamente rilevanti. E per quanto sia limitato nello spazio e nel tempo,
ciò che ho vissuto resta pur sempre un frammento di vita vera, che racchiude in sé
dinamiche, fenomeni e aspetti potenzialmente riscontrabili, con le dovute
5
Sclavi M., Arte di ascoltare e mondi possibili: come si esce dalle cornici di cui siamo parte,
Mondadori, Milano, 2003, p. 63
14
proporzioni, anche in una popolazione più vasta.
Essere un “osservatore in situazione”, così come definisce Daniele Nigris il ruolo di
chi, come me, si trova ad osservare una situazione sociale a cui lui stesso
appartiene, racchiude importanti vantaggi:
Se il ricercatore si lascia coinvolgere nell’attività degli osservati, vivendo
sempre più a stretto contatto con loro e condividendo le giornate e i
significati, aumenta anche la sua capacità di comprendere le loro categorie
concettuali e quindi le ragioni dei loro comportamenti. Quando lo studioso
svolge il duplice ruolo di osservatore ed osservato, gioca un ruolo
fondamentale l’introspezione, che consente all’osservatore di comprendere
le ragioni profonde dei propri comportamenti e di conseguenza dei
6
comportamenti di coloro che sono l’oggetto della ricerca.
Tuttavia, l’alto grado di coinvolgimento nella situazione osservata, comporta
rischi non trascurabili, rischi con cui dovrò fare i conti durante tutto il tempo della
ricerca:
L’eccessivo coinvolgimento, tipico dell’osservazione con alti gradi di
partecipazione, comporta il grande rischio di “diventare nativo”. […]
Immedesimandosi completamente nell’altro [l’osservatore] finisce nel non
riconoscere più l’alterità. Egli diventa l’altro. In questo modo abdica al suo
compito di osservatore, che prevede di avere “a sufficient degree of social
and personal distance from prevailing norms and values to be able to analyze
them” (Vidich e Lyman 2000, 38); può diventargli quindi impossibile
7
riportare le proprie scoperte.
Come evitare dunque di cadere in questa abdicazione osservativa, tale da
rendere vano ogni tentativo di ricerca, ce lo ricorda ancora Erika Cellini:
Il field worker ha bisogno di un periodo di riposo dopo la partecipazione, in
cui ritornare se stesso e guardare indietro spassionatamente al proprio
8
comportamento sul campo.
La pausa estiva che ha seguito le performance teatrali dei ragazzi (tre mesi in
cui mi sono completamente allontanata dalla situazione osservata) mi ha permesso
di effettuare proprio questo ritorno alla dimensione osservativa. Rileggere e
6
Cellini E., L’osservazione nelle scienze umane, Franco Angeli, Milano 2008, p. 85
7
Ibidem, p. 86
8
Ibidem, p. 87
15
rielaborare le note sul campo, raccogliere, sbobinare ed analizzare le parole degli
intervistati, riflettere sul ruolo e il comportamento tenuto durante i mesi precedenti,
mi ha permesso di organizzare la ricerca in modo più distaccato e, se possibile,
scientifico.
L’osservatore in situazione può scegliere se rivelare o meno il proprio
compito di ricerca ai nativi. A proposito Gold distingue due tipologie di ruolo del
ricercatore: “the complete participant” (egli si inserisce come membro della
comunità senza dichiarare la propria identità), e “the participant as observer”
(l’osservatore conduce la sua ricerca in modo scoperto, rivelando agli attori sociali
il suo compito pur restando attivamente coinvolgimento all’interno della
9
comunità). Trattandosi in questo caso di uno studio di comunità, dove
l’osservazione delle relazioni e della loro evoluzione nel tempo prevede e necessita
di sempre maggiori gradi di fiducia reciproca tra osservatore e osservato, ho optato
per la seconda tipologia. Avrei potuto scegliere di mantenere gli attori all'oscuro
del processo di osservazione al quale sarebbero stati sottoposti, ciò mi avrebbe
permesso di ridurre al minimo l'effetto di alterazione del loro comportamento
dovuta proprio alla presenza dell'osservatore (il cosiddetto effetto Hawthorne) e, in
quanto direttamente coinvolta nelle attività, non avrei avuto problemi di movimento
sul campo (cosa che invece accade ad osservatori coperti esterni). Tuttavia volevo
fin da subito stabilire un rapporto di fiducia e trasparenza reciproca tra me e i
ragazzi, senza dover nascondere quello che era anche il mio intento conoscitivo. Il
rischio che tale scelta avrebbe potuto generare atteggiamenti inautentici nei ragazzi
mi sembrava trascurabile: il mio agire dinamicamente all'interno di un progetto che
si sarebbe protratto per mesi, coinvolgendoli in attività pratiche stimolanti, avrebbe
messo gradualmente in secondo piano il mio ruolo di osservatrice. Solo in ultima
battuta, a giugno, al momento delle interviste svolte durante la pausa estiva, il mio
lavoro euristico è tornato alla ribalta, e con esso il rischio di intaccare la spontaneità
delle risposte. Ma, proprio per questo, i risultati delle interviste sono stati messi in
relazione con gli elementi emersi dagli altri strumenti utilizzati, in un'operazione di
9
Gold R.L., Roles in Sociological Field Observation, in “Social Forces”, XXXVI, 3 (marzo),
1958, p. 217-223.
16
bilanciamento fondamentale, delicata e per questo necessariamente lungamente
ponderata.
1.4 La questione della privacy
Uno dei vantaggi del condurre un'osservazione etnografica scoperta, dove
cioè il ricercatore comunica esplicitamente il proprio intento conoscitivo agli attori,
è quello di poter coinvolgere questi ultimi nella comunicazione dei risultati,
10
ottenendo in tal modo preziosi elementi di backtalk ma fornendo soprattutto ai
soggetti interessati una preziosa occasione di stimolo della riflessività rispetto agli
argomenti trattati. Molti sono gli elementi intimi e personali di cui sono venuta a
conoscenza durante gli otto mesi di attività con i giovani coinvolti, soprattutto
durante le interviste. Elementi spesso illuminanti rispetto al manifestarsi di alcune
dinamiche all’interno del gruppo. L’accorgimento di utilizzare nomi fittizi per
tutelare la privacy dei ragazzi, consuetudine acquisita in ogni ricerca sociale, non
sarebbe stato sufficiente a tutelarli: il gruppo di giovani osservati, infatti, non
costituisce una lista di categoria, un agglomerato astratto di attori sociali sconosciuti
tra loro e accumunati da una o più caratteristiche, bensì un mondo sociale
estremamente ristretto, dove qualunque membro sarebbe in grado di riconoscere i
compagni partendo anche solo da un piccolo dettaglio. Per questo ho deciso di
tralasciare gli aspetti più personali ed intimi dei protagonisti e di utilizzare solo le
informazioni che i diretti interessati avevano espressamente condiviso nei momenti
di riflessione collettiva o di cui comunque l’intero gruppo era a conoscenza, in
modo da non ledere la privacy e la dignità dei ragazzi. Non è stato semplice
selezionare i dati sensibili da riportare o sintetizzare, ma il pensiero di costruire un
percorso osservativo e di rielaborazione che anche loro potessero leggere mi ha
permesso di mantenere viva questa attenzione. Non potevo certo impedire loro di
leggere la mia ricerca, dopo averli tanto coinvolti nel mio lavorare (la presenza della
telecamera, gli appunti presi di straforo, i questionari, le interviste...) anche se
sapevo che ben pochi mi avrebbero davvero chiesto di leggere questa tesi. E’ perciò
mia intenzione consegnare ai ragazzi e agli operatori un breve riassunto della mia
10
Per backtalk intendiamo i giudizi dei soggetti in studio in merito alle interpretazioni
dell'osservatore.
17
ricerca, un documento sintetico di più semplice lettura, che racchiuda i risultati
emersi senza entrare nello specifico delle singole vicende personali. Un documento
da leggere insieme, per una riflessione condivisa e illuminante su quello che è stato
finora il progetto e sulle trasformazioni vissute dal gruppo e, intimamente, da
ciascuno di noi.
18
CAPITOLO 2
IL PROGETTO “DIRITTI D'AUTORE, AUTORI DI DIRITTI”
2.1. L'Associazione La Casetta – Un Focolare per ...
Simone Piazza, trentasettenne dottore di ricerca in scienze pedagogiche e
didattiche e Marina Boccaletto, pedagogista, nel 2006 lavoravano entrambi al
Centro di Formazione Professionale di Lancenigo (TV) nell'accompagnamento dei
ragazzi con disabilità o certificazione ULSS. Racconta Simone:
Lì [al CFP] ho incontrato Marina […] c'è stato questo sentire subito una
grande affinità […] Vedevamo tutti i bisogni [dei ragazzi], le esigenze
inimmaginabili a livello sociale, educativo, però allo stesso tempo tutti i
limiti, la burocrazia, la demotivazione della gran parte dei colleghi, la
difficoltà di coinvolgere chi ha potere decisionale, i dirigenti, e quant'altro...
e quindi da una parte avevamo la voglia proprio di sperimentarsi in cose
che sentivamo tutti e due molto più utili ma anche interessanti e divertenti
anche per noi stessi e questa stessa condizione di trovarci un po' imbrigliati
in questi contesti... e allora così, quasi per scherzo, ci siamo detti, perché
non iniziamo a pensare allora a dare vita a qualcosa di esterno... E allora
ecco, l'associazione è la forma più semplice con la quale sperimentarsi,
piuttosto che la cooperativa, l'ONG o chissà cosa...
Simone e Marina, insieme a Emanuele Bellò (storico delle tradizioni e della
cultura trevigiana nonché in passato educatore presso il Centro di Formazione
Professionale) e ad altre persone successivamente coinvolte, danno vita ad una
associazione e decidono di chiamarla “La Casetta – Un Focolare per ...”. Simone
racconta le ragioni della scelta di questo nome:
Ecco che il nome La Casetta è stato proposto proprio da Emanuele. Noi
l'avremmo piuttosto chiamata Maestravita, no? Con l'idea di mettere più al
centro l'aspetto educativo, però Emanuele ci ha detto “il nome più diffuso
nel mondo per indicare il luogo dove si apprende non è scuola, è casa. Casa
della cultura, casa della parola...” e quindi casa, casetta, perché lo stile
anche piccolo, e vuol essere il più possibile informale come modalità.
Alla Casetta viene quindi conferito lo status di Associazione di Promozione
Sociale:
19