Capitolo 1 L‟evoluzione dei sistemi di welfare
1.1. I nuovi assetti di welfare: welfare state e welfare mix
I moderni sistemi di welfare state si sviluppano in tutto il mondo
occidentale attraverso un processo graduale, dalla rivoluzione industriale
di fine ottocento, fino all‟ultimo dopoguerra e poi ancora per tutto il XX
secolo.
Il welfare state è considerato un modello di organizzazione dei poteri
pubblici finalizzato a compensare i costi sociali ed economici delle
dinamiche di competizione mercantile e tenta di raggiungere il suo
obiettivo ultimo, vale a dire il contrasto alla povertà e ai principali rischi
sociali, tenendo conto di alcuni criteri presupposti: un modello sociale,
industriale e fordista; il tipo di rischi sociali che esso prevede (ripartiti
lungo una traiettoria di classi sociali e periodi del ciclo di vita); le
possibilità di mettere in campo modalità regolative atte a contrastare tale
generi di rischi – ad esempio politiche sociali di tipo “assicurativo” - e
più in generale su un rapporto stato-individuo che preveda una certa
passività e subordinazione del secondo rispetto al primo.
Gli strumenti attraverso i quali si tenta di realizzare tale modello fanno
riferimento ai seguenti settori d‟intervento:
Politiche di garanzia e sostegno del reddito: rientrano sotto questa
voce le misure definite “di sicurezza sociale”, gestite attraverso tre
grandi sottoinsiemi: il sistema previdenziale; il sistema delle
assicurazioni, in parte obbligatorie e in parte integrative; il sistema
fiscale.
Politiche sanitarie: è possibile ricondurre le modalità con cui nei
diversi paesi si gestisce questo settore a due modelli fondamentali: il
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modello SSN (Servizio Sanitario Nazionale) che prevede la gestione
diretta da parte dello Stato della maggior parte dei servizi e il
finanziamento delle prestazioni tramite fiscalità generale; il modello
assicurativo, che si basa sulla presenza di una pluralità di enti di gestione
dei servizi e su un finanziamento tramite contributi.
Servizi sociali: aiuti forniti a categorie di persone o famiglie
socialmente deboli. Gli enti possono fornire questi servizi direttamente,
vale a dire avvalendosi di personale pubblico, o mediante affidamento a
soggetti privati e di terzo settore, selezionati mediante gare di appalto o
altre modalità.
Politiche per l'alloggio: tendono a garantire a tutti i cittadini la
possibilità di usufruire di un alloggio, considerato come un fattore
importante per la sopravvivenza ed il benessere, attraverso l'edilizia
popolare o le agevolazioni per l'acquisto di una casa.
Politiche attive per il lavoro: il lavoro, considerato un bene
primario non solo in quanto principale fonte di reddito, ma perché
tramite esso le persone maturano la propria identità e il senso di
autostima. Lo Stato interviene per ridurre la disoccupazione,
introducendo norme che tendono ad eliminare discriminazioni nei
confronti di certe categorie, attivando corsi di formazione professionale.
Politiche dell'istruzione: la garanzia di questo diritto si traduce
nella creazione di un sistema scolastico direttamente gestito dallo Stato
cui si affiancano iniziative private.
Nell'arco di trent'anni, nell‟Europa occidentale dal dopoguerra sino alla
metà degli anni Settanta, questo modello si mantiene all'altezza delle
aspettative conservando il compromesso tra logica del mercato e logica
della solidarietà. La crescita economica e le maggiori risorse pubbliche
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consentirono un notevole sviluppo di una estesa rete protettiva di misure
sociali organizzate dalla mano pubblica, nei settori della previdenza,
della sanità e dell'istruzione.
Con la prima crisi petrolifera del 1973, i sistemi di welfare dei paesi
industrializzati cominciarono a misurarsi con una prospettiva di crescita
delle risorse più contenuta e con la necessità di limitare la crescita della
spesa sociale, proprio nel momento in cui maggiore diventa il numero
degli eventi negativi cui far fronte (Commissione Onofri, 1997).
Emergono nuovi rischi sociali, connessi alle profonde trasformazioni
demografiche e ai cambiamenti avvenuti nella struttura occupazionale.
Le spinte più forti al cambiamento dei sistemi di welfare sono quindi da
imputare a più ampi processi di mutamento storico, che hanno
interessato le strutture economiche e le istituzioni politiche delle società
moderne e che, successivamente, si sono correlati a profonde
trasformazioni delle esigenze sociali degli individui (Moini, 2001).
Tra le cause più importanti del cambiamento dei bisogni, che mettono in
atto una nuova domanda sociale di servizi e prestazioni, possiamo
annoverare l‟invecchiamento demografico in tutti i paesi europei, dovuto
anche al progresso della medicina. Infatti, l‟aumento dei tassi di
invecchiamento della popolazione, dovuti tanto all'abbassamento dei
tassi di natalità, quanto al prolungamento della durata della vita media,
ha comportato una crescita delle spese sanitarie e delle pensioni. Ciò
determina problemi consistenti di equità fra le generazioni, poiché la
distribuzione della spesa pubblica rischia di penalizzare i giovani e di
favorire gli anziani. Inoltre, l‟aumento della popolazione anziana
contribuisce non solo alla crescita quantitativa della domanda di servizi,
ma anche ad una loro progressiva complessificazione qualitativa.
L‟invecchiamento demografico, quindi, non si scontra soltanto con i
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costi del welfare, ma anche con le sue principali forme organizzative.
L‟invecchiamento della popolazione implica, o dovrebbe implicare, un
ripensamento dei modelli e delle culture organizzative dei servizi, i quali
devono confrontarsi con i problemi della crescente non autosufficienza
sanitaria e sociale degli anziani (Moini, 2001).
Un altro aspetto rilevante è costituito dalle nuove immigrazioni; parte
consistente degli immigrati arriva clandestinamente, non avendo il
permesso di soggiorno, lavora in nero o svolge attività illegali. Si pone,
quindi, il problema di andare oltre il modello basato sulla tutela dei diritti
di cittadinanza e di estendere le garanzie anche a chi non è cittadino, ma
gode dei diritti riconosciuti dalle varie Carte dei diritti dell'uomo.
Altro potente fattore di spinta al cambiamento delle politiche di welfare è
la trasformazione dei rapporti familiari ed il mutato ruolo della donna sia
nella famiglia stessa, sia nel mercato del lavoro. Fenomeni come la
diminuzione del numero dei figli e la crescita delle separazioni
influiscono sull‟incremento delle famiglie monoparentali. Questo
cambiamento determina una “rottura” nella struttura tradizionale della
famiglia, che a sua volta va ad incidere significativamente
sull‟attivazione di un altro fattore di trasformazione del welfare: il
cambiamento del ciclo di vita, il quale, non più così facilmente
prevedibile come in passato. Si passa quindi dai modelli di ciclo di vita
“tradizionali”, ad un ritardo nell‟ingresso del mondo del lavoro in forza
di un generalizzato prolungamento del periodo di formazione scolastica
(diciotto anni nella maggior parte dei paesi Ocse). Ma, la struttura della
famiglia cambia anche in termini di capacità di produzione del reddito.
La crescente femminilizzazione del mercato del lavoro rende superata la
tradizionale immagine della famiglia patriarcale, con nuove funzioni e
ruoli della donna all‟interno del contesto familiare, attraverso il
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superamento delle sole attività di cura ed assistenza del marito e dei figli
(Moini, 2001).
L‟ultimo fattore di crisi del welfare che bisogna analizzare è costituito
dal processo di globalizzazione che nei mercati e nella produzione
riflette la crescente interdipendenza delle economie nazionali,
riconducibile alla progressiva apertura agli scambi di merci e servizi
(Franzini - Milone, 1999). Si sono sviluppati miglioramenti in termini di
efficienza e di crescita per l‟economia mondiale, tuttavia, la
distribuzione di benefici non avviene in modo uniforme nei singoli paesi
né in tutti i settori produttivi e segmenti della società. All‟interno dei
diversi fenomeni legati alla globalizzazione, uno degli aspetti più
importanti riguarda l‟attivazione di un processo di industrializzazione di
massa (soprattutto in Cina), con un basso costo del lavoro che ha
generato ampie perdite di mercato per l‟Occidente, determinando una
ristrutturazione delle produzioni, un aumento della disoccupazione e una
caduta dei salari che colpisce i lavoratori meno qualificati (Bosi, 2005).
Altro problema è quello di aver generato una pericolosa "concorrenza
sleale" da parte di quei paesi emergenti che non garantiscono ai loro
lavoratori, attraverso un'apposita legislazione, un salario minimo e
condizioni di vita accettabili. Queste determinanti del processo di
globalizzazione si aggiungono ai cambiamenti che i singoli paesi devono
affrontare; dalla riduzione dell‟occupazione nel settore primario e
secondario, alle crescenti categorie di lavoro autonomo e atipico in cui
sono comprese tutte le forme lavorative diverse da quella a tempo pieno
e indeterminato o a forte mobilità, caratterizzati da carriere lavorative
sempre più differenziate e che pertanto necessitano di forme di garanzia
molto più flessibili e individualizzate.
Le risposte e le prospettive di cambiamento, volte a coprire le lacune
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dovute ai mutamenti di ciclo di vita, come delle politiche del lavoro e del
processo di globalizzazione, vedono i paesi dell‟area occidentale alle
prese con un processo di ristrutturazione del welfare. Tale
ristrutturazione si caratterizza principalmente per la generale
ridefinizione del ruolo dell‟attore pubblico, segnalata dal passaggio da
sistemi di welfare state a sistemi di welfare mix. A fronte della difficoltà
dello Stato di rispondere ai bisogni sociali emergenti, la soluzione
adottata dai diversi paesi ha riguardato l‟ingresso di attori privati
all‟interno di un settore, come quello del welfare, tradizionalmente
pubblico. Questo processo ha come risultato la generale affermazione di
modelli di welfare basati su forme di partnership pubblico/privato, e
proprio questo elemento indica la progressiva riduzione delle
differenze esistenti fra i modelli che tradizionalmente si sono
affermati in ciascun paese (Agostini, 2005). L‟affermazione di sistemi
di welfare mix indica, allora, che il processo di ristrutturazione dei
sistemi di protezione si caratterizza per la ridefinizione del ruolo
dell‟attore pubblico. In diverse realtà si è avviato un processo di
decentramento amministrativo delle responsabilità finanziarie e
programmatorie dell‟autorità pubblica a vantaggio delle amministrazioni
locali. Tale decentramento si concretizza attraverso l‟aumento delle
risorse private destinate alla produzione di servizi di welfare,
l‟introduzione, all‟interno delle agenzie pubbliche di procedure e
tecniche di gestione tipicamente privatistiche e la netta separazione fra la
funzione di finanziamento e quella di erogazione dei servizi, mediante
una responsabilità pubblica del finanziamento, della regolazione e delega
a fornitori privati e/o non profit della fornitura diretta dei servizi (Ascoli-
Ranci, 2003). Questi sono gli elementi che caratterizzano il policy
change europeo. Molte di queste misure sono state adottate in diversi
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paesi allo scopo di ottenere risparmi sulla spesa pubblica che non
comportassero una riduzione troppo marcata del livello di servizi e delle
prestazioni offerto. Tale cambiamento di scelte politiche ha incontrato
conferme in alcuni settori, mentre ha determinato una politica di taglio
della spesa sociale pubblica in altri.
Il passaggio verso la privatizzazione, avvenuto a cominciare dagli anni
ottanta ha suscitato come sopra anticipato, reazioni positive o negative
all‟interno dei diversi contesti nazionali. Come sottolineano Ascoli e
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Ranci per una lunga stagione la privatizzazione è stata identificata come
una politica di taglio liberistico, volta a ridurre in misura sostanziale
l‟impegno dello stato nelle politiche di welfare, un tentativo di
mercificazione dei servizi sociali curati precedentemente dallo Stato in
vista di una maggiore efficacia ed efficienza. La privatizzazione ha
assunto poi un significato più complesso che non si riferisce soltanto ad
un trasferimento di responsabilità dal pubblico al privato, ma ad una sua
ridefinizione in termini regolativi volti ad evitare i “fallimenti del
mercato”. Il trasferimento di responsabilità pubbliche sui soggetti privati
ha cambiato in modo sostanziale la loro logica d‟azione, in una direzione
per un verso auspicabile in termini di efficienza e capacità di
progettazione, per un altro, assistiamo al cambiamento, inquietante, di
logica identitaria, di flessibilità ed autonomia d‟azione. Sono proprio
questi i rischi che i nuovi modelli di welfare dovranno affrontare
attraverso nuove forme di regolazione nei rapporti fra Stato e privati e/o
non profit nella fornitura di servizi, che di conseguenza portano a nodi
problematici individuati come i dilemmi del welfare mix (Ascoli, Ranci,
2003):
I. Delega o condivisione delle responsabilità: potrebbe avvenire un
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Ascoli U. e Ranci C. (2003), Il welfare mix in Europa, Roma, Carocci.
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totale trasferimento di responsabilità verso il privato, dalla
progettazione all‟erogazione delle prestazioni. La possibilità di una
condivisione di responsabilità fra i soggetti, proponendo l‟inclusione
dei cittadini in una sorta di “coprogettazione”, quindi di
partecipazione attiva dell‟utente che determinerebbe una condivisione
delle scelte e delle pratiche nel rispetto delle responsabilità.
II. Quale interazione: cooperazione o competizione? L‟interazione
pubblico-privato può avere al suo interno una matrice cooperativa,
volta alla ricerca di un‟offerta di servizi di qualità elevata; in
alternativa il rapporto può basarsi su meccanismi di regolazione fra
soggetti non pubblici (appalto, concessione). Nella matrice
cooperativa, si rischia una deriva particolaristica e clientelare, nella
seconda, difficoltà di collaborazione.
III. Efficienza organizzativa o qualità sociale del servizio: in ottica
aziendalista l‟efficienza andrebbe misurata in termini di risorse
impiegate, tempi impiegati e numero di prestazioni erogate. Tutto ciò
non deve forviare dalla necessità di qualità sociale delle prestazioni, di
rischio d‟esclusione sociale e di innovatività, efficienza ed efficacia
che i nuovi servizi “privati” dovranno farsi carico.
IV. Centralità o marginalità del volontariato: il maggior coinvolgimento
delle organizzazioni di terzo settore nell‟erogazione dei servizi
coincide con una loro professionalizzazione e specializzazione. Tali
manifestazioni determinerebbero un fenomeno di
“devolontarizzazione”: i volontari verrebbero progressivamente
esclusi dal coinvolgimento diretto nell‟erogazioni delle prestazioni a
vantaggio di lavoratori retribuiti e professionalizzati.
V. Prestazioni uniformi o differenziate: l‟introduzione di nuove forme
di regolazione, di tipo contrattuale, potrebbe indurre ad una maggiore
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standardizzazione delle prestazioni erogate dalle organizzazione del
terzo settore, in conseguenza della necessità di rimanere nei limiti
fissati e accettati. D‟altro canto occorre conciliare queste
caratteristiche con quelle del servizio pubblico, tendenzialmente
universalista, rivolto a tutti i cittadini.
Risulta chiara la difficoltà di prevedere risultati certi e migliori nel breve
e nel lungo termine, con una serie così lunga di interrogativi. Parte di
questi stessi interrogativi per quanto riguarda il contesto italiano sono
stati segnalati nel 1997, nella relazione finale della Commissione Onofri.
Nell‟analizzare il rapporto pubblico-privato, si riconosce come, in alcuni
paesi, questi miglioramenti di efficienza siano stati ricercati attraverso il
collocamento della produzione di alcuni servizi sul mercato, in
particolare della sanità e della previdenza. Vale la pena di sottolineare
che in questo modo l‟onere complessivo per il sistema economico
cambia solo nella misura in cui tali miglioramenti di efficienza (impiego
di minori risorse per fornire lo stesso servizio) si realizzano
effettivamente. Diversamente, si tratta di scelte che afferiscono
solamente alla ridistribuzione di reddito e sottraggono alla mediazione
dello Stato il finanziamento di tali spese.
La difesa dell‟offerta pubblica di sanità, previdenza e assistenza richiede,
quindi, uno sforzo di efficienza interno all‟amministrazione pubblica e
non si può escludere che, data la scarsità delle risorse e la domanda
crescente a ritmi crescenti, si renda necessaria la concentrazione degli
sforzi della collettività su aree più circoscritte di produzione pubblica,
spostando nella sfera di produzione privata, altri servizi, che in modo più
agevole possono essere collocati sul mercato.
Le difficoltà d‟offerta pubblica di servizi e prestazioni vengono così
segnalate dalla Commissione, la quale sostiene, che non potrà essere
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rinviata a lungo la scelta se sia più opportuno conservare in Italia la
sanità e la previdenza nella sfera pubblica, oppure conservare la
produzione pubblica di energia, la consegna pubblica della posta, oppure
ancora i trasporti pubblici e così via (Commissione Onofri, 1997).
Appare chiara la difficoltà nel privilegiare l‟una o l‟altra prospettiva,
privata o stato-centrica, collaborativa o pienamente liberista, in vista
delle difficili previsioni rispetto ad un miglioramento effettivo dei servizi
e prestazioni non solo nella mano pubblica. Viene infatti ribadito come
criteri aziendalistici e privatistici come efficienza ed efficacia non siano
determinanti nel garantire un benessere generalizzato che oggi lo Stato
fatica ad offrire, ma ci si dovrà domandare quale di questi diversi
contesti di organizzazione della offerta garantisca di più la coesione
sociale.
Ciò che sembra fondamentale da perseguire poi, non è una riduzione
complessiva dei livelli di spesa sociale, ma una ristrutturazione della sua
composizione e dei criteri operativi di gestione (Franzini-Milone, 1999),
che possano garantire da una parte, una maggiore efficienza ed efficacia,
ma dall‟altra, garantire quell‟universalismo di prestazioni che significa
accesso ai benefici sulla base solo dell‟insufficienza di mezzi,
indipendentemente da qualsiasi riferimento a variabili categoriali, quali
le condizioni di lavoro, l‟età, il genere e il luogo di residenza.
Quest‟orientamento viene confermato da Bosi (2005), il quale prendendo
le distanze da visioni prettamente liberiste di contracting out e
smantellamento del sistema di stato sociale di rilievo pubblicistico,
sottolinea come le delusioni dei processi di privatizzazione siano
strettamente correlate ad aumenti di disuguaglianze sociali e alla crisi del
ceto medio.
Continua Bosi, vi è necessità di una maggiore spesa per il welfare,
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pensata in modo nuovo, che non sia improduttiva e semplicemente
assistenziale, ma, al contrario, fondata sullo sviluppo tecnologico, in
grado di soddisfare diverse esigenze, per esempio, della popolazione
anziana nei prossimi venti/trent‟anni. Il ruolo, poi, delle istituzioni nel
processo di globalizzazione deve essere attivo, in quanto in questi anni
gli effetti del processo di allocazione libera dei mercati, in qualunque
luogo del mondo, hanno generato effetti negativi, incidendo in misura
più forte sulle classi meno agiate dei paesi sviluppati.
1.2. Il sistema di protezione sociale
Lo sviluppo e l‟istituzione dei sistemi di protezione sociale, organizzati
in base all‟architettura istituzionale, culturale, sociale ed economica delle
differenti nazioni, risale agli inizi del XIX secolo. Esso fu conseguenza
della grave miseria operaia derivante dal rapido progresso industriale,
che comportò un generale stravolgimento delle strutture sociali
dell'epoca. Nel giro di pochi decenni la trasformazione radicale delle
abitudini di vita, dei rapporti fra le classi sociali, e anche dell'aspetto
delle città, soprattutto le più grandi, determinò lo sviluppo di nuovi rischi
sociali come gli incedenti sul lavoro, malattie, disoccupazione, ecc. La
risposta alla crescente insicurezza economica degli individui favorì lo
sviluppo di sistemi di protezione sociale pubblici.
L‟esperienza inglese è probabilmente la prima in ordine cronologico. Il
welfare state, infatti, affonda le sue radici nella Poor Law di Elisabetta I
d‟Inghilterra a cavallo tra il „500 e il „600. Tuttavia possiamo trovare
importanti modelli di intervento statuale già nell‟Europa centrale -
francese, prussiano, austro–ungarico – messi in atto dai sovrani
illuminati del „700. Con la rivoluzione francese poi, sono proclamati i
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diritti sociali del cittadino e la Costituzione del 1791 diventò il punto di
riferimento degli Stati costituzionali (Oleari, 2001). E‟ nel XIX secolo
che il welfare state comincia a diffondersi in Europa. Inizialmente, in
Inghilterra, dove vengono modificate e integrate le Poor law e dove
iniziano a nascere le prime forme di assicurazione sociale dei lavoratori.
Questo fenomeno si sviluppò verso la fine del secolo nella Germania di
Otto Von Bismarck, il quale istituì un vero e proprio sistema di
protezione sociale. Il cancelliere prussiano introdusse le prime misure di
un moderno Stato sociale, istituendo un regime di leggi a favore dei ceti
più bisognosi. Ma solo a partire dagli anni „20 tali misure raggiunsero
un‟estensione e un‟organicità tali, da poter parlare di vere e proprie
politiche sociali, con assicurazioni obbligatorie contro i rischi maggiori
quali la povertà, la malattia, gli infortuni sul lavoro e la vecchiaia. Un
welfare basato su un principio assicurativo, si intendeva cioè garantire a
ciascuno un minimo di sopravvivenza, in relazione al contributo dato con
il proprio lavoro, attraverso la copertura assicurativa e l‟introduzione
degli assegni familiari (Oleari, 2001).
Il punto di svolta per l‟Europa, fu dopo la grande depressione del ‟29. Il
consolidamento del welfare state tra le due guerre determinò un
cambiamento nel ruolo del sistema di protezione sociale, non più dalla
ristretta nozione di “assicurazione dei lavoratori”, ma a quella ben più
estesa di “assicurazione sociale”.
E‟ dalla Gran Bretagna che i piani di sicurezza sociale di Lord Beveridge
determinarono un mutamento radicale nel campo d‟applicazione delle
politiche sociali. Non sono più soltanto i lavoratori a poter beneficiare di
misure di protezione sociale, ma è tutta la popolazione che, in quanto
tale, ha diritto ad una sicura esistenza. Il modello beveridgiano puro
prevede analoghe prestazioni sociali per tutti, indipendentemente dalla
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condizione professionale, ed è alimentato dalla tassazione generale
(Caldarini, 2006). In questo periodo trovarono terreno fertile le tesi
economiche di John Maynard Keynes, la cui teoria generale giustificava
le politiche destinate a stimolare la domanda in periodi di
disoccupazione, ad esempio tramite un incremento della spesa pubblica.
Le argomentazioni di Keynes ottennero conferma nei risultati della
politica varata negli stessi anni dal presidente Roosevelt che dopo la crisi
del 1929, inserì nell‟ambito del New Deal un nuovo approccio, con il
quale vennero introdotte per la prima volta negli Stati Uniti l‟assistenza
sociale e le indennità di disoccupazione, malattia e vecchiaia, basate
proprio sulle idee di Keynes, favorevole ad utilizzare il deficit spending
come volano della crescita economica.
I sistemi di protezione sociale di praticamente tutti i paesi dell‟Europa,
sono stati in qualche modo ispirati, chi più chi meno, dal modello
bismarckiano e da quello beveridgiano. Nel tempo i diversi sistemi
nazionali si sono differenziati e nessuno, ormai corrisponde più
pienamente a l‟uno o l‟altro dei due modelli originari (Caldarini, 2006).
A partire dagli anni settanta del secolo scorso si è assistito allo sviluppo
di sistemi misti, caratterizzati da partnership pubblico-privato che hanno
portato diversi studiosi ad evidenziare alcuni tipi ideali di modelli al fine
di comprenderli e analizzarli, ma soprattutto compararli.
Uno dei primi studi, volti ad indagare i modelli di welfare state
nazionali, fu quello di Richard Morris Titmuss (1974), studioso inglese
che nei suoi corsi presso la London School of Economics, proponeva di
distinguere tre differenti modelli.
Questa classificazione, costruita lungo una scala di onerosità e
complessità degli interventi sociali, colloca al livello più basso il
residual welfare model, caratterizzato da un intervento pubblico limitato
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a quei bisogni individuali che emergono di fronte al fallimento della
famiglia e del mercato, considerati come i canali di risposta naturale a
tali bisogni. L‟industrial achievement-performance model, identifica
invece, quel modello di welfare in cui i livelli di protezione riflettono i
meriti e i rendimenti lavorativi. Infine, l‟institutional redistributive
model, si connota per l‟orientamento a rispondere in chiave
universalistica ai bisogni sociali (Agostini, 2005). Questa classificazione
è stata ripresa e rielaborata nel 1990 da Esping-Andersen, secondo il
quale le differenti combinazioni corrispondono a diverse concezioni
della società e, più precisamente, a diverse interpretazioni di ciò che per
gli Stati rappresenta una good society. Questo spiegherebbe come nei
paesi anglosassoni, maggiormente orientati all‟individualismo, si sono
percorse strade differenti rispetto ai paesi scandinavi, rivolti più verso
l‟egualitarismo e l‟universalismo, o rispetto a scelte basate sulla
sussidiarietà del cattolicesimo sociale, propria dei paesi conservatori.
Esping-Andersen introduce inoltre il concetto di «demercificazione»
(decommodification) (Caldarini, 2006). La demercificazione ha luogo
quando un servizio viene assicurato in quanto corrispondente ad un
diritto, e quando una persona può disporre dei mezzi di sussistenza
indispensabili senza doversi affidare al mercato; in sintesi è la capacità
del welfare di sottrarre l‟individuo alla dipendenza dal mercato. Sulla
base di tale concetto, Esping-Andersen sostiene che, per quanto riguarda
lo sviluppo dello stato sociale, si possono individuare i tre seguenti
regimi-tipo (Hill, 1999):
lo “stato sociale liberale, all‟interno del quale predomina
l‟assistenza basata sul test dei mezzi (means test) delle risorse o della
condizione economica e sociale dei singoli soggetti, o un sistema di
trasferimenti universalistico ma di modesta identità, o un sistema
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assicurativo altrettanto generoso”. Sono tipi di interventi che
indicherebbero un basso livello di “demercificazione”. Secondo Esping-
Andersen, rientrano in questa categoria l‟Australia, gli Stati Uniti, la
Nuova Zelanda, il Canada, l‟Irlanda e la Gran Bretagna.
I paesi di cui “l‟eredità storica corporativo-statalista è stata
trasferita dalla nuova struttura di classe post-industriale”; in tali paesi,
“la conservazione delle differenze di status” è considerata più importante
sia dell‟ “ossessione liberale per l‟efficienza del mercato”, sia “della
garanzia di diritti sociali”. Questa seconda categoria comprende l‟Italia,
il Giappone, la Francia, la Germania, la Finlandia, la Svizzera, l‟Austria,
il Belgio, l‟Olanda.
I paesi “in cui i diritti sociali ispirati ai principi dell‟universalismo
e della de mercificazione sono stati estesi anche alle classi medie”; in
questi paesi “i socialdemocratici hanno cercato di realizzare uno stato
sociale capace di promuovere l‟eguaglianza degli standard più alti”.
Rientrano in questa categoria la Danimarca, la Norvegia e la Svezia.
Il lavoro di Gøsta Esping-Andersen ha avuto il merito di stimolare un
vivo dibattito, ciò nonostante lo stesso autore ha sostenuto come questa
tipologia fosse troppo rigidamente basata sui programmi di sostegno al
reddito; inoltre, molti studiosi sostenevano la necessità di inquadrare i
paesi dell‟Europa meridionale in un regime a se stante. Per questi motivi,
Maurizio Ferrera nel 1993 elabora una tipologia suddivisa in quattro
modelli: occupazionale puro, di Francia, Belgio, Germania e Austria;
occupazionale misto, di Svizzera, Italia, Olanda e Irlanda;
universalistico misto, di Gran Bretagna e Canada; universalistico puro,
di Svezia, Norvegia, Danimarca e Finlandia. Lo studio di Ferrera si basa
su un approccio prettamente qualitativo, incentrato a misurare la
copertura rispetto agli individui più che la quantità di protezione offerta
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