1- DALLA CULTURA ALLA COMUNICAZIONE CROSS-
CULTURALE
1.1- ALCUNE DEFINIZIONI SIGNIFICATIVE DI “CULTURA”: SPECIFICITÀ E
PUNTI DI CONTATTO
Il concetto di cultura è sempre stato oggetto di ampi dibattiti, nonché di
innumerevoli studi, sia in ambito antropologico che sociologico, tanto che
tutt‟oggi risulta difficile, se non impossibile, fornire una definizione univoca e
universalmente accettata del termine.
Il primo a sottolinearne il carattere relativo è Edwart Burnet Tylor (1832-1917)
che definisce la cultura come il complesso che include le conoscenze, le
credenze, l‟arte, la morale, il diritto, il costume e ogni altra capacità e abitudine
1
acquisita dall‟uomo in quanto membro di una società.
I successivi sviluppi dell‟antropologia affermano ancora di più la dimensione
2
relativista; Bronislaw Malinowski (1884-1942), per esempio, intende la cultura
come un “vasto apparato costituito da tutti i costumi, gli oggetti materiali, le
idee, le credenze che adempiono le funzioni necessarie a soddisfare i bisogni
3
umani”.
L‟esponente più noto del relativismo culturale è Melville Herskovits (1895-1963),
il quale afferma l‟esistenza di una “specificità” di ogni cultura; in sostanza
sostiene che i molteplici aspetti della cultura siano presenti in ogni comunità,
4
ma che assumano in questa caratteri specifici che la identificano.
1
Tratto da: Tylor E. B. , 1871, Primitive Culture, Ed. Murray, London
2
Si vedano anche studiosi come Benedict (1960, Modelli di cultura, Feltrinelli, Milano), Boass (1972,
L’uomo primitivo, Laterza, Bari, con prefazione di Herskovits; 1988, Race, language and culture, The
University of Chicago Press, Chicago-London), Lévi-Strauss (2002, Razza e Storia; Razza e Cultura,
Einaudi, Torino; 2008, Elogio dell’antropologia, Einaudi, Torino), Mauss (1997, Sociologie et
antropologie, Presses Universitaires de Paris, con introduzione di Lévi-Strauss).
3
Come riportato da Martorella C., 2005, Bunka, La cultura giapponese nella storia. Scontro tra
dogmatismo e relativismo (on line http://www.nipponico.com/dizionario/b/bunkastoria.php ).
4
Tratto da Herskovits M. J., 1948, Man and his works : the science of cultural anthropology, Knoff, New
York.
5
Con il procedere degli studi, autori come James Clifford (1945-…) vanno
delineando una connotazione più dinamica: la cultura non è più vista come un
bagaglio di modelli definiti, ma come un qualcosa in continuo mutamento
dovuto al contatto con altre culture.
Più l‟argomento viene approfondito più le definizioni si moltiplicano.
Hall (1914-2009) definisce innanzitutto la cultura come comunicazione, poi,
grazie anche agli sviluppi della tecnologia, suggerisce la metafora della cultura
come “programma per computer”, ossia un sistema per creare, spedire,
memorizzare ed elaborare informazioni, come anche abitudini, tradizioni e
5
costumi.
Geertz (1914-2006) la definisce come un insieme di meccanismi di controllo per
monitorare il comportamento degli individui; secondo questa logica sono i
modelli culturali stessi ad influenzare i comportamenti umani, come l‟esperienza
6
guida le future azioni.
Herbig nel 1995 la considera come un:
- “sistema di comunicazione alla base dell‟esistenza della società umana
che integra i comportamenti biologici e tecnici degli esseri umani con i
loro sistemi verbali e non verbali di espressione;
- modo di vita che include i comportamenti attesi, le credenze, i valori, la
lingua e le abitudini condivise dai membri di una società;
- modello di valori, caratteristiche condivise dalla popolazione di una
regione;
- catalizzatore capace di trasformare significati privati e pubblici in modo
che siano compresi dagli altri (futuri, non ancora nati) membri della
società;
- regole implicite ed esplicite attraverso le quali le esperienze sono
interpretate;
- strumento con cui le nuove generazioni acquisiscono la capacità di
7
superare la distanza che separa una vita dall‟altra”.
5
Tratto da Hall E. T. & Hall M. R., 1990, Understanding cultural differences, Intercultural Press,
Yarmouth.
6
Tratto da Geertz C., 1987, Interpretazione di culture, Il Mulino, Bologna.
7
Herbig P.A. come citato in Cavallone M., 2007, “Gestire la comunicazione di marketing nella società
multiculturale: problemi aperti e implicazioni per il management”, Mercati e competitività, n.1.
6
8
Molte altre ancora potrebbero essere le definizioni citabili; in questa sede ne
sono state richiamate solo alcune delle più note per far comprendere quanto ne
sia relativo il significato e come, nonostante questo carattere distintivo, si riesca
comunque ad individuare un denominatore comune: per quanto la sua
definizione possa essere soggettiva, infatti, è indiscutibile che la cultura sia il
legame che accomuna un determinato gruppo di persone che condividono
alcuni elementi tra i quali i più importanti sono i valori.
I valori, appunto, sono parte integrante del modello che si prenderà a
riferimento per l‟analisi del caso pratico nella seconda parte del lavoro: il
9
modello di Hofstede.
1.1.1- IL CONCETTO DI CULTURA SECONDO IL MODELLO DI
10
HOFSTEDE: LA CENTRALITÀ DEI VALORI
Anche Hofstede, come Hall, utilizza il campo informatico per spiegare la sua
concezione di cultura che chiama infatti “software mentale” o modelli di
pensiero, ossia ciò che almeno parzialmente determina il comportamento
dell‟individuo; parzialmente perché il programma mentale individua reazioni
probabili o possibili, ma il singolo possiede comunque la capacità di deviare da
questo programma e reagire in maniera nuova e creativa. Quando si parla di
11
cultura intesa come software mentale, si parla sempre di un fenomeno
collettivo: è la programmazione mentale collettiva ciò che distingue i membri di
un gruppo o di una categoria da quelli di un altro/a, dove per gruppo si intende
una serie di persone in contatto tra loro, mentre per categoria una serie di
12
persone con qualcosa in comune ma non necessariamente in contatto.
Un prezioso contributo all‟elaborazione del concetto di “programmazione
mentale collettiva” è stato sicuramente fornito dal sociologo francese Pierre
8
Secondo le stime di Cavallone sarebbero addirittura più di 450.
9
Geert Hofstede (Haarlem 3/10/28) è uno dei più famosi psicologi tedeschi del XX secolo.
10
Per approfondimenti sulle teorie di Hofstede: Hofstede G., 1999, Culturas y organizaciones, el
software mental, Alianza Editorial, Madrid.
11
Hofstede distingue due tipi di cultura: la cultura uno, cioè la cultura in senso stretto, intesa come
raffinamento della mente, e la cultura due ovvero il software mentale.
12
Ad esempio la categoria delle donne sposate.
7
Bourdieu che qualche anno prima proponeva quello di habitus: “i
condizionamenti associati a una classe particolare di condizioni di esistenza
producono un habitus, un sistema di disposizioni permanenti e trasferibili
predisposte a funzionare come principi generatori e organizzatori di pratiche e
rappresentazioni […] orchestrate collettivamente senza essere il prodotto
13
dell‟azione organizzativa di un direttore d‟orchestra reale”.
Hofstede procede poi distinguendo la cultura dalla natura umana: quest‟ultima è
la parte del software mentale che tutti gli esseri umani hanno in comune e si
eredita di generazione in generazione; la cultura invece si apprende, non si
eredita, e dipende dal proprio contesto sociale. Questo spiega l‟enorme varietà
di culture esistenti e giustifica lo sviluppo del relativismo culturale del quale si è
accennato in precedenza: il relativismo culturale non implica la mancanza di
norme né per il singolo né per la società, ma impone la sospensione del
giudizio quando si tratta di gruppi o categorie differenti dal proprio, infatti “una
cultura non possiede criteri assoluti per giudicare le attività delle altre culture
14
come “basse” o “elevate””.
Secondo Hofstede queste differenze culturali si manifestano secondo il
seguente schema, di cui esistono due rappresentazioni: la “cipolla” (a cerchi
concentrici) in fig. 1.1 e l‟”iceberg” (piramidale) in fig. 1.2.
1516
Figura 1.1: Rappresentazione a cipolla Figura 1.2: Rappresentazione ad iceberg
13
Bourdieu P., 1980, Le sens pratique, Les Editions de Minuit, Paris, pp. 88-89.
14
Lévi-Strauss C.-Eribon D., 1988, De près et de loin, Ed. Odile Jacob, Paris, p. 229.
15
Hofstede G., 1999, Culturas y organizaciones, el software mental, Alianza Editorial, Madrid, p. 40.
16
Cavallone M., 2007, “Gestire la comunicazione di marketing nella società multiculturale: problemi
aperti e implicazioni per il management”, Mercati e competitività, n.1, p. 101.
8
Come si può notare i valori costituiscono la parte più nascosta, poi, spostandosi
più verso l‟esterno (o in superficie), si trovano rituali, eroi e simboli.
Analizziamo le quattro componenti:
- Simboli: sono parole, gesti, immagini o oggetti che assumono un
significato concreto per chi condivide una determinata cultura, ma che
sono facilmente riconoscibili anche da chi non la condivide proprio
perché “visibili” e perciò situati nella parte più superficiale del modello. I
simboli evolvono, spariscono e si sviluppano con facilità, spesso
prendendo spunto da quelli vecchi o addirittura da quelli di altre culture,
con cui non necessariamente hanno un legame. Il modo di vestire,
piuttosto che una determinata pettinatura, rappresentano abbastanza
chiaramente il concetto di simbolo.
- Eroi: come suggerisce il termine, sono persone, vive o morte, reali o
anche immaginarie, che possiedono caratteristiche ampiamente
apprezzate in una determinata cultura, tanto da diventare dei modelli di
condotta. Un esempio di eroe immaginario può essere Asterix nella
cultura francese, mentre per quanto riguarda gli eroi reali vengono
“utilizzati” sempre più frequentemente, oltre ai personaggi storici (che, in
quanto tali, godono di riconosciute virtù), personaggi famosi come attori,
cantanti, campioni sportivi e personaggi televisivi in generale, perché
soggetti ad ampia visibilità.
- Rituali: sono attività tecnicamente superflue, ma considerate essenziali
17
all‟interno di una cultura. Sono rituali il modo in cui si saluta, le forme di
cortesia, le cerimonie sociali e religiose. Sotto questo punto di vista il
matrimonio in chiesa è certamente un rituale per la comunità cristiano-
cattolica, ma lo è anche il “galateo” per la cultura occidentale.
- Valori: sono le tendenze a preferire certi stati delle cose a certi altri.
Come già accennato, sono l‟elemento centrale di una cultura e, non a
caso, sono situati nella parte più interna del modello, la più nascosta,
non solo a livello figurato, ma anche a livello pratico: i valori, infatti, non
sono elementi visibili, risiedono nell‟inconscio dell‟individuo, dove si
17
Calore, tempestività, distanza, postura, variano notevolmente da una cultura all’altra e, se tali rituali
non vengono rispettati, possono anche essere presi come una sorta di mancanza di rispetto.
9
18
instaurano implicitamente sin dai primi anni di vita, e proprio per questo
-al contrario dei simboli- sono difficilmente riconoscibili non solo dai non
appartenenti alla medesima cultura, ma spesso anche da chi ne è il
portatore diretto. In sostanza sono gli elementi distintivi di una cultura più
radicati nell‟individuo e più difficili da riconoscere e da cambiare.
Un altro autore, Rokeach, si è occupato in maniera particolare del
concetto di valore. Egli lo definisce come “convinzione permanente che
un comportamento o un modo di essere sia personalmente o
19
socialmente preferibile al modo d‟agire inverso”. Come si può notare, la
definizione è molto simile a quella fornita da Hofstede; in particolare
entrambe sottolineano due tratti fondamentali: il carattere radicato dei
valori nell‟individuo, e quello di “guida” di fronte a una scelta. Inoltre,
Rokeach approfondisce distinguendo tra valori terminali, ossia quelli
legati ad aspirazioni che si vogliono realizzare nel corso della vita (es.
amore, felicità, serenità, ecc.), e valori strumentali, più “pratici / materiali”
e legati alle modalità con cui le persone intendono realizzare le loro
aspirazioni (es. potere, successo, denaro, ecc.).
20
1.2- LA CULTURA NAZIONALE: LE DIMENSIONI DI HOFSTEDE
Hofstede riconosce la presenza di una cultura nazionale, che si distingue dalle
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altre grazie a cinque dimensioni:
- distanza dal potere (o distanza gerarchica): è la misura in cui gli individui
meno potenti di un‟organizzazione o un‟istituzione (ma anche della
famiglia) accettano e si aspettano che il potere sia distribuito in maniera
18
Gli psicologi affermano che, già all’età di dieci anni, la maggior parte dei bambini abbia il suo sistema
di valori fermamente stabilito.
19
Rokeach M., 1973, The nature of human values, The Free Press, New York, p. 5.
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Vi sono stati altri autori che hanno studiato la cultura nazionale tramite un approccio dimensionale: i
primi sono stati Kluckholn e Strodbeck nel 1961 con un modello a sei dimensioni (natura delle persone,
relazione persone-natura, individualismo vs collettivismo, modo di azione, concetto di spazio,
orientamento temporale); in seguito, Edward T. Hall nel 1966 con un modello bidimensionale (high-
context vs low-context culture) e Martin J. Gannon nel 1994 rielaborando il modello di Hofstede.
21
Per approfondimenti sulle dimensioni di Hofstede si veda: Hofstede G., 1999, Culturas y
organizaciones, el software mental, Alianza Editorial, Madrid, e http://www.geert-hofstede.com/.
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