1
INTRODUZIONE
Parlare di teatro inglese in età georgiana significa innanzitutto
parlare di censura. Un po' paradossale, forse, come equivalenza, ma la
contraddizione sfuma man mano che ci si avvicina alla condizione reale di
produzione drammatica del tempo: a partire dal Licensing Act del 1737,
infatti, la corona e il governo inglese esercitano un controllo pressante sui
testi teatrali da mettere in scena, consentono la rappresentazione dei generi
classici solo a due teatri in tutta Londra, mentre gli altri teatri e gli altri
generi saranno, d’ora in avanti, “illegittimi”. “Illegittimità” non significa
certo, a priori, “illegalità”, ma date le forti restrizioni che limitano la
possibilità di espressione, la distanza si fa pericolosamente sottile, e può
diventare provocazione. Governo e corona innestano di fatto un sistema di
censura che a prima vista sembra soffocare la creatività per timore del mob,
la massa informe, in favore di un teatro che sa di -innocuo- retaggio del
passato. I timori diventano paranoia quando a fine secolo gli echi della
Rivoluzione francese oltrepassano la Manica e spaventano gli Hanover.
Eppure è proprio in virtù di questa censura in atto che quella vitalità in
potenza dà frutti memorabili, cerca vie nuove che trasgrediscano le regole e,
alla fine, ci riesce.
Il compito dello studioso contemporaneo però qui si fa arduo, perché
quell'enorme mole di stratagemmi per giocare col proibito si complica
quando i significati si innestano nel “qui” e nel “ora” di una realtà politica e
sociale diversa, dove andare a teatro aveva un significato diverso, e dove il
ruolo del teatro stesso era diverso. E quando è la satira a voler entrare in
scena le parole devono fare ancora più attenzione, pena una censura che,
come nel caso di alcuni testi di Percy Bysshe Shelley, può durare più di un
secolo.
Swellfoot the Tyrant è una burletta pressoché ignorata dalle
storiografie moderne, forse perché nasce come presunta tragedia mai andata
2
in scena, forse perché la storia ci ha consegnato Shelley soprattutto come
poeta rivoluzionario ma, per quanto rivoluzionario, pur sempre poeta e
difensore della poesia, e i suoi testi teatrali difficilmente hanno raggiunto il
palcoscenico, vuoi per l'arditezza dei temi, vuoi per le difficoltà tecniche
che presentavano. Tuttavia proprio Swellfoot the Tyrant, composto da
Shelley nel 1820, può offrire lo spunto per una riflessione sia sul teatro
inglese dell'epoca, sempre alla ricerca di nuove e provocatorie vie di fuga
dal sistema di censura, sia sui modi della satira, genere antichissimo ma che
legandosi alla contemporaneità dà risultati inaspettati e irriverenti.
Queste saranno le tematiche fondamentali del presente lavoro: nel
primo capitolo, partendo da un'analisi storica del teatro georgiano e dei vari
tentativi di regolamentazione messi in atto dal governo fin dai primi decenni
del Settecento, mi concentrerò in particolare sulla nascita del teatro
illegittimo in quanto risposta creativa a tali regolamentazioni. Nel secondo
capitolo tratterò le vicende che gravitavano attorno alla regina Carolina e al
suo problematico rientro in Inghilterra nell’estate del 1820: Carolina infatti,
ripudiata anni prima dal marito nonché futuro re Giorgio IV, si è servita del
nascente teatro illegittimo per sostenere, di contro, la legittimità del suo
ruolo di sovrana. A suo avviso questo ruolo le spettava di diritto, e una
simile richiesta di inclusione in un sistema di potere di cui era al contempo
formidabile simbolo, ha attirato gli interessi di chi cercava un’inclusione
non dissimile: in questo senso sarà utile mostrare le istanze dei radicali e dei
riformisti che intravedevano nella vicenda della regina un riflesso del loro
desiderio di rappresentanza in un altro organo di governo, il Parlamento.
Swellfoot the Tyrant sarà l’argomento del terzo capitolo, e
rappresenta il naturale sbocco dei nuclei precedenti: la burletta ci mostra il
punto di vista indignato e tragicamente divertito di Shelley sullo scenario
politico inglese, e ci fa conoscere il poeta sotto una veste che lui stesso,
vedremo, trovava scomoda: è lo Shelley satirico e sanguigno, tagliente e
distruttivo, l’antitesi amara ma necessaria allo Shelley conciliante e creativo
3
di A Defense of Poetry, di poco posteriore. Swellfoot the Tyrant sarà quindi
il punto d'arrivo e insieme il punto di una nuova partenza: se da un lato il
poeta gioca qui sia col dato storico che con le norme stesse della satira del
tempo, dall'altro ci permette di riflettere, a livello più generale, sul rapporto
tra decostruzione del presente e costruzione di un futuro diverso e possibile.
Attraverso i suoi scritti Shelley cerca di ancorare le sue visioni ideali alle
potenzialità del presente, offrendoci di fatto analisi lucide di una situazione
politica che pure il poeta negli ultimi anni della sua vita osservava, con
rammarico, da lontano.
L’idea del presente lavoro nasce da una curiosità personale nei
confronti delle forme d’arte illegittime, soprattutto quando sono intrise di
satira. E’ stato quanto mai sorprendente constatare come autori per così dire
“canonici”, poeti che le pagine impolverate della tradizione critica ci
consegnano dall’alto della loro perfezione stilistica e sensibilità ai nostri
occhi obsoleta, siano in realtà entrati anche in contatto con un mondo che
pulsava imperfetto dal basso, e lo abbiano descritto: Shelley è senza dubbio
uno di questi, perché dietro alla pulizia delle sue odi italiane c’è anche la
sporcizia della stalla di Swellfoot. E’ tuttavia opportuno fin d’ora precisare
che Swellfoot the Tyrant non è un’opera intesa per il popolo, come dimostra
la classicità delle fonti cui si appiglia seppur per parodiarle, ma nella cultura
popolare Shelley certo si tuffa per raccogliere immagini, trasformazioni
magiche e maschere carnevalesche. Si serve delle immagini rovesciate
poiché bene si prestano a rappresentare un altro tipo di rovesciamento,
quello politico, che il poeta sente imminente e che senza dubbio desidera in
nome di quegli ideali di uguaglianza che oggi sono tessuto del nostro essere
civile, ma che l’Inghilterra di primo Ottocento cercava di conquistarsi nelle
piazze, oltre che nei teatri.
La censura è stata considerata, in questo lavoro, non solo in quanto
esercizio di un’autorità che fa capo al governo, ma anche come azione
collettiva: censura è infatti anche quella di Leigh Hunt, amico di Shelley,
4
che si rifiuta di pubblicare, sulla sua rivista, The Mask of Anarchy, e pure è
una forma di censura l’opera smorzante di Mary Shelley nei confronti dei
toni più accesi di cui si colorano, talvolta, alcune pagine del marito.
In queste pagine leggeremo di usi provocatori dei mezzi di
comunicazione, di scandali politici e retroscena sessuali che entrano nel
sistema dell'arte facendo tremare i potenti, di censura come tentativo di
controllare preventivamente l'azione delle masse e come stimolo costante
alla trasgressione... Insomma, proprio storie d'altri tempi.
5
CAPITOLO 1: Il teatro tra Sette e Ottocento
“…it is indisputable that the highest perfection of human society has ever corresponded
with the highest dramatic excellence; and that the corruption or the extinction of the drama
in a nation where it has once flourished, is a mark of a corruption of manners, and an
extinction of the energies which sustain the soul of social life.”
(P. B. Shelley, A Defence of Poetry, 1821)
a) Teatro e censura: l' “illegittimo” come categoria
“Of the nation's political life almost nothing is traceable in the
drama”1: con queste sconcertanti parole riferite al teatro georgiano, Ernest
Bradlee Watson riassume la tendenza della maggior parte della critica
Novecentesca, che ha considerato il teatro romantico inglese soltanto nella
sua (presunta) a-politicità oltre che nella sua (altrettanto presunta) a-
poeticità. Fortunatamente uno studio libero da pregiudizi ha permesso in
anni recenti di intravedere dietro la penna censoria dell' Examiner of Plays
anche quella moltitudine di autori, attori e manager che quella penna
continuamente cercava di aggirare, ingannare e quindi vanificare,
nell'intento di poter liberamente “dire” senza “parlare”. Proprio lo spoken
drama, ovverosia tutto il “teatro parlato” (tutte le commedie e le tragedie in
senso classico, per intenderci), era infatti appannaggio di due soli teatri in
tutta Londra, il Covent Garden e il Drury Lane, (e di altri teatri ben definiti
nelle altre città), detti patentees proprio perché godevano di licenza
speciale, lasciando il permesso ai teatri non-patentati di mettere in scena
tutto ciò che parlato non era. Un po' difficile da immaginare, un teatro senza
parole “dette”, eppure attraverso la musica (e quindi, le parole “cantate”), i
1 E.B. Watson, Sheridan to Robertson: a study of the Nineteenth century London Stage,
Cambridge, Harvard University Press, 1926, p. 5.
6
gesti e le espressioni del viso si crea tutto un altro teatro, altri generi, un
altro pubblico, e altri autori.
In realtà queste licenze altro non sono che l' istituzionalizzazione di
una misura provvisoria presa nel 1662 da re Charles II, che intendeva
riaprire i teatri al suo rientro dall'esilio in Francia autorizzando due sole
compagnie (guidate da due drammaturghi da lui nominati) a recitare in
pubblico2 . Non solo, ma due soltanto in seguito furono nella città di
Londra anche i teatri che godevano di tale permesso (il Drury Lane, aperto
nel 1674, e il Covent Garden, inaugurato nel 1732). Crisafulli, nel suo
studio sul teatro romantico, menziona inoltre il Little Theatre in the
Haymarket, che ottenne anch'esso una licenza reale pochi anni dopo, sotto la
guida di Samuel Foote, ma solo per i mesi estivi. E' proprio questo piccolo
teatro che giocherà un ruolo importante nella costruzione di un sistema
compatto e ben definito di censura. Negli anni '30 del Settecento, sul palco
dell' Haymarket andavano in scena infatti le opere satiriche di Henry
Fielding, attivissimo nella denuncia della corruzione del governo di Robert
Walpole, primo ministro inglese per oltre vent'anni, il quale riuscì infine a
far approvare, nel 1737, il Licensing Act, che istituisce la figura dell'
Examiner of Plays (letteralmente, “Esaminatore dei drammi”) a cui
accennavo poc'anzi. Secondo Mullini e Zacchi questo provvedimento
legislativo è la diretta risposta a una sorta di anarchia che governava
l'ambito di produzione drammatica: non solo satire sul palco dell'
Haymarket, quindi, ma anche
“[...] La nascita incontrollata di compagnie e di teatri e un
conseguente acceso stato di competizione, la sfida alle
autorità governative da parte dell'intestatario di una nuova
2 Cf. Lilla Maria Crisafulli, “Il teatro romantico”, in L. M. Crisafulli, K. Elam, Manuale
di storia della letteratura e della cultura inglese, Bologna, Bononia, 2009, pp. 241-274,
in particolare p. 246 e pp.271-274.
7
licenza, l'arditezza di Richard Steele [drammaturgo e
manager teatrale del Drury Lane, NDA] che reclama il
proprio diritto a decidere quali opere mettere in scena […],
un generale movimento di disapprovazione per l'indebolirsi
del controllo governativo […]. Il Licensing Act del 1737 è
il risultato, dunque, di un progressivo deterioramento della
regolamentazione dei teatri”3.
Walpole aveva tentato più volte di mettere un freno alla Liberty of
the Stage reclamata da chi, come Fielding, temeva che “if the sole privilege
of licensing plays should be placed in an officer of the crown, we can
expect nothing but flattery to men in power, and satire upon all who oppose
them”4. Di fatto, il Licensing Act rafforza quel sistema di monopolio
culturale inaugurato dalla decisione di Charles II: ogni sceneggiatura, prima
di essere messa in scena al Drury Lane o al Covent Garden (ma più tardi,
anche in teatri non-patentati entro Westminster come l'Adelphi e l'Olympic)
doveva essere sottoposta al vaglio di un ufficio di censura, cui faceva capo
direttamente il Lord Chamberlain. Il Licensing Act riconferma inoltre la
classificazione degli attori come “vagrants”, vagabondi, e quindi processati
come tali, nel caso in cui recitino senza licenza “for hire, gain or reward” e
prevede una multa di 50 sterline per chiunque mettesse in scena opere senza
previa autorizzazione5.
3 Mullini, Roberta , Zacchi, Romana Introduzione allo studio del teatro inglese, Napoli,
Liguori, 2003, p. 212.
4 The Craftsman, No.570, June 4, 1737 citato da Kenneth D. Wright, “Henry Fielding and
the Theatres Act of 1737”, in Quarterly Journal of Speech, 50:3, 252-258. Sulla
relazione tra le opere teatrali di Henry Fielding e l'emanazione del Licensing Act si è
aperto un lungo dibattito. Si rimanda in particolare al volume di Thomas R. Cleary,
Henry Fielding – political writer, Waterloo, Wilfred Laurier University Press, 1984 (in
particolare capitolo 3 “Pasquin and the Haymarket:1736-1737, pp. 75-116) per un
resoconto completo delle opere teatrali di Fielding messe in scena in quegli anni, i suoi
articoli pubblicati sulle riviste (talvolta sotto pseudonimo), e gli eventi che hanno
portato all'emanazione dell'atto. Qui si dimostra chiaramente come più o meno
direttamente, l'opera dissacratoria di Fielding giocò un ruolo importante, seppure non
esclusivo, nella politica repressiva di Walpole, soprattutto in virtù della sua popolarità.
5 Cf. K. D. Wright, Ibid., pp. 256-257, L. M. Crisafulli, Op.Cit., p. 246, e Jane Moody,
8
Certamente, il Licensing Act voleva agire come freno per opere
satiriche feroci come quelle di Henry Fielding, ma si inseriva soprattutto in
un sistema più ampio di soppressione dei teatri minori: alla base di questo
c'era senza dubbio il timore delle autorità nei confronti delle playhouses
considerate per il loro essere “physical containment or compression of
disruptive social forces”, come riassume David Worrall6, ma anche luoghi di
degrado morale e criminalità7.
Se in un primo momento il Licensing Act raggiunse il suo obiettivo
di soppressione dei teatri minori, in seguito questi ultimi riuscirono ad
aggirare le normative. All'inizio questi espedienti riguardavano la forma di
alcune clausole della legge: per aggirare la recitazione per “hire, gain or
reward” di opere non autorizzate, ad esempio, Henry Giffard, manager del
Goodman's Fields dopo la sua riapertura, fece pagare gli spettatori per
un'esecuzione musicale, offrendo poi commedie (e quindi recitazione)
gratis8. Tuttavia, sarà Samuel Foote il primo vero impresario teatrale a
sfidare il monopolio dei teatri reali, e per due motivi: i suoi spettacoli di
marionette di legno messi in scena al Little Theatre in the Haymarket
forniscono da un lato una denuncia feroce della freddezza e insipidità delle
performance teatrali dei teatri legittimi, e dall'altro sono i primi a fare leva
su una forma di intrattenimento diversa e nuova, tant'è vero che, scrive
Moody, “Foote's appropriation of puppetry as a cultural practice which
cannot be classified as drama marks a turning-point in the delineation of an
Illegitimate Theatre in London, 1770-1840, Cambridge University Press, 2000, pp. 16-
17.
6 David Worrall, Theatric Revolution – Drama, Censorship and Romantic Period
Subcultures 1773-1832, New York: Oxford University Press, 2006, p. 224.
7 Cf. J. Moody, Illegitimate Theatre in London., cit., p. 17. A questo proposito può essere
interessante, a mo' di esempio, il dibattito sull'apertura del teatro Goodman's Fields in
Ayliffe Street, “an evil of so dangerous a consequence”, del quale le autorità locali
chiedono la soppressione [Cf. P.J. Crean, “The Stage Licensing Act of 1737”, in Modern
Philology, Vo. 35, No. 3 (Feb., 1938), pp. 239-255].
8 Cf. J.Moody, Illegitimate Theatre in London, cit., p 17.