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INTRODUZIONE
Il 1° gennaio 2009 la Russia ha chiuso i rubinetti dei gasdotti verso l’Ucraina.
Pochi giorni più tardi il ministro Scajola ha firmato un decreto per massimizzare
le importazioni di gas da Algeria, Libia e Paesi Bassi ed ha insediato un Comitato
di Emergenza e monitoraggio del sistema del gas con tutti gli operatori del
settore. Negli stessi giorni Davide Tabarelli, presidente di Nomisma Energia, ha
avvertito: «Se la situazione non si sblocca in una settimana si dovrà interrompere
la fornitura alle centrali elettriche, obbligandole ad usare altri combustibili»,
questo perché le nostre scorte di gas ci potevano garantire autonomia per una
decina di giorni (Franceschi, 2009).
Perché l’Italia avrebbe dovuto risentire della disputa circa un contratto di
fornitura energetica tra Ucraina e Russia? E perché l’Unione Europea ha svolto,
all’interno di questa piccola “guerra fredda” tra un’Ucraina insolvente e dalle
posizioni filo-atlantiche ed una Russia in posizione privilegiata in partenza, il
ruolo della mediazione? Le risposte risiedono nelle strettissime relazioni
economiche che intercorrono tra la Federazione Russa e l’Unione Europea, le
quali si sono legate nel corso del tempo tramite rapporti commerciali sempre più
stringenti, all’interno dei quali l’aspetto energetico svolge un ruolo cardine.
Il complesso legame tra Russia ed Unione Europea si è sviluppato soprattutto
a partire dagli anni Novanta, intrecciandosi con le dinamiche di trasformazione
economica e politica dell’ex Unione Sovietica e generando nuovi scenari
geopolitici. Dal 1991 l’Unione Europea è velocemente divenuta la prima fonte di
aiuti economici e di supporti tecnici durante il periodo della transizione
economica della Russia, oltre che di alcuni paesi dell’ex URSS. In realtà
l’Unione Europea ha sempre privilegiato la partnership con la Russia piuttosto
che quella con altri paesi della Comunità degli Stati Indipendenti. Questo è
avvenuto sia attraverso i vari strumenti di cooperazione messi in atto nel corso
degli anni, sia intensificando gli scambi commerciali con la Federazione, a tal
punto che si sono create delle situazioni di quasi dipendenza per quanto riguarda
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l’oro russo, ovvero il gas, bene di cui la Russia detiene le maggiori riserve al
mondo.
L’analisi di tale dipendenza è fondamentale per comprendere lo stato attuale
delle relazioni politiche tra i due soggetti. Esse seguono una traiettoria composta
di avvicinamenti alternati a repentine battute d’arresto. La Russia infatti, dopo
aver taciuto sull’ingresso dei numerosi suoi paesi ex satelliti nell’Unione
Europea, ha però ancora intenzione di far sentire la sua influenza in politica
estera, avvalendosi di un’arma molto potente: Gazprom. Questa società,
formalmente privatizzata ma ampiamente controllata dal governo (si pensi che è
attualmente presieduta da Alexander Medvedev, fratello del Presidente della
Federazione) è il soggetto che detiene il monopolio legale delle esportazioni di
gas della Federazione Russa ed è stata spesso usata dal Cremlino per i propri fini
politici (si pensi al braccio di ferro con l’Ucraina del gennaio 2009) ed è facile
ipotizzare che lo sarà anche in futuro.
Questo lavoro vuole analizzare la situazione delineata e mostrare come il
comportamento dell’Unione Europea sia quantomeno “miope”, risultando spesso
presa in ostaggio dalle mosse di Mosca soprattutto sul piano energetico.
Nel primo capitolo si vuole guardare alla transizione russa come a una
trasformazione binaria, ovvero su due fronti, osservando da un lato
l’affermazione delle principali e dovute riforme per andare verso un’economia di
mercato ed analizzando, dall’altro, la nuova struttura industriale della Russia ed il
suo graduale inserimento nell’economia mondiale globalizzata. Il contesto
dell’economia in transizione è di fondamentale rilievo per conoscere i
cambiamenti strutturali dell’economia russa, la quale ha attuato una svolta verso
il settore dei servizi, in parte svincolandosi dalla tradizionale industria pesante e
dall’agricoltura, per indirizzandosi verso una “terziarizzazione” della propria
economia.
L’analisi degli scambi commerciali della Russia, svolta nel secondo capitolo, è
funzionale a mettere in risalto sia il “cambiamento di partner”, intendendo con
ciò un sempre maggior risalto dell’Unione Europea a discapito dei paesi CSI
(Comunità Stati Indipedendenti), sia l’oggetto di questi scambi commerciali,
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evidenziando alcuni grandi vantaggi comparati relativi in un settore rispetto ad
un altro. Il perno principale su cui l’industria ha riorganizzato le proprie
esportazioni è stato quello estrattivo e minerario, settore dove la Federazione
vanta un notevole vantaggio comparato e da cui ottiene enormi rendite. Forti
legami, analogamente, si riscontrano sia nel campo dei flussi di capitale
(compresi gli investimenti diretti esteri), sia in quello dei servizi, di cui la
Federazione è una grande importatrice.
Nel terzo capitolo si analizza il contesto di alcuni accordi tra Commissione
Europea e Federazione Russa, come il Partnership Agreement che risulta essere
oggi molto debole e scarsamente funzionale, anche se alcuni sostengono che le
cose possano migliorare notevolmente da un prossimo accesso della Russia nel
WTO, qualora le contrattazioni con i paesi interessati vadano a buon fine. In
generale i temi più delicati riguardano aspetti strategici dell’economia della
Russia e dunque, su alcuni di questi, la Federazione non è interessata a fare
concessioni.
Il quarto capitolo approfondisce infine il tema energetico ed in particolare
quello del gas naturale. Il mercato interno della Russia è molto particolare e sarà
analizzato nel dettaglio. Nello specifico si mostrerà qual è il peso specifico dell’
“Impresa Stato” Gazprom, che ha avuto concessioni di ogni genere da Mosca e di
cui è braccio armato in politica estera, come testimonia la crisi russo ucraina del
gennaio del 2009.
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CAPITOLO 1
RUSSIA: UNA TRANSIZIONE BINARIA
§1.1 Le tappe del processo riformatore
Nel 1991, immediatamente dopo la dissoluzione dell’URSS, le autorità russe
prendono decisioni precise e mettono a punto misure idonee, o presunte tali, a
trasformare l’economia e la società. Passano pochi mesi, nemmeno il tempo di
chiudere il dibattito tra economisti e politici circa quale strada intraprendere, se
una metodologia gradualistica di riforma oppure una vera e propria terapia
d’urto, e l’economia russa è già in grave crisi: il PIL si contrae, i prezzi crescono
senza sosta, le scorte nazionali di frumento scarseggiano ed il disavanzo di
bilancio aumenta. La transizione inizia nel 1992 con un particolare mix di misure
graduali e d’urto. I tre pilastri della transizione sono la liberalizzazione, la
stabilizzazione e la privatizzazione (Popov, 2006). La prima fase di questo
processo è la liberalizzazione dei prezzi, intesa anche come liberalizzazione degli
scambi commerciali e via libera all’imprenditorialità. La stabilizzazione è stata
una questione importante dal punto di vista macroeconomico, in quanto la
prevenzione dell’inflazione ed il contenimento del disavanzo pubblico sono
ritenute precondizioni per una crescita futura. La privatizzazione invece è solo
l’aspetto più evidente di una trasformazione generica. Le riforme prendono il via
in questo contesto, alternando varie stagioni e basandosi anche su problemi
concreti da risolvere per evitare la catastrofe economica.
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1. La terapia d’urto (shock therapy)
Il 2 gennaio 1992 vengono liberalizzati i prezzi, ad eccezione di quelli dei
prodotti energetici, dei trasporti e di alcuni prodotti alimentari. Come
conseguenza, i prezzi al consumo crescono di circa otto volte in sei mesi. Il
mercato nasce in un contesto di grande crisi: sugli scaffali ricompaiono le
merci più disparate ma le famiglie russe sono costrette ad azzerare i loro
risparmi ed il rublo perde valore. Il nuovo budget di bilancio statale richiede
una riduzione dei sussidi, degli investimenti e delle spese militari e
l’introduzione, seppur tra mille difficoltà, di un’imposta sul valore aggiunto
e sulle esportazioni. Dal punto di vista monetario, già a fine 1991, il rublo
viene fortemente svalutato ed a giugno 1992 diventa convertibile
internamente ed agganciato al dollaro. Dal novembre del 1991 le
importazioni sono libere dai dazi, ma il commercio con le ex Repubbliche
Sovietiche si blocca a causa sia dell’incertezza circa i nuovi accordi sul
commercio, sia delle tendenze autarchiche di questi paesi. I prezzi dei
carburanti e dell’energia, controllati ancora direttamente dallo Stato,
vengono regolati in via indiretta attraverso tasse sull’esportazione; tanto da
iniziare ad influire sul prezzo medio mondiale. La tassazione sulle
esportazioni di risorse energetiche viene abbassata gradualmente fino ad
essere abolita totalmente nel 1996, dal momento che i prezzi di gas e
carburanti aumentarono del 75% nel 1995 (Ǻslund, 1995). Le imprese
domandano sempre più credito e sono in ritardo con i loro pagamenti. Alla
fine del 1992 la Banca Centrale allenta la restrittiva politica monetaria ed
inizia a controllare in maniera diretta l’offerta di moneta, mentre
l’inflazione mensile sale al 25% (l’iperinflazione sarà scongiurata solo a
fine 1995 dopo una nuova incalzante politica monetaria restrittiva, come è
ben visibile dal grafico seguente).
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Grafico 1: Tasso d’inflazione (%) su base annua nella F. Russa,
1990 - 2006
Rielaborazione su dati di fonte World Bank
Per quanto riguarda i commerci, dato lo scarso successo nel mercato
interno, le imprese cominciano a guardare ai mercati esteri e a mettere a
nudo le loro difficoltà e la loro scarsissima competitività nel commercio di
merci, al contrario dei prodotti combustibili ed energetici per cui la Russia
ha sempre avuto un vantaggio naturale.
La liberalizzazione immediata dei prezzi ha avuto notevoli conseguenze
negative, come ad esempio la forte contrazione della domanda domestica
(causata dall’inflazione) che ha a sua volta comportato una notevole
riduzione della produzione industriale ed agricola. Di conseguenza, la
disoccupazione è in forte crescita dal 1992 in poi.
0,00
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Tasso d'inflazione su base annua (%)
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I “gradualisti” insistevano per una slow transition sulla falsariga
dell’esperienza cinese e di quella ungherese. L’Ungheria infatti, negli anni
Ottanta, riuscì ad evitare la recessione tramite una deregulation graduale
dei prezzi e dei tassi d’interesse (Popov, 2000). Quasi tutte le economie in
transizione hanno sperimentato una certa recessione durante il periodo delle
riforme di mercato, mentre quelle cinesi vengono considerate dagli
economisti un esempio classico di gradualismo.
2. La privatizzazione di massa
Tra la fine del 1992 ed il 1994 si alternano politiche monetarie e di bilancio
piuttosto incostanti, l’inflazione si mantiene a livelli elevati e avvengono
privatizzazioni diffuse. Dopo il terremoto politico del 1993, che porta a
nuove istituzioni e ad una nuova Costituzione, la Banca Centrale acquista
maggiore indipendenza e può portare avanti politiche meno discontinue:
l’inflazione torna al di sotto del livello mensile del 10%. (Benaroya, 2006).
Le privatizzazioni, compiute sotto il controllo di un apposito gruppo
costituito dal governo, riguardano ben 240 mila aziende sotto il controllo
dello Stato e dei comuni. I problemi alla base della redazione del piano di
privatizzazione riguardano soprattutto il fatto che, non avvenendo nel
contesto di una economia di mercato, non è determinabile il valore delle
imprese e di conseguenza il prezzo delle loro quote. Per di più, nessuno o
quasi dispone del potere d’acquisto necessario ad acquistarle.
In un’economia in transizione le privatizzazioni non producono
necessariamente imprese stabili e salde ma dovrebbero creare almeno le
condizioni per arrivare a tanto, costruendone anche i presupposti legali.
In attuazione del programma di privatizzazione guidato da Gaidar, le
imprese vengono divise in tre macro categorie: le grandi, le piccole e tutte
le restanti imprese (Radygin, 1995). Le piccole imprese (comprendenti al
massimo 200 lavoratori) sono per la maggior parte dei casi cedute e vendute
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ai propri dipendenti. Si trattava per lo più di piccoli negozi, ristoranti, hotel
e servizi. Le medie e grandi imprese, intese come quelle che impiegano in
media mille lavoratori, sono circa 15 mila e sono più difficili da
“riconvertire”. L’idea consiste nel trasformare queste entità in società per
azioni, ma nel 1992 più della metà della popolazione russa si dichiara ostile
alla privatizzazione e soprattutto alla cessione delle imprese a capitali
stranieri.
Il sistema adottato in questi due anni è stato, principalmente per le piccole e
medie imprese, con l’introduzione di voucher-diritti d’acquisto delle
imprese a singoli cittadini e trattamenti privilegiati per gli interni, questi
hanno potuto acquistare fino al 51% delle azioni delle loro aziende a prezzi
stracciati. Ciò ha però favorito la conservazione delle direzioni aziendali del
periodo sovietico e dunque uno scarso ricambio dirigenziale, nonché la
mancata ristrutturazione manageriale e legislativa necessaria. La
privatizzazione in essere è stata anche definita politicizzata poiché, usando
compromessi sociali ed economici, altro non fa che incentivare i nuovi-
vecchi amministratori a mettere le mani su quanto più possibile, il prima
possibile, senza impegnarsi a creare una nuova governance funzionale alla
crescita dell’azienda. Inoltre le imprese continuavano a chiedere crediti per
poter pagare le loro insolvenze nei confronti dei fornitori e la Banca
Centrale ha ben assecondato queste richieste, tanto che più della metà della
quantità di moneta emessa nel 1992 ha costituito credito all’impresa.
Uomini vicini al potere, in pochi mesi sono diventati degli oligarchi, in un
paese in pieno disavanzo pubblico e che stentava a pagare le misere
pensioni. La stessa ben nota Gazprom fu ceduta per il 35%, mediante aste
chiuse, a noti dirigenti dell’epoca. Ovviamente i vouchers o coupon persero
gran parte del loro valore causa dell’inflazione ed addirittura metà di essi, in
pochi mesi, falliscono del tutto. Anche se questi erano serviti a generare una
certa domanda di azioni, non si è però “educato” al possesso di quote
azionarie per poi generarne un possesso diffuso tra i cittadini: è questa la
logica sottesa al sistema dei voucher che ha avuto effetti molto diversi dai
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previsti intenti, tanto da generare la nuova classe sociale degli oligarchi
(Stiglitz, 2002).
Dal 1994 in poi gli oligarchi invischiati nei neonati gruppi bancari ed istituti
di credito continuano a fare la propria fortuna, appropriandosi di azioni di
grandi imprese cedute dal governo come garanzia reale dei prestiti che stava
loro chiedendo (piuttosto che alla Banca Centrale). Entro due anni lo stato
avrebbe potuto riprendere le azioni rimborsando i compratori, ma non fu
così. Le azioni furono cedute tramite aste nell’autunno del 1995, che
esclusero partecipanti stranieri e furono controllate per l’appunto dal
cartello degli oligarchi. Questa politica è chiamata loans for shares.
L’ultima fase dell’arricchimento degli oligarchi, i quali controllano il 50%
della ricchezza del paese e continuano a dare tacito ed incondizionato
appoggio al governo di Boris Eltsin, si conclude nel luglio del 1997 quando
la più grande compagnia telefonica russa viene consegnata nelle mani di un
consorzio straniero, escludendo gli uomini d’affari russi da un profitto di
ben 1,9 miliardi di dollari (Stiglitz, 2002). Per fornire alcuni dati, alla fine
del 1994 circa il 60% delle imprese era privatizzato, il 62% dei capitali di
queste imprese erano posseduti da interni, addetti ai lavori o simili, mentre
gli esterni possedevano solo 21% dei capitali e lo stato ne controllava il
17%. Ad agosto 1994 ben 106mila imprese erano state ormai privatizzate,
di cui 13832 attraverso il sistema dei voucher. Nove decimi degli impiegati
nell’industria erano a questo punto impiegati nel settore privato (Ǻslund,
1995).
3. Una breve stabilizzazione tra il 1995 e il 1998
A metà 1995 la Banca Centrale di Russia introduce un regime di cambi
flessibili, ma all’interno di un corridoio dal tetto piuttosto basso. Questo
serve a stabilizzare la moneta: si fissa il tasso di cambio al dollaro
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utilizzandola come un’ancora nominale, mettendo così in atto una politica
monetaria molto prudente. L’inflazione inizia a rallentare nell’agosto del
1995, la Banca Centrale chiude i crediti al governo e restringe anche i
crediti al settore privato. In effetti per ben tre anni si riesce a contenere il
deficit di bilancio nonostante le entrate siano molto basse a causa delle
difficoltà nella riscossione delle nuove tasse. Nel frattempo le principali
banche occidentali stanno preparando anche un piano assistenziale per la
Russia: nel 1997 la Banca Mondiale aveva pronto un intervento pari a 2 o 3
miliardi di dollari l’anno per interventi nel Paese. La strategia è di
finanziare il debito principalmente attraverso obbligazioni a breve termine,
ovvero buoni del tesoro (GKO) emessi dal governo centrale russo e tramite
prestiti da parte delle principali organizzazioni internazionali, governi e
Banche Centrali dei Paesi Occidentali. Il mercato dei buoni del tesoro viene
aperto anche a compratori esteri dopo alcune pressioni del Fondo Monetario
Internazionale e di conseguenza la dinamica del debito russo è anche in
balìa della congiuntura internazionale. Alla fine del 1997 il 30% dei GKO
erano posseduti da stranieri. Il disavanzo pubblico non si riduce e gli
squilibri finanziari sono consistenti: nel 1997 la crisi asiatica influenza le
borse mondiali mentre tra il 1997 ed il 1998 si ha un calo delle esportazioni
che, come è possibile anche vedere dal grafico, riprenderanno volume solo
dopo il 1998, grazie alla svalutazione del rublo.
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Grafico 2: Commercio di merci (in milioni di dollari) della F. Russa,
1992 – 2001
Rielaborazione su dati di fonte UNCTAD
La bilancia commerciale della neonata Federazione Russa è sempre stata
positiva grazie alle sue consistenti esportazioni soprattutto di materie prime
e carburanti, ma raggiunge saldi consistenti effettivamente dopo il 1998,
con un picco nel 2000. Nonostante sia stato almeno evitato il flop nelle
esportazioni, il programma di privatizzazione non era mirato alla crescita e
neanche ne ha creato le condizioni favorevoli. Per dirla con Stiglitz (2002),
ha creato in realtà le condizioni più adatte al declino. L’insoddisfazione
generale comune a molti cittadini russi, denota che la distribuzione di
proprietà e ricchezza non è avvenuta in maniera diffusa e la disoccupazione
nel 1995, dopo una prima fase di transizione, era ancora al 9,45% secondo i
dati dell’ente Federale di Statistica russo (Goskomostat). I fondamenti di
questa stabilizzazione monetaria sono piuttosto deboli, basandosi sulla
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20000
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120000
1992 1993 1994 1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001
Saldo commerciale Importazioni Esportazioni
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sopravvalutazione del tasso di cambio del rublo. Ciononostante, in questo
triennio, il governo è riuscito a mantenere le promesse dichiarate nei
programmi di riforma: contenimento del deficit di bilancio, ovviamente
tagliando di molto la spesa pubblica ed il finanziamento del deficit
principalmente attraverso i buoni del tesoro che funzionarono molto bene
finché erano emessi in modalità breve termine. Gli investitori russi, data la
forte incertezza del mercato, preferivano infatti sicurezze a breve termine. Il
rischio era basso anche grazie alla scarsa fluttuazione del tasso di cambio
del rublo all’interno del corridoio monetario introdotto a metà 1995.
Grafico 3: Tasso di cambio Rublo / Dollaro, 1993 - 1998
Rielaborazione su dati di fonte Central Bank of Russia
La stabilità della moneta è ottenuta artificialmente: il corridoio monetario
nasce dall’intento di controllare l’offerta di moneta e di ridurre l’inflazione.
Inoltre, durante quasi tutto il periodo della transizione viene utilizzato il
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1000
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3000
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gen-93 nov-93 set-94 lug-95 mag-96 mar-97 gen-98
Tasso di cambio rublo / dollaro