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INTRODUZIONE
<< Il bambino il cui sviluppo è già aggravato da un deficit, non è
semplicemente un bambino meno sviluppato dei suoi coetanei
normali, ma un bambino che si è sviluppato in modo
diverso>>……<<una pedagogia che legge e descrive gli organi
solo in senso anatomico, incapace di riconoscerli come
importanti organi sociali,rischia di vedere nella persona solo il
deficit, solo l’aspetto patologico e non anche l’enorme riserva di
salute>>(Lev Semenovic Vygotskij)
1
Questa tesi non vuole essere altro che un viaggio antropologico
nella storia e nella pedagogia del mondo dei sordi, un mondo
dove a prevalere è il silenzio.
Essa affronta gli aspetti psicologici e didattici delle persone
affette da handicap uditivo ed è rivolta a tutti coloro che, per caso
o per semplice curiosità, si sono accostati o avranno il piacere di
accostarsi in futuro al mondo dei sordi, restando fin dall’inizio
affascinati dalla molteplicità delle esperienze comunicative e
dalla ricchezza degli incontri umani possibili.
1
Vygotskij L. S., Pensiero e linguaggio,Firenze, Giunti, 1976, pp. 16-17
4
La tesi è divisa in quattro parti: nella prima parte viene affrontata
la condizione delle persone sorde, cosa significhi realmente avere
un handicap uditivo in una società verbale come la nostra e come
questa forma di disabilità è stata concepita dall’antichità sino ai
tempi nostri, esamina quindi le implicazioni cliniche e socio
psicologiche della sordità, sottolineando i fattori che possono
aggravare o ridurre l’handicap; nella seconda parte viene invece
affrontato il cuore del mondo dei sordi: la LIS (Lingua dei Segni
Italiana) come espressione della loro naturalezza, come didattica
da usare nella scuola per tutti e quindi come mezzo
d’integrazione per abbattere quelle barriere comunicative che non
permettono l’incontro e lo scambio tra due mondi: quello degli
udenti e quello dei non udenti, mediato da quel ponte
comunicativo, qual è: l’educatore/assistente alla comunicazione;
nella terza parte si è esaminato a fondo il rapporto che intercorre
tra handicap, sordità e tecnologie, come quest’ultime siano
rilevanti per il bambino audioleso e come siano molto usate nella
didattica e nella vita quotidiana, tanto da rendere a volte
inesistente un handicap che d'altronde risulta ad una lettura
superficiale, invisibile agli occhi di tutti; nell’ultima parte,
invece, è stata fatta un’analisi dettagliata sulle strutture, attività e
5
progetti educativi presenti nell’Istituto Suore Salesiane dei Sacri
Cuori, avente come caratteristica principale, la possibilità di far
interagire udenti e non insieme, in quanto presenta al suo interno
una sezione speciale per i non udenti.
Per cui, non bisogna dare nulla per scontato, bisogna affrontare il
tutto come una scoperta, mentre per gli educatori come una
scommessa pedagogica, perché insegnare a tutti, ma soprattutto
ai sordi, significa entrare in una dimensione in continuo divenire,
dove tutte le certezze educative e didattiche possono e devono
essere messe in discussione in ogni fase, e non solo dinanzi ad un
insuccesso.
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CAPITOLO PRIMO
IL SORDOMUTISMO COME PROBLEMA
ANTICO
1. La condizione dei sordi
Per handicap s’intende una condizione che mette un soggetto in
una posizione sfavorevole rispetto ad altri, in conseguenza ad una
menomazione o disabilità definita deficit.
E’ il deficit che limita il ruolo normale di quel soggetto. E’
opportuno approfondire da subito la differenza tra deficit ed
handicap: “ sono due facce della stessa realtà. Il primo rimanda
all’aspetto fisico, il secondo all’aspetto sociale ”
2
. Nel nostro
caso il deficit è l’udito, mentre l’handicap è l’insieme delle
difficoltà che la persona sorda incontra nell’interagire con la
società. Quindi una persona con deficit grave, a causa di fattori
individuali e sociali, può avere un handicap inferiore a quello di
altri con deficit più lievi.
2
PIGLIACAMPO R. (1982), Indagine medico-socio-culturale su soggetti affetti da sordomutismo, U.S.L. 14, Recanati,
p. 20.
7
Se tutti conoscessimo il linguaggio dei segni (la lingua visivo-
gestuale usata dalle persone sorde) l’handicap sarebbe quasi
nullo per i sordi. Dalla disabilità uditiva non deriverebbe alcun
handicap se la nostra non fosse una società verbale, in cui, cioè,
la
rete di relazioni poggia su un’impalcatura di parole e la
comprensione dei fenomeni è resa possibile solo dalla
padronanza di questo codice linguistico
3
. La nostra però è una
società verbale e chi non padroneggia il codice linguistico vocale
è impossibilitato ad assumere ruoli di rilievo e si ritrova
emarginato in qualsivoglia situazione sociale.
La rinnovata attenzione che si è sviluppata a livello socio
culturale sul mondo dei sordi ha dato vita ad un dibattito sulla
terminologia adottata per descrivere la condizione di sordità.
In questi ultimi anni, infatti, la popolazione sorda è uscita dal
limbo nel quale era stata relegata da secoli di indifferenza e si è
trovata al centro di una notorietà imprevista . Una serie di
circostanze favorevoli, hanno determinato una vasta
informazione sul mondo dei sordi, contribuendo così ad
3
IBIDEM, p. 20-21
8
affermare un approccio culturale in un settore tradizionalmente
dominato dall’ottica medica.
Nella nuova prospettiva socioculturale i sordi, non sono più
soltanto disabili, si sono ritrovati ad essere riconosciuti come
membri di una minoranza che cerca non di mimetizzarsi, ma di
rendere evidente la propria diversità. Infatti, mentre gran parte
della popolazione sorda italiana, divenuta consapevole della
propria identità, si batteva per vedere riconosciuti i propri diritti
anche nel nostro Paese, molti udenti, affascinati soprattutto dalla
lingua dei segni, passavano dalla curiosità all’interesse per questa
minoranza linguistica e muovevano i primi passi verso la
tolleranza. A quest’ultimi spettava, innanzitutto, il compito più
difficile quello di cominciare a rimuovere le barriere di
comunicazione che, aggravando l’handicap impediscono la
valorizzazione delle risorse delle persone sorde. In concreto,
però, l’unico atteggiamento che si è visibilmente modificato,
senza incontrare resistenze, sembra essere quello linguistico.
Basta, infatti, scorrere i titoli dei saggi in materia di sordità
pubblicati nell’ultimo decennio per farsi un’idea della varietà
delle terminologie adottate per indicare i sordi e i loro deficit: i
termini sordi e sordità, ritenuti troppo crudi, sono stati, e sono
tuttora, oggetto di numerose correzioni. Per una sorta di
9
malintesa delicatezza si sono cercate le parole per dirlo e la
sordità è diventata minorazione uditiva, audio lesione, anacusia,
otologopatia, mentre il sordo è stato definito, di volta in volta,
minorato dell’udito, non udente, otologopatico, anacusico,
portatore di deficit uditivo
4
.
Il termine sordomuto, invece, ancora molto diffuso, merita di
essere menzionato a parte, non potendo essere considerato un
sinonimo di sordo. Questa denominazione, pur non essendo di
per sé imprecisa, può risultare fuorviante per chi non possiede
competenze specifiche. Essa suggerisce, infatti, un impedimento
della parola, un mancato o difettoso funzionamento dell’apparato
vocale dei sordi che è, invece, integro, pur non essendo
programmato a funzionare. In realtà, il soggetto sordo, può
imparare a programmare l’emissione della propria voce.
Secondo l’approccio clinico-riabilitativo, quindi, il sordo non
rieducato al linguaggio verbo-vocale è muto, ma in una
prospettiva socioculturale ogni muto diventa parlante non solo
se conquista la parola parlata, ma quando si impadronisce degli
strumenti per veicolare fuori di sé il messaggio, qualunque sia la
modalità di linguaggio adottata
5
. E’ dunque la facoltà di
linguaggio, e non la sua modalità, quella che consente alle
4
FAVIA M. L., MARAGNA S. (1995), Una scuola oltre le parole, Firenze, la Nuova Italia, pp. 32-33
5
IVI, p.33
10
persone sorde di costruire la comunicazione e di uscire dal
mutismo. Proprio da queste considerazioni si deduce che il
termine sordomuto, legato ad una visione clinica della sordità ,
non descrive la condizione delle persone sorde.
Sebbene tutte le parole per definire tali persone sono
sostanzialmente equivalenti, viene spesso adottato il termine
sordo o il suo sinonimo audioleso. Questa scelta deriva, in primo
luogo, dalla constatazione che i sordi, in molti testi in cui sono
autori, definiscono se stessi semplicemente sordi.
In secondo luogo, l’uso di tale terminologia può contribuire ad
attivare nei genitori dei bambini/ragazzi sordi meccanismi di
difesa contro l’angoscia che provano quando riconoscono come
irreversibile la minorazione dei loro figli, ostacolando un
processo che dovrebbe portare alla piena accettazione, sia
razionale che emotiva del bambino.
Poco importa, però, se vittima dei pregiudizi o dell’isolamento
sociale è un sordo, un non udente o un portatore di deficit
uditivo: fino a che la cultura dominante non diventerà capace di
tolleranza, egli resterà un handicappato
6
. Ma, bisogna ricordare
che non si nasce, infatti, handicappati: l’handicap è il risvolto
sociale della minorazione.
6
LASCIOLI A.(2001), Handicap e pregiudizio, Milano, F. Angeli, pp.13-14
11
La gravità dell’handicap, dipende nel nostro caso, dal valore che
la cultura dominante attribuisce all’abilità carente. Nel caso della
sordità, la disabilità direttamente conseguente al deficit è
l’impossibilità di percepire e decodificare i suoni ambientali e, in
particolare, quelli emessi dalla voce allo scopo di comunicare.
Per udire normalmente l’intero apparato uditivo deve essere
integro.
La sordità è quindi una patologia sensoriale che determina la
perdita totale o parziale dell’udito e quindi della capacità di
ascolto.
I sordi sono persone neurologicamente normali, che in seguito ad
una ferita all’orecchio sono escluse dal contatto uditivo con il
mondo, soprattutto con la realtà sonora del linguaggio, esclusione
che può avere conseguenze sullo sviluppo della mente
linguistica
7
.
Va subito sottolineato che in questa definizione rientra un gran
numero di soggetti, i quali hanno però in comune esclusivamente
la caratteristica di non udire e che non possono, quindi, essere
considerati un gruppo omogeneo. Essi, infatti, si differenziano
sensibilmente l’uno dall’altro, allo stesso modo degli udenti, che,
pur avendo tutti l’udito integro, rivendicano ciascuno una propria
7
IVI, p.15
12
unicità. Dei sordi, invece, si è parlato e si parla ancora come di
una categoria di persone che, per effetto del deficit uditivo,
agiscono, pensano e si comportano in un unico modo
caratteristico ed evidenziano tratti della personalità tipici.
Nel caso dei sordi, oltre a fattori genetici, socio affettivi e
culturali, che già in condizioni normali differenziano una persona
dalle altre, intervengono altre variabili direttamente legate alle
minorazione, che rendono ogni individuo diverso dall’altro,
diversificando anche le sue necessità: l’eziopatogenesi della
sordità, la sua gravità, la sua epoca d’insorgenza, la tempestività
della diagnosi e dell’intervento riabilitativo, il metodo di
rieducazione. Si può facilmente intuire, infatti, che la vita di
relazione e lo sviluppo del linguaggio in una persona, diventata
sorda dopo l’età di apprendimento del linguaggio, seguono
percorsi diversi rispetto a quelli di una che non abbia mai
sperimentato la dimensione sonora del suo ambiente.
Conoscere le cause della sordità è importante non solo per gli
operatori, i quali acquisiscono un quadro più completo del
soggetto sordo e dei suoi bisogni, ma anche per i genitori, che
spesso quando la minorazione del figlio è di origine sconosciuta,
tendono a colpevolizzare se stessi o il proprio partner
8
.
8
PAOLI V. (1995), Oltre l’ostacolo, Firenze, CRO, pp. 33-34