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INTRODUZIONE
Le organizzazioni, soprattutto quelle con uno scopo economico,
cercano continuamente la nuova moda che risolva tutti i suoi mali,
principalmente i fallimenti lasciati da quella passata. Cultura, conoscenza e
etnografia sono da parecchi anni tra questi elementi magici. Tuttavia, nella
fretta per trovare un modello vincente, spesso questi strumenti analitici non
sono riusciti ad esprimere tutto le loro potenzialità.
L’intento di questo lavoro è capire come l’utilizzo dell’etnografia possa
coniugarsi a una prospettiva attenta alle pratiche lavorative che vada oltre una
visione formale-razionale. Seguendo la lezione fenomenologica, si tratta di
osservare i soggetti come produttori di senso e narrative che costruiscono la
loro interpretazione sulla realtà. Così, si possono cogliere le organizzazioni
come fenomeni culturali, facendo attenzione al dramma umano presente.
Poiché nelle organizzazioni contemporanee la conoscenza è divenuta il
prodotto principale, diversi metodi e scuole hanno cercato di afferrare i
processi in cui il sapere è creato, condiviso e insegnato. In questo universo la
prospettiva della conoscenza in pratica porta un contributo originale, poiché si
discosta dalle solite visioni individualistiche e positivistiche. Questo paradigma
vede l’agire dei soggetti in connessione a un sapere locale, a un copione che
fornisce le basi per le pratiche sociali. Conoscenza e cultura possono, dunque
essere considerate insieme, stabilendo le condizioni per un’analisi etnografica
che metta a fuoco come gli attori realizzano il lavoro.
La tesi si struttura in tre capitoli. Nel primo si esaminano l’origine e la
natura del metodo etnografico e si opera uno slittamento dall’idea di cultura
organizzativa verso una visione delle organizzazioni come cultura. Per questo
si analizza il fare etnografico secondo una revisione dei suoi presupposti e di
come è stato messo in atto in alcuni lavori. Ovvero, si indagano le condizioni
in cui l’etnografia si è avvicinata al mondo organizzativo. Successivamente, nel
secondo capitolo, si realizza una breve rassegna del quadro sociale ed
economico del capitalismo contemporaneo e la centralità che la conoscenza
ha assunto. Seguendo questo panorama si cerca di capire come le condizioni e
le strutture lavorative siano cambiati e come le organizzazioni tendono a
strutturarsi per rispondere a questi mutamenti.
Alla fine, nel terzo capitolo, si discutono gli studi orientati alla pratica e
come questi abbiano portato a una visione della conoscenza come azione che
si realizza in un determinato contesto sociale. Successivamente si riporta il
lavoro di Julian Orr come esemplificativo di un’analisi che tratta le dinamiche
della conoscenza all’interno di un gruppo di lavoratori secondo una
prospettiva etnografica. L’opera di questo studioso è utilizzata per tracciare
una possibile strada per gli studi etnografici delle organizzazioni che intendano
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fornire strumenti pratici per intervenirne di forma più consapevole e vicina ai
lavoratori.
L’obiettivo dello studio è presentare una narrazione di come l’etnografia
sia diventata famosa nel mondo organizzativo – sia come strumento analitico
che applicato – e quali possibilità ha da offrire, senza incorrere in
apprezzamenti sfrenati o in critiche puriste.
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Capitolo 1
UNA SCENEGGIATURA PER L’ETNOGRAFIA DELLE
ORGANIZZAZIONI
In questo capitolo, si indaga la storia e il carattere del metodo
etnografico, tracciando un’analisi della sua applicazione nei contesti
organizzativi. Successivamente, si revisiona il concetto di cultura
organizzativa, cercando di cogliere in pieno la sua capacità analitica in
consonanza con una visione dinamica delle organizzazioni.
1.1 Origine e sviluppi dell’etnografia
L’etnografia può essere definita allo stesso tempo come un metodo di
ricerca qualitativa (una persona conduce una etnografia) e il risultato di questo
processo, originalmente adottata negli studi antropologici, nel corso della sua
storia si è diffusa tra altre discipline. Ha le sue origini nell’incontro degli
europei con le popolazioni non occidentali e nel tentativo di creare una
cornice che rendesse il “Nuovo Mondo” intelligibile. I primi racconti e diari di
viaggio fatte da esploratori descrivevono la stranezza dei comportamenti e
costumi dei nativi, classificandoli secondo la famosa dicotomia buon
selvaggio/cattivo civilizzato o vice e versa (Laplantine, 1996).
La modernità ha portato un’idea universale di uomo in cui le differenze
cominciarono ad essere viste come variazioni di una natura comune. 1 Inoltre,
lo sviluppo della scienza ha portato una nuova visione che collocava l’uomo
non soltanto come soggetto, ma anche oggetto di studio, creando una nuova
forma di porre questione su noi stessi: le spiegazioni mitologiche, filosofiche
ed artistiche abbandonano il terreno in favore di una scientifica (Laplantine,
1996).2
Questo cambiamento, insieme alla conquista coloniale, ha portato
l’interesse di alcuni “antropologi da tavolino” ad analizzare informazioni e
materiale colettato da altri nelle colonie per delineare una teoria
evoluzionistica sull’umanità. I nativi sono stati considerati come l’origine
dell’uomo civilizzato, uomini primitivi che hanno perso la (giusta) strada dello
sviluppo. Nonostante queste scuola sia considerata la pecora nera
dell’antropologica, dato il suo carattere etnocentrico, è necessario riconoscere
la sua innovazione. Per la prima volta c’è stato un interesse epistemologico
1 Per una discussione della relazione tra il concetto di cultura e uomo, rimando a Geertz (2000).
22 Foucault (Smart, 2002) fornisce un’ottima spiegazione del processo di costituzione dell’uomo
come oggetto delle scienze umane. Per una discussione sull’antropologia filosofica anteriore alla
(scientificità) moderna, vedere Schulz (1988).
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nella vita dei nativi e la loro cultura è stata considerata come degna e
necessaria per la costruzione di una teoria sociale.
Finalmente, con il lavoro di Malinowski e Boas è possibile parlare
veramente di etnografia come la intendiamo oggi. Il ricercatore lascia la sedia e
va a studiare in situ, attraverso l’osservazione partecipante e imbarca in un
processo relativizzante delle sue proprie credenze e valori. Il lavoro di campo
diviene una parte costitutiva dello studio in cui si impara la lingua, i costumi e
la cultura del nativo, vivendo con loro. Si cambia atteggiamento da uno che gli
vedeva come fonti di informazione da usare in teorie preconcette, in favore di
uno che gli identifica come maestri che insegnano il loro sapere (locale) al
ricercatore.
Nell’ultimo secolo, l’etnografia ha guadagnato spazio anche nelle altre
scienze sociali, soprattutto in quelle che privilegiavano metodi interpretativi. I
sociologi dell’università di Chicago sono stati i primi ad usare questo metodo
oltre il regno dell’antropologia. Seguendo il consiglio di Robert Park di
“sporcarsi le mani”, loro si sono messi a studiare le popolazione urbane da
vicino. Anche l’interazionismo simbolico3 ha contributo a questo processo;
l’oggetto di questa scuola sono le rappresentazioni del mondo e il punto di
vista degli attori, nel tentativo di accedere al significato che loro creano e
conferiscono agli oggetti e alle situazioni attraverso l’interazione. Per realizzare
questo i metodi quantitativi sembravano poco adeguati, legittimando il valore
della diretta osservazione dei contesti sociali (Bruni, 2003).
Seguendo questa tendenza, Garfinkel era interessato al senso comune,
basando le sue conclusioni sullo studio diretto di piccoli gruppi. Una delle
tecniche più famose di ricerca consisteva nel rompere intenzionalmente le
aspettative in un certo contesto sociale per esaminare le reazioni degli
individui e come essi cercavano di ricostituire l’ordine sociale. Lo stesso
termine adottato da questa branca di studi, etnometodologia, si riferisce ai
metodi usati dalle persone nelle situazioni quotidiane, rendendo palese il suo
profumo etnografico.
Eppure, prima di procedere si deve chiedere: c'è qualcuno che si
oppone a questo matrimonio? Possono metodi e teorie basate nello studio di
piccole gruppi non industriali essere adatti per capire organizzazioni moderne?
Può questo bagaglio di conoscenze essere usato per studiare lavoratori/lavori
contemporanei? Per rispondere a queste domande metodologiche
ipocondriache4 è opportuno fare un’analisi della natura del metodo
3 Non discuterò il contributo individuale di Goffman a questa filone, però vorrei ricordare, per gli
obiettivi di questo lavoro, la ricchezza e utilità di alcuni suoi concetti come ruolo (e conflitto di
ruolo), rituale, performance, palco e retroscena per lo studio etnografico delle organizzazioni.
4 Alcuni antropologi come Orosoff (2001) affermano che non abbia senso chiedersi se i metodi
siano applicabili o meno, visto che le organizzazioni non necessitano trattamento speciale. Altri,
come Laplantine (1996), credono che l’obiettivo dell’antropologia sia adottare un’epistemologia
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etnografico e la sua relazione con la teoria.
L’etnografia non è, soltanto, un resoconto di eventi particolari. Il suo
obiettivo è interpretare questi secondo le costruzioni culturali in cui gli uomini
abitano, o secondo la famosa definizione di Geertz (2000), la “rete di
significati” tessuta da noi in cui siamo sospesi. Inizialmente gli etnografi
hanno confrontato la teoria sociale classica con categorie native, con il tempo
l’enfasi è andata verso il tentativo di seguire gli attori e lasciare l’incontro
(cognitivo) con l’altro definire la struttura dell’osservazione. Nelle parole di un
antropologo possiamo dire che “non si descrive la tribù, ma si scrive
attraverso essa” (Cardoso, 1998).
Perciò, anche se i primi antropologi hanno ricercato in contesti non
occidentali-capitalisti, sono stati sempre in grado di estrarre dal lavoro di
campo conclusioni più ampie, in speciale sulle loro proprie società. Questa
capacità comparativa deriva da un processo di straniamento che trasforma il
familiare in esotico e l’esotico in familiare, creando la possibilità di potenziare
uno sguardo riflessivo. La scoperta di altre prospettive, oltre la nostra propria
visione di mondo, fornisce insights per ri-pensare ciò che era considerato
normale. Un esempio classico può essere la relazione tracciata da Malinowski
tra gli oggetti del Kula e i gioielli inglesi reali (Da Matta, 1981).
Questo conoscenza basata empiricamente, frutto di una buona
etnografia, proporziona un’interessante base per pensare questioni e
strutturare teorie sociali più ampie. Per usare due affermazioni classiche, è già
stato detto che “gli antropologi studiano problemi, non popolazioni” da
Radcliffe-Brown (Peirano, 2001) e che “studiano nei villaggi, non i villaggi” da
Geertz (Peirano, 2001). Per citare un altro esempio legato a Malinowski,
possiamo ricordare che la teoria di Polanyi sui sistemi economici sia debitrice
degli studi sulla reciprocità tra i Trobriand.
La validità dell’etnografia era basata sulla distanza tra osservatore e
oggetto di studio che assicurerebbe l’oggettività richiesta a qualsiasi scienza
legittima. Il ricercatore adottava un duplice ruolo: da un lato partecipava
empaticamente della vita dei nativi, ma allo stesso tempo doveva mantenersi
conscio del suo background, per non minacciare la necessaria separazione.
Tuttavia, si dovrebbe chiedere se questa distanza sia di natura fisica o
psicologica. Nelle società complesse gli individui non partecipano (anche
perché non riuscirebbero), in tutti i gruppi sociali. Ciò che si vede
quotidianamente non è per forza conosciuto e spesso è anche influenzato da
routine e stereotipi (Velho, 2004).
Per di più, la critica femminista della scienza5 ha dimostrato che la
conoscenza del mondo, compresa la scientifica, è sempre dipendente
democratica, suggerendo che la conoscenza ottenuta da contesti diversi sia uguale in importanza
dato che tutti sono parte dell’umanità.
5 Più precisamene mi riferisco alla teoria del feminist standpoint.