INTRODUZIONE
Il XX secolo, il “secolo breve” di Eric Hobsbawm, è stato, da un lato,
l’era di grande tragedie come due guerre mondiali, la guerra fredda, il
rischio nucleare, il terrorismo, ma dall’altro, ha segnato momenti
importanti come la fine delle dittature e l’inizio dell’era della
globalizzazione.
Nell’arco di meno di cento anni gli Stati Uniti hanno rilevato il
“fardello” della Gran Bretagna nel reggere le sorti economiche (prima) e
politiche (dopo) dell’intero pianeta. Questa sfida ha viaggiato
parallelamente al binario dell’evoluzione della scienza e della tecnica,
che hanno dotato gli esseri umani di poteri mai conosciuti prima.
Se i giornali e le riviste hanno accompagnato la storia dell’umanità
molto prima del secolo breve, il Novecento darà i natali a tre grandi
rivoluzioni nel campo della comunicazione: la radio, la televisione e
internet.
La politica non ha potuto ignorare le potenzialità di questi mezzi per
guadagnarsi il consenso a causa dell’allargamento del suffragio
universale. Ha smesso di essere un’oscura attività di palazzo, ha smesso
di essere la professione di un’èlite che decideva per milioni di persone.
Questo lavoro è una ricognizione storica sul meccanismo che, nel caso
specifico degli Usa, ha portato la politica ad accedere ai mezzi di
comunicazione e sul modo in cui alcuni Presidenti hanno sfruttato questi
mezzi per arrivare al pubblico.
Trattandosi di una ricognizione storica e non politologica, ho scelto
quattro presidenti come Franklin D. Roosevelt, John F. Kennedy,
George W. Bush e Barak H. Obama non per il loro background politico
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(tre democratici e un repubblicano), ma per la particolarità del loro
linguaggio, il particolare uso dei mezzi di comunicazione e soprattutto
per le fasi storiche che hanno dovuto affrontare (la Grande Depressione,
la Guerra Fredda, il terrorismo, la nuova crisi economica).
Nella prima parte sono stati affrontati elementi tecnici del mondo della
comunicazione: il capitolo 1 offre una panoramica sulle tre ere principali
della comunicazione politica: premoderna, moderna e postmoderna; il
capitolo 2, invece, descrive il principale momento elettorale americano,
quello delle elezioni presidenziali, e gli elementi sui quali i candidati
fanno leva per attirare a sé gli elettori. All’interno di questo capitolo ho
voluto spiegare il meccanismo attraverso cui la comunicazione diventa
fondamentale per raccogliere fondi e far leva su gruppi e movimenti.
Il capitolo 3, che conclude la prima parte, tratta poi il ruolo che i tre
media fondamentali (radio, televisione e internet) hanno avuto nella
storia della politica americana. In particolar modo, vengono descritti
quali modelli della comunicazione sono stati trasferiti dalla radio alla tv,
quali nuove idee sono venute dal mondo della televisione (dibattiti e
spot elettorali); l’ultimo paragrafo del capitolo è dedicato poi al mondo
di internet e alla sua continua evoluzione.
La seconda parte è un’analisi di quattro diverse presidenze, ognuna delle
quali ha retto nuove sfide con mezzi di comunicazione diversi.
Il capitolo 4 si occupa di Franklin D. Roosevelt, il primo presidente che
“entrò” nelle case degli Americani attraverso la radio, dagli anni della
grande Depressione sino alla tragica fine della seconda guerra mondiale;
nel capitolo vengono descritte le prime strategie di comunicazione
pianificata che portarono Roosevelt a servirsi della stampa, della radio e
anche della cinematografia.
Il capitolo 5 si occupa della presidenza, seppur breve, di John F.
Kennedy: un presidente giovane, bello, cattolico, ideatore della nuova
Frontiera, fece entrare il mezzo televisivo perfino nella vita privata della
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Casa Bianca nei difficili anni della guerra fredda. Nel capitolo vengono
trattati temi che hanno permesso la sua ascesa politica: la campagna
elettorale come sforzo di gruppo del clan Kennedy, la capacità oratoria,
la questione dei diritti civili, il rapporto con la stampa e la televisione.
Il capitolo 6 è dedicato ad una presidenza recente, quella di George W.
Bush, che raccolse l’eredità dell’era Clinton per ritrovarsi a fronteggiare
una delle sfide più difficili: il terrorismo internazionale di matrice
islamica e lo “scontro di civiltà”. L’appello a temi della corrente
jacksoniana come la rinascita spirituale cristiana e la riscoperta del ruolo
di “arsenale della democrazia” torneranno sui media.
L’ultimo capitolo è dedicato allo studio di un fenomeno nuovo e di una
presidenza altrettanto recente, quella di Barak H. Obama. Il primo
presidente afroamericano della storia degli Usa ha portato con sé una
rivoluzione senza precedenti: “Yes we can” è un tema che riporta nella
competizione politica la retorica del sogno, meno ideologica di quella
kennedyana, che potrebbe ancora una volta funzionare. Non è possibile
costruire un’analisi storica su di un presidente che è entrato in carica
poco più di un anno fa, ma è possibile analizzare un linguaggio che ha
appassionato milioni di persone e che ha fatto del web il suo canale
privilegiato.
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PARTE PRIMA
ELEMENTI DI BASE DELLA
COMUNICAZIONE POLITICA AMERICANA
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CAPITOLO I
LE ERE DELLA
COMUNICAZIONE POLITICA AMERICANA
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Tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, quando la politica smise di
essere un “affare per pochi” e le masse acquisirono il diritto di voto, gli
uomini politici dovettero abbandonare la propria autoreferenzialità per
occuparsi della propria immagine, del proprio linguaggio e del proprio
stile, al fine di ottenere l’approvazione da parte degli elettori.
Iniziava così l’era della ricerca del consenso.
La comunicazione politica nel corso dei decenni ha subito dei
mutamenti significativi, ma i modelli cui tutto il mondo s’ispira sono
nati nei primi anni del Novecento negli Stati Uniti d’America.
Gli Usa, infatti, non sono stati soltanto uno dei primi paesi a riconoscere
il diritto di voto dei cittadini (anche se inizialmente solo dei cittadini di
sesso maschile e di razza bianca) ma soprattutto il paese che ha visto
nascere i mezzi di comunicazione: la radio nei primi anni del
Novecento, la televisione tra gli anni Venti e gli anni Trenta e il
potentissimo World Wide Web, tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio
degli anni Novanta.
Nel corso del Novecento e nei primi anni del nuovo millennio, la
comunicazione politica americana ha attraversato una parabola evolutiva
che la comunità degli studiosi ha ricostruito come il succedersi di un’era
1
premoderna, una moderna e una postmoderna.
Il modello statunitense ha fornito nuovi approcci e tecniche alla
comunicazione politica europea (tanto da andare a configurare un
processo d’ibridazione noto come “americanizzazione”) presentandosi,
spesso, come un modello omogeneo e coerente. In realtà la
comunicazione politica americana è quanto di più instabile esista: con
rapidità ed incisività è in grado di trasformarsi, adattandosi alla
mutevolezza della società, della politica e dei media.
1
Cfr. VACCARI C., La comunicazione politica negli Stati Uniti, Roma, 2007, p.13.
10
1. L’era premoderna e moderna
Fino agli anni Cinquanta del Novecento, le campagne elettorali erano
condotte quasi esclusivamente dai partiti che utilizzavano canali diretti
come la stampa e i propri volontari organizzati. I partiti erano
fortemente radicati sul territorio e l’appartenenza politica era scelta per
via identitaria e trasmessa di padre in figlio, come una vera e propria
eredità sociale e ideologica.
Le campagne elettorali erano, perciò, condotte in modo da mobilitare i
propri sostenitori rispolverando legami, relazioni e appartenenze
preesistenti. Alle grandi schiere di militanti era richiesto un
coinvolgimento diretto: volantinaggio, articoli sui giornali di partito,
propaganda porta a porta.
I contenuti di questa politica erano prevalentemente ideologici e
affrontavano temi che stavano a cuore alla gente: il salario, il progresso
economico e sociale, la criminalità, i diritti civili.
Esistevano, in quegli stessi anni, anche cittadini dalle affiliazioni deboli,
ma il loro contatto con la politica era per lo più superficiale e sporadico,
essendo gli strumenti della propaganda fortemente selettivi.
Questa era l’epoca delle campagne elettorali e della politica premoderna.
Sul finire degli anni Cinquanta, l’approccio identitario nella politica
americana (e meno in quella europea) andò scemando, in particolare
sulla scia della rivoluzione operata dal presidente Franklin D. Roosevelt
che, nei suoi quasi dodici anni di presidenza, fu in grado di mobilitare a
suo favore un cosiddetto “blocco democratico”. Questo riuniva al suo
interno i dixiecrats (ovvero i democratici del sud, estremamente
conservatori), i liberals (gli intellettuali progressisti), i labours (il
mondo del lavoro sindacalizzato) e gli ethnics (le minoranze etniche e
religiose).
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La modernizzazione del paese rendeva, infatti, meno rilevanti le
classiche cesure sociali basate su vincoli di appartenenza, incentivando i
partiti a rimescolare la composizione ideologica e sociale della propria
base.
Se in Europa questa trasformazione faceva nascere il partito “piglia-
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tutti”, negli Stati Uniti aumentavano gli “indipendenti”, terzi rispetto ai
democratici e repubblicani.
Le basi elettorali dei due partiti mutarono soltanto quando larga parte dei
ceti medio - bassi, tradizionali elettori democratici, iniziò a preferire i
repubblicani, in particolar modo in materia di moral issues, ovvero su
temi di rilevanza sociale come la tutela delle minoranze, i diritti delle
donne e il possesso delle armi da fuoco.
I ceti benestanti del Nord e delle coste, viceversa, si orientarono verso il
Partito Democratico proprio per le sue posizioni progressiste in quelle
3
stesse materie: andava così affermandosi il “voto di opinione”, con il
quale l’elettore sceglie non solo l’appartenenza politica ma, soprattutto, i
programmi e i personaggi (e non i partiti).
Il meccanismo della persuasione nella politica americana è esattamente
il corollario del cambiamento di quegli anni: la propaganda non avrebbe
avuto più come obiettivo il militante o l’affiliato, bensì l’elettore
“mediano”, indeciso sino al momento del voto ma decisivo per la
vittoria. Per comprenderne gli orientamenti occorreva ricorrere a
strumenti più precisi e scientifici come i sondaggi.
Questi cambiamenti furono incentivati dalla diffusione della
comunicazione di massa, in cui la televisione generalista aveva, ed ha
ancora oggi, un ruolo fondamentale: trasmettere spot o parlare ai
2
Cfr. KIRCHHEIMER O., The Transformation of the Western European Party Systems, in
J. la Palombara, M. Weiner, Political Parties and Political Development, Princeton, NJ,
pp.177-200.
3
Cfr. PARISI A., PASQUINO G., Continuità e mutamento elettorale in Italia, Bologna,
1977, p.17.
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telegiornali avrebbe consentito alla politica di raggiungere gran parte
della popolazione con un unico e semplice messaggio.
Se la stampa dell’era premoderna era stata uno strumento non neutrale
ma manipolato dai partiti, la televisione si andava configurando come un
media neutrale ed imparziale: per motivi di servizio pubblico, in Europa,
ma per ragioni eminentemente commerciali negli Stati Uniti. Anch’essa
doveva essere, quindi, “piglia-tutti”.
Questi cambiamenti costrinsero i partiti a modificare la loro struttura per
garantire la coerenza e la credibilità dei messaggi inviati tramite il
piccolo schermo. Si trasformarono così in organizzazioni ad “alto tasso
di capitale”, poiché la disponibilità di risorse finanziarie era la chiave
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per acquisire spazi pubblicitari, produrre spot e realizzare sondaggi.
Candidati e leaders, coadiuvati da fitte schiere di consulenti e
professionisti della comunicazione (che andarono a costituire un ceto
professionale autonomo), iniziarono a sfruttare la propria notorietà
mediatica per conquistare potere all’interno dei partiti. Per soddisfare un
pubblico sempre più vasto, i messaggi si facevano sempre più sfumati,
vaghi, ridotti a slogan succinti e di facile comprensione, all’interno di un
sistema che diveniva una “democrazia del pubblico” e non più dei
5
partiti.
Questo stato di cose definisce l’era moderna della comunicazione
politica americana, ed ha avuto il suo apice negli anni Settanta e Ottanta
del Novecento per poi subire un nuovo cambiamento negli anni
Novanta.
Il fatto che elementi del modello statunitense siano riscontrabili in
numerosi paesi democratici, è spesso interpretato come un processo di
“americanizzazione” della politica; in realtà, la diffusione delle
4
Cfr. FARREL D., Campaign Strategies and Tactics, Thousand Oaks, 1996, pp.160-183.
5
Sull’argomento si veda MANIN B., The Principles of Representative Governement,
Cambridge, MA, 1997.
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campagne moderne è stata spesso legata (in Europa, America Latina e in
alcuni paesi dell’Europa orientale) al reclutamento di consulenti
6
statunitensi nelle proprie campagne elettorali.
L’utilizzo del termine “americanizzazione” diffonde, però, l’idea errata
che il metodo americano sia una serie di regole scientifiche la cui
applicazione è in grado di dare risultati certi. Occorre correggere
quest’idea, soprattutto perché l’approccio utilizzato dai comunicatori
politici deriva da settori non strettamente connessi alla politica, come il
marketing o la strategia militare.
A dimostrazione dell’eterogeneità del sistema americano si possono
citare i differenti approcci che repubblicani e democratici hanno avuto
negli ultimi trent’anni: i repubblicani si sono adattati meglio ai
cambiamenti negli anni Settanta e Ottanta, trovando nel presidente
Ronald Reagan, un ottimo interprete del modello moderno. Negli anni
Novanta, invece, Bill Clinton ha favorito la trasformazione
comunicativa dei democratici in senso fortemente postmoderno.
Proprio negli anni in cui l’americanizzazione aveva luogo, confermando
in molti paesi europei il modello moderno, negli Usa nuove spinte
centrifughe e centripete si sono rivelate un punto di partenza verso l’era
postmoderna.
2. L’era postmoderna
La postmodernità è un concetto inaugurato dal filosofo e politico
francese Jean F. Lyotard, che ha sostenuto in La condizione
postmoderna che il filo conduttore del mondo attuale è la quasi
6
Ad esempio, Ehud Barak e Benjamin Netanyahu, candidati alla carica di primo ministro in
Israele nel 1999, erano entrambi assistiti da professionisti statunitensi.
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definitiva erosione dei vecchi schemi ideologici e sociali, processo che
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egli definisce “fine delle Grandi Narrazioni”.
In una realtà politica come quella americana, mai estremamente
ideologizzata come quella europea, l’indebolimento delle ideologie ha
accresciuto la propensione al dissenso critico e molto spesso
l’abbandono della partecipazione politica: il nuovo obiettivo, infatti, non
è più la conquista del voto degli indecisi, ma convincere coloro i quali
hanno perso ogni interesse per la politica ad andare alle urne. Nel 2004,
per esempio, il quaranta per cento degli statunitensi si dichiarava
“indipendente”: questo potrebbe far pensare ad una maggiore mobilità
elettorale, invece, i due terzi di questi elettori hanno una preferenza
partitica (repubblicana o democratica) e la esprimono con la stessa forza
di coloro i quali sono iscritti nelle liste elettorali dei due maggiori partiti.
Per un partito, quindi, è fondamentale mobilitare proprio gli
indipendenti, che non agiscono votando per questo o quel partito, ma
“bocciano” o “promuovono” la politica scegliendo se andare o meno a
votare.
Alla nascita di questo nuovo target della comunicazione politica, il
mondo americano ha risposto con trasformazioni epocali nel sistema dei
media: la televisione generalista è stata superata dalle televisioni digitali,
satellitari, sul web e via cavo che si rivolgono a nicchie di telespettatori.
La radio, invece, viene riscoperta come mezzo per raggiungere il
pubblico meno giovane, meno “generalista” e maggiormente raffinato.
L’era postmoderna ha reso la competizione elettorale un sistema ancora
più complesso, nel quale i partiti si lanciano in meccanismi comunicativi
non solo pre-elettorali ma anche nel corso delle attività di governo,
dando vita ad una vera e propria campagna elettorale permanente.
7
Cfr. LYOTARD J.F., La condition postmoderne: Rapport sur le savoir, Parigi, 1979, pp.
5-38.
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