più pronunciata per via del grado di maggior astrazione che caratterizza la prensione.
Parafrasando il titolo di uno scritto sull’argomento “filosofia della mente” noi
potremmo immaginare “che cosa si prova a essere un cane”
6
. Non dico che possiamo
immedesimarci perfettamente, tuttavia possiamo supporre che, qualora fossimo
quella prensione, avremmo delle sensazioni “nostre” pur non essendo propriamente
coscienti. Disporremmo, cioè, di una certa privacy.
La privacy è quindi una soggettività più pronunciata della prensione. La coscienza
è una soggettività ancora più pronunciata. L’autocoscienza è il grado massimo di
privacy e di coscienza.
Se solo ci fermiamo a considerare queste conclusioni ci rendiamo conto di come i
presupposti su cui Whitehead ha basato la propria metafisica (che sono poi, abbiamo
visto, coincidenti con i presupposti su cui, implicitamente, si basano anche i filosofi
della mente) inizino a rivelarsi contraddittori nei confronti degli sviluppi del pensiero.
La soggettività che abbiamo analizzato, infatti, è ben più di una caratteristica del
reale. Essa è il reale, dal momento che è la “forma del mondo”. Il pensiero di
Whitehead sembra così diventare un sistema idealista, più che realista. Questa
soggettività determina il mondo e le sue relazioni interne, tanto che ciò che a suo
tempo avevamo identificato con il contenuto delle prensioni e, quindi, con
l’oggettività, tende a perdere d’importanza sostanziale. La soggettività è il principio
formale, razionale della realtà, è la realtà stessa.
Infatti Whitehead introduce nella sua trattazione il concetto di dio proprio per
caratterizzare dal punto di vista formale e razionale l’intero processo riguardante la
“creatività” delle prensioni. Il Dio di Whitehead è un dio metafisico, incarnante la
razionalità a priori che governa la struttura delle prensioni. Dio è l’universo. Il
sistema metafisico di Whitehead è idealistico proprio perché la realtà è emanazione di
una soggettività assoluta.
Questa prima conclusione cui siamo appena giunti ci mostra, pur non entrando
ancora nel merito specifico del nostro discorso, quanto sia difficile da sostenere
6. T. Nagel, What is like to be a Bat?, Philosophical Review, n.83,pp.435-450.
un’ipotesi metafisica che possa dirsi realista e monista. I fondamenti stessi del
pensiero di Whitehead sono, in questo modo, minati.
L’essere giunti a dover riconsiderare i presupposti metafisici da cui era partita la
nostra indagine, è stata diretta conseguenza del fatto che parlare di coscienza implica
necessariamente una riflessione preliminare di questo tipo. Se volessimo ora cercare
di proseguire l’analisi del pensiero whiteheadiano, dovremmo stabilire in che modo
l’assoluto della metafisica di Whitehead (Dio) si frammenta nelle differenti realtà
ontiche, e il perché di questa frammentazione, tanto per fare un esempio. I
presupposti di partenza secondo i quali esiste un mondo indipendente dalla
soggettività ed esso è come ci appare, si rivelano contraddetti e inadatti, oltre che
insufficienti e sommari.
Probabilmente se avessimo affrontato un problema differente, come, per esempio,
l’analisi del concetto di materia, o la natura del tempo, o dello spazio solo per citare
alcuni spunti, non saremmo stati costretti a rivedere il nostro punto di partenza. È
stato, invece, proprio il parlare di coscienza che ci ha costretti, alla fine, a dover
affrontare la questione delle scelte preliminari. È stato il parlare di coscienza che ha
evidenziato come problematiche le presupposizioni iniziali, che abbiamo visto essere
condivise sia dalla metafisica di Whitehead che, implicitamente, dai filosofi della
mente.
Ma, come ci chiedevamo poco fa, com’è possibile che la coscienza (così come la
“privacy”) di Whitehead possa coincidere con quell’individualità che caratterizza il
concetto di coscienza in Searle pur essendo, innanzitutto, un universale?
Io credo che la coscienza della metafisica di Whitehead sia una vera e propria
forma a priori della nostra esperienza. Con ciò intendo dire che la coscienza di
ognuno di noi è quel modo in cui viene “organizzata”, “vissuta” l’esperienza, è il
modo più generale in cui la nostra esperienza (che è prensione, non dimentichiamolo)
si dà. Così come le categorie kantiane, la coscienza è, infatti, non esperibile ma
determina la forma della nostra esperienza.
Una breve parentesi mi sia concessa per far notare quanto già sia cambiato il nostro
modo di parlare della coscienza. Stiamo esponendo uno scenario metafisico o siamo
già in ambito gnoseologico? È vero che tutto ciò che abbiamo appena detto potrebbe
essere descritto in termini quali “prensione”, “evento”, “concrescenza” e via dicendo,
ma la discussione sembra ora essere orientata sull’analisi delle condizioni
dell’esperienza e della conoscenza piuttosto che sui principi generali che governano
l’accadimento dei fatti “fisici” (le cause prime). Non è solo una questione di
“comodità”, per cui noi stiamo spostandoci verso l’ambito gnoseologico perché è lì
che troviamo i termini giusti per descrivere il nostro problema; al contrario, si tratta
di una questione epistemica poiché è lo stesso realismo “incompleto” di Whitehead
che ci spingerà a ritornare sui nostri passi e domandarci “che cosa possiamo
conoscere?”.
La coscienza di Whitehead è, dunque, una forma a priori della nostra esperienza.
Entriamo in ambito gnoseologico.
Dicendo che la coscienza è una forma a priori non intendo dire, ovviamente, che il
mio “sentire me” è uguale al tuo “sentire te”. La coscienza di cui sto parlando, cioè,
non è un io empirico. Quando siamo svegli e agiamo siamo perennemente
accompagnati da un “sentore” di noi stessi che cessa quando dormiamo e non
sogniamo o, fatalmente, quando siamo morti. Searle chiama questo sentore
“coscienza” ma io non sono d’accordo. Per me si tratta semplicemente di ciò che
abbiamo identificato col concetto di privacy. In questo modo gli uomini, ma anche gli
animali, hanno una privacy, una soggettività accentuata (riprendendo la terminologia
di Whitehead). Tuttavia io credo che la coscienza insorga solamente con l’utilizzo del
linguaggio, con la capacità, dunque, di concepire un oggetto in sé, come l’io o le
nostre percezioni, e ciò coincide con il superamento di una determinata soglia di
altezza da parte di una prensione (la “nostra” prensione), ma anche con la presenza
più marcata di quel “sentore” di cui si parlava poco fa. Per effetto di questa
considerazione anche gli animali più evoluti sono dotati di privacy, ma non di
coscienza.
Prendiamo due persone che, ora e in due luoghi differenti della Terra, stanno
parlando; esse sono due prensioni che hanno superato la soglia quantitativa
prestabilita perché si possa parlare di coscienza. Che cosa ci fa dire che quelle due
prensioni sono differenti? In che modo esse possono distinguere i loro sé?
Certamente il fatto di aver superato entrambe la soglia prestabilita non significa
necessariamente che la loro altezza sia uguale (come abbiamo visto, infatti, esistono
varie gradazioni di coscienza fino all’autocoscienza che è il grado massimo): tuttavia,
possiamo senza dubbio affermare che in questo istante, al mondo, esistono almeno
due prensioni che hanno lo stesso grado di altezza “cosciente” e che quindi, dal punto
di vista della forma della loro esperienza, i loro “sentirsi sé” sono coincidenti. Non è,
dunque, la coscienza a determinare l’individualità dell’esperienza proprio perché essa
è a priori e universale. Essa è dotata di differenti gradazioni, certo, ma la coscienza in
toto, è una, e, in un certo senso, uguale per tutti.
Si può, a ragione, obbiettare a questo ragionamento che la forma e il dato
dell’esperienza non possono essere così disgiunti. Infatti il dato e la forma
costituiscono un sinolo che è poi la nostra esperienza. Questi due aspetti, infatti, sono
indissolubilmente legati. Ciò che abbiamo chiamato “sentore di sé” è un io empirico
costituito dalla coscienza e dai dati della coscienza. Searle intende per coscienza
questo “io empirico” mentre io credo che la coscienza sia la forma a priori
dell’esperienza che determina l’esperienza dell’io empirico (senza di essa i dati non
potrebbero venire esperiti) così come quella di ogni altra “cosa”. Ciò che conferisce
individualità all’esperienza è, così, il dato, il contenuto della prensione che,
necessariamente diverso da prensione a prensione, fa sì che l’io empirico sia
differente da individuo a individuo. Se infatti è vero che in ogni momento esistono
differenti prensioni dotate dello stesso livello di altezza e quindi dello stesso grado di
sé, è altrettanto vero che è impossibile che due prensioni abbiano lo stesso contenuto
per il semplice fatto che due prensioni, per definizione, sono due diverse
concrescenze dell’insieme delle relazioni dell’universo
7
.
7. Fanno eccezione le prensioni dotate di autocoscienza che, come abbiamo potuto vedere, nelle
loro parti “superiori” tendono ad essere tutte uguali, dal momento che il loro contenuto tende a zero
e la loro altezza all’infinito.
Come visto nel capitolo precedente, la parte oggettiva di una prensione riguardante
una persona cosciente e pensante è costituita da tutte quelle relazioni universali che
hanno fatto sì che quella persona fosse cosciente in quel modo in quel momento. Tra
queste relazioni, o prensioni precedenti, dobbiamo certamente annoverare pure le
esperienze passate dello stesso individuo. Esse costituiscono la parte più direttamente
oggettiva della prensione e sono proprio questi eventi passati a caratterizzare la
prensione in quanto costituenti principali della parte oggettiva in questione. Le
esperienze passate, i ricordi di ognuno di noi costituiscono il principium
individuationis della nostra identità personale.
Sono dunque i dati dell’esperienza che conferiscono individualità alla prensione
dotata di coscienza: sono i differenti ambienti, le differenti persone incontrate nel
corso della vita, i differenti ricordi che conferiscono al “sentirsi sé” l’individualità. La
coscienza, invece, è una forma a priori, uguale per tutti (anche se differente, a volte,
nelle gradazioni).
Riprendiamo, dunque, Searle e confrontiamo nuovamente i due concetti di
coscienza con cui stiamo avendo a che fare. Per il filosofo americano il sentire sé è
un’esperienza unica e individuale in funzione del fatto che è la coscienza in sé a
essere unica e individuale in ciascuno di noi. La coscienza di cui stiamo, invece,
parlando noi, è una forma a priori dell’esperienza che conferisce al soggetto l’essere
in prima persona ma non l’individualità. Mentre, dunque, in Searle questi due aspetti
sono uniti (se non addirittura coincidenti), nell’ambito in cui stiamo parlando essi non
lo sono affatto.
Abbiamo dunque parlato finora di due tipi di coscienza così radicalmente
differenti? A cosa sono dovute queste difficoltà estreme che stiamo incontrando
proprio quando la metafisica di Whitehead sembrava in grado di risolvere i problemi
insoluti posti da Searle e “illustrare” con buon successo il concetto di coscienza del
filosofo americano?
C’è solo un modo per poterne uscire. Se vogliamo far coincidere le due coscienze
dobbiamo ridurre a uno il numero delle prensioni di cui stiamo parlando; ed è proprio
questo ciò che dobbiamo fare.
Come già avevamo fatto notare in precedenza, infatti, il “realismo” di Whitehead è
viziato, fin dall’inizio, da un errore capitale. Se le prensioni sono determinate dalla
loro soggettività e se le prensioni sono innanzitutto l’essere evento soggettivo, noi
non possiamo nemmeno pensare di poter “osservare”, parlare di altre prensioni. Un
uomo che pensa è una prensione, ma il contenuto dei suoi pensieri, che è poi anche il
contenuto della prensione, non può essere un insieme di prensioni. Questo perché non
è possibile, per l’uomo che pensa, osservare una parte essenziale delle prensioni
stesse: la loro soggettività. Riuscire a farlo significherebbe diventare quella
prensione, non già conoscerla. Proprio in questo senso, infatti, ogni prensione gode
del fatto di essere un evento privato.
Con questo non voglio negare a priori che la realtà possa effettivamente essere
costituita da un insieme di prensioni che sono concrescenze di un complesso e
infinito sistema di relazioni. Voglio solamente affermare che le prensioni non sono
dati della nostra esperienza né della nostra conoscenza. O, per essere più precisi, c’è
solo una prensione che possiamo conoscere: se conoscere una prensione significa
essere quella prensione allora vuol dire che potremo parlare solo del nostro essere
prensione o, meglio ancora, parlare di noi stessi in quanto prensione. Questo è
l’unico modo possibile per parlare del sistema di prensioni di Whitehead. La
metafisica, potremmo dire, in questo modo si “trasforma” in gnoseologia.
In questo modo il parlare di noi stessi in quanto prensioni significa ritrovare
all’interno della nostra esperienza tutti quei concetti che avevamo visto appartenere
alla metafisica delle prensioni; significa capire, come abbiamo del resto appena fatto,
che cos’è e che ruolo svolge la forma della prensione all’interno della nostra
esperienza, che cos’è il contenuto della prensione, che cos’è il punto di concrescenza
e così via. Noi dobbiamo, appunto, analizzare le condizioni dell’esperienza secondo il
modello della prensione, dire che la forma della nostra esperienza è la coscienza
ovvero la forma della prensione; possiamo sostenere che i dati si concentrano nel
punto di concrescenza, che l’io empirico è un sinolo di forma e dato dell’esperienza
così come ogni altra cosa. Siamo obbligati a fare tutto ciò, a non parlare più delle
prensioni ma solo della nostra prensione, perché è questa l’unica prensione di cui
possiamo parlare e con cui abbiamo a che fare. In questo modo il problema della
coscienza non è più il problema “delle coscienze” intese come oggetti scientifici o
metafisici su cui indagare; la coscienza è diventata ora un problema gnoseologico.
Essa, potremmo dire, non è più un oggetto bensì un problema.
Seguendo la metafisica di Whitehead ci siamo accorti di star speculando su una
realtà di cui non possiamo provare l’esistenza. Il parlare della coscienza ci ha costretti
a fare questa considerazione gnoseologica che, in realtà, sarebbe dovuta avvenire a
livello preliminare.
Insomma, il fatto è che si può postulare l’esistenza di un mondo di molecole, alberi
e persone “al di fuori di noi” e ciò può non risultare problematico se parliamo di
molecole, alberi o persone (fisiche). Ma quando parliamo di coscienza (e noi abbiamo
scelto un modo per farlo, cioè con la metafisica di Whitehead che abbiamo visto
essere in grado di farlo apparentemente molto bene) tutto diventa problematico.
Se la metafisica di Whitehead descrive bene il mondo in cui viviamo, che abbiamo
postulato essere indipendente dalla coscienza e così come lo esperiamo, allora ci
dobbiamo affidare a essa. E essa ci dice che la soggettività di una prensione riveste,
seppure in senso stretto, tutto l’universo; sotto il punto di concrescenza di una
prensione sottosta l’intero universo e ciò porta al fatto che non è possibile conoscere
altre soggettività, non solo, non è possibile neanche dimostrare che esistano. Ma,
allora, se possiamo parlare di una sola prensione (essendo noi quella prensione) che
cos’è la coscienza? Che cos’è la prensione? La prensione non è più un’entità
metafisica, bensì è un modello gnoseologico dove la coscienza è la forma
dell’esperienza e il dato è il contenuto della prensione stessa. Metafisica e
gnoseologia tendono a coincidere proprio perché l’unica prensione con la quale
abbiamo a che fare (e quindi il modello gnoseologico della nostra esperienza) è
anche, in senso stretto, l’intero universo (poiché, come detto, sotto il suo punto di
concrescenza sta l'intera rete di relazioni del reale). Con la differenza che se
volessimo chiederci ora che cos’è la coscienza degli altri dovremmo prima risolvere
il problema di dire che cosa sono le altre cose, che cosa sono “gli altri”, che cosa vuol
dire essere realisti. Il realismo di Whitehead, in ultimo luogo, si riduce al postulare il
fatto che esistono molteplici prensioni; ma esso rimane, proprio in quanto postulato,
un’ipotesi indimostrata.
Il problema non è più “che cos’è la coscienza”, la nostra coscienza, la coscienza di
noi uomini, organismi che si muovono in un mondo “materiale”, ma “che cos’è la
coscienza” inteso come problema gnoseologico perché è proprio quello il problema
da risolvere preliminarmente. All’interno di questo discorso cessa di avere
importanza la diversità tra la coscienza “universale” della metafisica di Whitehead e
quella “individuale” di cui parla Searle. Semplicemente il problema non si pone
proprio perché non si tratta più di indagare dal punto di vista della metafisica.
Il nostro compito sarà ora quello di affrontare un discorso gnoseologico che ci
chiarisca in che modo avviene la conoscenza, quali sono le definizioni di “dato”,
“realtà”, “percezione”, “intenzionalità”, solo per fare qualche esempio. Solo dopo
aver chiarito preliminarmente questi termini sarà possibile focalizzare la nostra
attenzione sul concetto di coscienza.
Possiamo porre come punto di partenza la monade di Leibniz o la prensione di
Whitehead, ma non possiamo certo descrivere un mondo “esterno” se prima non
abbiamo inquadrato il discorso dal punto di vista gnoseologico. Noi possiamo
immaginare che esista un essere indipendente dalla coscienza e possiamo
immaginare come sia strutturata la realtà dal punto di vista metafisico. Possiamo
anche utilizzare con buon profitto lo schema che abbiamo immaginato per rendere
conto di alcune incongruenze della scienza o del senso comune e spiegare, in questo
modo, il senso più generale dei fenomeni fisici, per esempio.
Ma qualora all’interno dello stesso schema metafisico noi dovessimo imbatterci nel
concetto di coscienza, troveremmo impossibile collocarla in maniera soddisfacente
all’interno dello stesso, dal momento che la discussione sul problema della coscienza
non può essere affrontata se non all’interno di un dibattito che la collochi,
innanzitutto, come elemento del processo di conoscenza. Il problema della coscienza
è un problema preliminare ed è solo in questo modo che il discorso sulla coscienza
acquista tutta la sua autenticità.
Siamo partiti dalla prensione come elemento metafisico e siamo stati costretti a
trasformarla in un problema gnoseologico, e la stessa evoluzione ha avuto il concetto
di coscienza.
Questo è stato il percorso ispirato dalla metafisica di Whitehead “applicata” alle
istanze della filosofia della mente e questa è la considerazione conclusiva: il
problema della coscienza non può trovare adeguata soluzione né nella scienza né
nella metafisica; il problema della coscienza è un problema gnoseologico.