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PREMESSA
L‟istituto della legittima difesa è senza dubbio uno dei più affascinanti e com-
plessi del diritto penale sostanziale italiano, per il suo porsi in una zona di confine,
a cavallo tra il consentito ed il proibito. Presente da tempo immemorabile in tutte
le legislazioni penali, essa richiama una questione, quella della autodifesa di diritti
propri o altrui, dalla quale è difficile non sentirsi personalmente toccati. A chiun-
que, specie di questi tempi, potrebbe capitare di trovarsi in una situazione di peri-
colo, nella quale gli si pone l‟alternativa tra il subire un‟offesa ingiusta o il reagire
difendendosi.
La legittima difesa è da sempre considerata uno dei fiori all‟occhiello del no-
stro sistema penale, uno degli istituti maggiormente condivisi. Tuttavia, di recen-
te, essa è stata oggetto di una riforma legislativa dettata da una crescente richiesta
sociale di maggiore sicurezza, a fronte di una criminalità sempre più incrudelita,
nonché di una scriminante dai confini più ampi.
Tale riforma ha, di fatto, influito sul tema di questo lavoro, la cui scelta è stata
stimolata anche dallo strascico di polemiche che hanno accompagnato la riforma
nel momento in cui chi scrive si avvicinava allo studio del diritto penale. Questo
lavoro si propone, in particolare, di analizzare il più delicato e determinante dei
requisiti strutturali della legittima difesa, cioè la proporzione, a seguito di una pre-
liminare esposizione dell‟istituto nella sua fisionomia complessiva, analizzandolo
in tutti i suoi requisiti strutturali. Tutti tranne uno, appunto la proporzione, cui la
presente tesi è dedicata in modo specifico, che sarà, invece, trattato successiva-
mente seguendo una particolare impostazione.
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Infatti, con la riforma del 2006 è stata introdotta nel sistema una nuova figura
di legittima difesa, per contesto e per requisiti, che abbiamo qui definito “legittima
difesa domiciliare”, la quale va ad affiancarsi alla “legittima difesa comune” di
cui all‟attuale primo comma dell‟art. 52 c.p., ed il cui dato più innovativo e, al
contempo, più discusso riguarda proprio il requisito della proporzione, dal mo-
mento che esso è, ora, legislativamente presunto nelle ipotesi prese in considera-
zione dalla riforma stessa.
Tale circostanza ha determinato la scelta sistematica di affrontare la disamina
del requisito della proporzione in maniera per così dire sdoppiata, analizzandolo
dapprima nel contesto della “legittima difesa comune”, e poi in quello della “legit-
tima difesa domiciliare”.
In via incidentale, la presente trattazione si propone anche l‟obbiettivo, attinen-
te forse più alla sociologia giuridica che alla scienza del diritto in senso stretto, di
rintracciare una sorta di legame tra il modo in cui riforme legislative di grande
presa nell‟immaginario collettivo, come appunto quella che ha riguardato l‟istituto
in esame, vengono presentate dai mezzi d‟informazione di massa ed il modo in cui
esse vengono percepite dai consociati e messe in pratica nella vita di tutti i giorni.
Nel concludere, intendo rivolgere un grazie particolarmente sentito al mio rela-
tore, il Prof. Giuliano Balbi, per avermi consentito di incentrare la mia tesi di lau-
rea su un argomento a cui tengo in modo particolare, e al dott. Gianluca Gentile,
per la sua infinità disponibilità ed i preziosi consigli.
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CAPITOLO I
LA LEGITTIMA DIFESA
Sommario: 1. Antigiuridicità e cause di giustificazione. – 2. Il fondamento sostanziale
della legittima difesa. – 3. Legittima difesa “comune” e legittima difesa “domiciliare”:
rapporto di specialità o di concorrenza?. – 4. Struttura e requisiti della legittima difesa
“comune”. – 5. (Segue). L‟oggetto della legittima difesa. – 6. (Segue). Elementi caratte-
rizzanti l‟aggressione. – 7. (Segue). Elementi caratterizzanti la reazione difensiva.
1. Antigiuridicità e cause di giustificazione
Secondo la concezione tripartita del reato, affinché si abbia il sorgere della re-
sponsabilità penale a carico del soggetto agente è necessario che il fatto da questi
posto in essere sia non solo tipico, in quanto corrispondente agli estremi previsti
da una fattispecie di reato, non solo colpevole, in quanto posto in essere delibera-
tamente o per inosservanza delle regole precauzionali di condotta, ma è altresì ne-
cessario che tale fatto sia antigiuridico.
L‟antigiuridicità, intesa come contrasto di un dato comportamento con
l‟ordinamento giuridico nel suo complesso, costituisce la cartina al tornasole
dell‟illiceità del fatto tipico, la quale si colorerà in maniera diversa a seconda della
presenza o meno nell‟intero ordinamento di una norma, desumibile da qualsiasi
settore del diritto, la quale facoltizzi o renda doveroso quello stesso comportamen-
to preso in considerazione dalla fattispecie penale. Questo ulteriore momento di
conferma del carattere illecito del fatto tipico è funzionale al principio di unità
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dell‟ordinamento, in quanto uno stesso fatto non può essere, al contempo, consen-
tito in un settore e considerato invece illecito in un altro dello stesso ordinamento,
pena la contraddittorietà di quest‟ultimo ed il venir meno di quella non equivocità
dei confini tra lecito ed illecito, posta a garanzia dei cittadini, che costituisce un
contrassegno dello Stato di diritto1. Da questo punto di vista, l‟antigiuridicità de-
finisce i reciproci rapporti di condizionamento tra i vari settori del diritto.
La verifica dell‟antigiuridicità consiste, dunque, nell‟accertare che il fatto pe-
nalmente tipico non sia coperto da una causa di esclusione dell‟antigiuridicità o
causa di giustificazione: si definiscono tali “quelle situazioni normativamente
previste in presenza delle quali viene meno il contrasto tra un fatto conforme ad
una fattispecie incriminatrice e l‟intero ordinamento giuridico”2.
Come si è detto, una causa di giustificazione può essere desunta da qualsiasi
settore dell‟ordinamento; ciò significa che la sua efficacia scriminante si estende
all‟intero sistema giuridico e che, conseguentemente, all‟autore del fatto giustifi-
cato non solo non saranno applicabili le sanzioni penali ma neanche quelle civili
ed amministrative.
Va precisato che l‟espressione “cause di giustificazione” non è presente nel co-
dice Rocco, ma è stata elaborata dalla dottrina; ciò si spiega in quanto il legislato-
re del 1930 ha scelto di raggruppare sotto la più generica espressione di “circo-
stanze che escludono la pena” tutte le situazioni in presenza delle quali il codice
penale dichiara un soggetto non punibile3.
In realtà la punibilità viene meno non solo nel caso in cui sussista un‟esimente,
ma anche in presenza di una causa di esclusione della colpevolezza (o scusante)
ovvero di una causa di non punibilità in senso stretto, anch‟esse categorie di ela-
borazione dottrinale.
E‟ necessario sottolineare la distinzione tra queste categorie, la quale non ha
soltanto valore teorico bensì anche pratico, in quanto solo in presenza di una causa
di giustificazione viene meno l‟antigiuridicità e dunque il contrasto di quella data
1
Nello stesso senso G. MARINUCCI, voce Cause di giustificazione, in Dig. disc. pen., vol. II,
Torino, 1988, 132.
2
G. FIANDACA – E. MUSCO, Diritto penale, Parte generale, Bologna, 2007, 249.
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Il legislatore del 1988, nel riformare il codice di procedura penale, ha invece accolto la cate-
goria delle “cause di giustificazione” quale fattore di esclusione della responsabilità penale a ca-
rico del soggetto agente: vedi artt. 273, comma 2; 464, comma 5; 530, comma 3, c.p.p.
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condotta con l‟ordinamento, laddove sia le scusanti che le cause di non punibilità
in senso stretto non elidono l‟antigiuridicità ma fanno venir meno, rispettivamen-
te, la possibilità di muovere un rimprovero all‟autore del fatto e la necessità o la
meritevolezza della pena.
La ricerca e la comprensione del fondamento sostanziale della legittima difesa
hanno diviso la dottrina penalistica in due fronti: l‟uno propendente per un model-
lo esplicativo di tipo monistico per il quale le esimenti sarebbero da ricondurre ad
uno stesso principio, come ad esempio il giusto contemperamento tra interesse e
contro interesse; l‟altro per un modello di tipo pluralistico che riconduce le esi-
menti a principi diversi quali ad esempio l‟interesse prevalente e l‟interesse man-
cante, il primo dei quali spiega le scriminanti come l‟esercizio di un diritto,
l‟adempimento di un dovere, la legittima difesa e l‟uso legittimo delle armi, il se-
condo invece spiega le restanti due del consenso dell‟avente diritto e dello stato di
necessità. Tuttavia, non è contestabile che ogni scriminante presenti degli elemen-
ti peculiari che la caratterizzano e differenziano rispetto alle altre, pur senza di-
sconoscere che vi sono principi ad esse comuni; si comprende allora per quale
motivo la dottrina prevalente opti per il modello esplicativo di tipo pluralistico4.
La disciplina delle cause di giustificazione è contenuta negli articoli 55 e 59 del
c.p., i quali dettano delle regole comuni a ciascuna di esse. Secondo l‟art. 59, pri-
mo comma, “Le circostanze che … escludono la pena sono valutate a favore
dell‟agente, anche se da lui non conosciute o da lui per errore ritenute inesisten-
ti”. Sulla base di tale disposizione la prevalente dottrina italiana5 sostiene che le
cause di giustificazione contenute nella parte generale del codice abbiano una ri-
levanza meramente obbiettiva, nel senso che sono valutate a favore dell‟agente
per il solo fatto di essere oggettivamente presenti ed a prescindere dalla consape-
volezza che di esse abbia il soggetto agente. Si tratta, in sostanza, di condizioni
obbiettive accertabili da un osservatore esterno; così, ad esempio, il reato non sa-
rebbe integrato nell‟ipotesi in cui Tizio spari a Caio senza rendersi conto che nello
stesso istante Caio sta per sparare a lui, non essendo, dunque, consapevole di tro-
4
Cfr. G. FIANDACA – E. MUSCO, Diritto penale, cit., 251 s.
5
Così come riportato da G. FIANDACA – E. MUSCO, Diritto penale, cit., 253, nota n. 7:
F. ANTOLISEI, Manuale di diritto penale, Parte generale, Milano, 1994, 245; A. PAGLIARO,
Principi di diritto penale, Parte generale, Milano, 1987, 464; C.F. GROSSO, Difesa legittima e
stato di necessità, Milano, 1964, 237; ID., L‟errore sulle scriminanti, Milano, 1961, 115 ss.
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varsi di fronte all‟imminenza di un pericolo che rende necessaria la sua reazione
difensiva.
La legge attribuisce talora rilevanza agli stati psicologici, ai fini della sussi-
stenza di una causa di giustificazione, in relazione alle scriminanti speciali, appli-
cabili cioè soltanto a talune figure di reato; si veda ad esempio l‟esimente della re-
azione agli atti arbitrari del pubblico ufficiale prevista dall‟art. 4 del d.l. lt. 14 set-
tembre 1944, n. 288.
L‟ultimo comma dell‟art. 59 stabilisce che: “se l‟agente ritiene per errore che
esistano circostanze di esclusione della pena, queste sono sempre valutate a favo-
re di lui”. Ciò significa che il codice attribuisce rilevanza anche al putativo ai fini
della configurabilità delle scriminanti, per cui queste opereranno non solo quando
siano effettivamente esistenti ma anche quando siano ritenute erroneamente tali
dal soggetto agente. Tuttavia tale errore non ha una rilevanza indiscriminata; esso,
infatti, è soggetto alla disciplina dell‟errore di cui all‟art. 47 del c.p., per cui ai fini
della sussistenza della scriminante l‟errore deve cadere o sui presupposti di fatto
che definiscono la causa di giustificazione oppure su di una norma extrapenale
dettante un elemento normativo della fattispecie esimente. Non è, invece, rilevante
l‟errore (inescusabile) di diritto che determina nell‟agente la convinzione di ope-
rare in una situazione rientrante tra quelle cui l‟ordinamento attribuisce efficacia
scriminante, in ossequio al principio generale, ignorantia legis non excusat, di cui
all‟art. 5 del c.p.
Posto tutto ciò, affinché l‟esimente possa operare, l‟errore deve possedere una
certa caratteristica che consiste nella sua scusabilità, è cioè necessario che l‟errore
non sia imputabile a colpa dell‟agente perché in tal caso, sempre secondo l‟art. 59
c.p., ultimo comma, “la punibilità non è esclusa, quando il fatto è preveduto dalla
legge come delitto colposo”.
Resta da esaminare l‟art. 55 il quale disciplina l‟eccesso colposo: “Quando, nel
commettere alcuno dei fatti preveduti dagli artt. 51, 52, 53 e 54, si eccedono col-
posamente i limiti stabiliti dalla legge o dall‟ordine dell‟autorità ovvero imposti
dalla necessità, si applicano le disposizioni concernenti i delitti colposi, se il fatto
è preveduto dalla legge come delitto colposo”.
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L‟eccesso colposo si ha quando, sussistendo i presupposti di fatto di una causa
di giustificazione, si ritiene in virtù di un errore dovuto a colpa di agire entro i li-
miti del consentito; dal momento che la rappresentazione erronea della situazione
concreta è imputabile, a titolo di colpa, all‟agente, la sua responsabilità non viene
meno se il fatto è previsto dalla legge come delitto colposo.
Il superamento dei confini della scriminante può dipendere da una errata valu-
tazione della situazione di fatto, in conseguenza della quale il soggetto agente ca-
giona volutamente un certo evento, il quale però, da un punto di vista oggettivo,
va al di là di ciò che la scriminante gli consente; ovvero l‟errore può cadere sui
mezzi o le modalità di esecuzione del fatto, per cui si cagiona un evento più grave
di quello che sarebbe stato lecito cagionare. Nell‟uno come nell‟altro caso, è ne-
cessario che nell‟intenzione dell‟agente vi sia sempre stata la volontà di “realizza-
re quel fine che nella situazione concreta rende giustificato il comportamento, e
che per un errore vincibile … si realizza un evento sproporzionato rispetto a quel-
lo che sarebbe stato invece sufficiente produrre”6; diversamente, nell‟ipotesi in
cui l‟agente, rappresentandosi correttamente la situazione concreta, ecceda volon-
tariamente i limiti dell‟esimente non ricorre più la figura dell‟eccesso colposo e la
sua responsabilità penale gli verrà imputata a titolo di dolo, dal momento che
l‟eccesso risiede nel fine perseguito, che è quello di porre in essere un comporta-
mento che travalica i limiti del consentito7. Ad esempio Tizio, aggredito ingiu-
stamente da Sempronio con delle percosse, preferisce ferirlo con un‟arma da fuo-
co quando, per difendersi, sarebbe bastato rispondere alle percosse con altre per-
6
G. FIANDACA – E. MUSCO, Diritto penale, cit., 256.
7
Cfr. Cass. pen., Sez. I, 24 settembre 1997, n. 4781: “I presupposti essenziali della legittima di-
fesa – scriminante ammessa nei confronti di tutti i diritti, personali e patrimoniali – sono costituiti
da una aggressione ingiusta e da una reazione legittima; mentre la prima deve concretarsi in un
pericolo attuale di un offesa che, se non neutralizzata tempestivamente, sfocia nella lesione del
diritto, la seconda deve inerire alla necessità di difendersi, alla inevitabilità del pericolo e alla
proporzione tra difesa e offesa. L‟eccesso colposo sottintende, a sua volta, i presupposti della
scriminante col superamento dei limiti a quest‟ultima collegati; per stabilire se nel commettere il
fatto si siano ecceduti colposamente i limiti della difesa legittima, bisogna prima identificare i re-
quisiti comuni alle due figure giuridiche, poi il requisito che le differenzia: accertata la inadegua-
tezza della reazione difensiva, per eccesso nell‟uso dei mezzi a disposizione dell‟aggredito in un
preciso contesto spazio-temporale e personale, occorre procedere ad una ulteriore differenziazio-
ne tra errore dovuto ad errore di valutazione ed eccesso consapevole e volontario, dato che solo il
primo rientra nello schema dell‟eccesso colposo delineato dall‟art. 55 c. p., mentre il secondo
consiste in una scelta reattiva volontaria, la quale certamente comporta il superamento doloso
degli schemi della scriminante”.