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INTRODUZIONE
Negli ultimi anni si è sempre più spesso sentito parlare di società della conoscenza. Questo
concetto presenta numerose sfaccettature nelle diverse sfere sociali in cui viene applicato;
tuttavia in generale indica una società che basa il proprio sviluppo e le proprie decisioni
sull’avanzamento del sapere. È un modello astratto, ancora ben lontano dall’essere
realizzato: l’Unione Europea è stata finora l’organizzazione che con più vigore e convinzione
ha portato avanti questo progetto e lo ha percorso seguendo due strade principali. Da una
parte incentivando l’istruzione e valorizzando coloro che acquisivano competenze sempre
più specifiche; dall’altra incoraggiando un connubio proficuo tra scienziati e decisori, sia
pubblici sia privati.
Per il loro oggetto di studio, gli scienziati sociali sono stati fin dall’inizio coinvolti in questo
tipo di progetto. Si pensi, ad esempio, alla Scuola di Chicago e in generale all’approccio
statunitense alla sociologia: per loro questa disciplina non aveva le finalità teoriche che
aveva in Europa, ma doveva essere un valido sostegno su cui i programmi sociali dovevano
basarsi. La Scuola di Chicago, in particolare, si avvaleva dell’osservazione come strumento
principale per indagare le dinamiche sociali. Tuttavia i suoi membri si limitavano a registrare
i fenomeni sociali e a comunicarli ai decisori competenti, i quali progettavano i relativi
interventi. Prima di estendere tali interventi a tutta la popolazione interessata, era
necessario testarne gli effetti. C’era un unico metodo d’indagine che poteva permetterlo: la
sperimentazione.
La sperimentazione sociale, nata nelle scienze naturali e da queste passata alla biologia per
poi approdare alle scienze sociali, fu dapprima applicata in psicologia dove ebbe, ed ha
ancora, come ambientazione principale il laboratorio. Questo tipo di sperimentazione,
tuttora molto utilizzato, ebbe fortuna specialmente nel periodo in cui si cercava di elevare le
scienze sociali allo stesso piano di quelle naturali.
Da una parte l’influenza della psicologia portò ad avvalersi dell’esperimento di laboratorio,
che appunto appariva come una strada per eguagliare i risultati raggiunti nelle scienze
fisiche. Dall’altra, però, la biologia aveva allestito le proprie sperimentazione sul campo e
sembrava naturale, quindi, che questa ambientazione potesse essere lo sfondo della
sperimentazione sociale, dando vita all’esperimento sul campo.
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L’esperimento sul campo dava al ricercatore un controllo della situazione e dei fattori
appartenenti all’ambiente ancora minore di quello, già scarso, che si aveva con
l’esperimento di laboratorio. Comportava, inoltre, maggiori problemi dal punto di vista
strettamente tecnico. D’altra parte, però, permetteva di evitare alcune questioni etiche che
l’esperimento di laboratorio suscitava: il controllo di un gruppo di individui da parte di
scienziati che sperimentavano fenomeni sociali rimandava a certe brutte immagini della
prima metà del Novecento che i neonati stati democratici volevano dimenticare.
Con il tempo è stata data una formalizzazione scientifica alle tecniche di cui avvalersi, tanto
che oggi un ricercatore che si accinga a fare un esperimento sul campo può scegliere il
disegno sperimentale più adatto allo scopo della sua indagine. Sono stati affrontati, anche se
non sempre risolti, i problemi relativi alla scelta dei soggetti su cui si svolgeva l’esperimento
e il criterio da usare in questa scelta, il modo in cui questo intervento andava introdotto o
somministrato, la tecnica per interpretarne le reazioni e le conseguenze, ecc. Con questi
mezzi sono stati testati numerosi programmi e interventi, in molte sfere della vita sociale:
programmi educativi nelle scuole, miglioramenti delle condizioni di vita degli operai nelle
fabbriche, politiche abitative per le classi disagiate, ecc.
Nel primo capitolo affronto sinteticamente la nascita della sperimentazione e il suo approdo
alle scienze sociali passando attraverso l’esperimento biologico. Addentrandomi poi nella
sperimentazione sociale, tratto dei problemi che questa comporta da due punti di vista,
tecnico e morale. Gli aspetti metodologici del problema saranno affrontati nel corso
dell’intero elaborato. Nel primo capitolo mi concentro sul concetto di validità e sulla sua
applicazione tanto ai disegni sperimentali quanto agli strumenti utilizzati. Nel secondo
capitolo descrivo le classificazioni che i vari autori hanno fatto tra gli esperimenti sociali,
partendo dalla classificazione in base all’ambientazione che li distingue in esperimenti di
laboratorio e esperimenti sul campo. Mi soffermo quindi sulla sperimentazione di
laboratorio, sui pregi e i difetti che essa annovera e sui vari disegni sperimentali che sono
stati approntati. In seguito tratto della distinzione, operata da Donald T. Campbell, tra
esperimenti e quasi - esperimenti e di quella basata sulla dimensione temporale che
classifica gli esperimenti in disegno trasversale, progettato ed ex post. Nel terzo ed ultimo
capitolo mi concentro sulla tematica centrale del presente elaborato, la sperimentazione sul
campo. Dopo aver affrontato le questioni attinenti le procedure metodologiche, mi soffermo
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sui vari tipi di disegni sperimentali, distinguendoli in due macro categorie: nonequivalent
groups designs e interrupted time series designs. Concludo affrontando la questione della
collaborazione tra scienziati e operatori sociali.
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CAPITOLO 1: L’ESPERIMENTO
1. LA NASCITA DELL’ESPERIMENTO E LA SUA APPLICAZIONE ALLE SCIENZE NATURALI
L’esperimento viene definito come una forma di esperienza su fatti naturali che si realizza a
seguito di un deliberato intervento modificativo da parte dell’uomo; si contrappone, quindi,
per definizione all’osservazione dei fatti nel loro svolgersi naturale. L’esperimento si
configura, infatti, come un tipo di osservazione in condizioni controllate dall’osservatore, ed
è impiegato quando la semplice osservazione non permette da sola di cogliere i nessi causali
tra i fenomeni. La differenza tra osservazione ed esperimento in molti casi non è ben
definita; si può considerare un esperimento come tale quando si ha un evidente intervento
da parte del ricercatore per modificare la situazione iniziale.
La sperimentazione nasce nel campo delle scienze naturali, dove fin dal XVII secolo venne
definito, applicato ed eletto a principale strumento di conoscenza scientifica da Galileo, che
lo pose alla base della verifica delle ipotesi. Infatti, alla base di ogni sperimentazione c’è
un’ipotesi formulata in conformità a una presunta connessione tra due o più fenomeni. Le
ipotesi guidano la ricerca e solitamente discendono da una teoria. Uno dei principali pregi di
questo metodo come verifica è dato dal fatto che essa può essere svolta da più operatori, in
modo tale da abbassare il rischio di distorsioni. La sperimentazione si basa quindi
sull’osservazione di una situazione in cui si fa variare una sola variabile, in modo che le altre
mantengano le stesse condizioni. Infatti, se si lasciassero variare due o più variabili
contemporaneamente non sarebbe possibile né stabilire quale di queste è la causa di un
certo fenomeno, o se tale fenomeno viene meno, quale di esse lo ha neutralizzato.
Nonostante l'uso dell’esperimento come metodo di ricerca risalga al XVII secolo, è il XIX
quello in cui si è avuta la sua sistemazione disciplinare. La prima preoccupazione fu la
predisposizione di tecniche per aumentare il controllo delle condizioni sperimentali; quando
poi la sperimentazione valicò i confini delle scienze naturali per entrare nel campo della
biologia si ebbe uno spostamento dal laboratorio al campo. Le prime applicazioni in campo
biologico riguardavano l’agricoltura: la maggior parte degli esperimenti studiava le
condizioni di maggiori produttività del terreno. Questa trasposizione implicò diversi tipi di
adattamenti: non solo questo tipo di indagine nella maggior parte dei casi non poteva essere
eseguita in laboratorio, ma l’oggetto di studio cambiava radicalmente e se ne doveva tenere
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conto. I terreni, infatti, differiscono tra loro secondo varie caratteristiche (cosa che non
accade con i tipici oggetti di studio delle scienze fisiche) e per questo furono introdotte le
prime tecniche di campionamento, che per il campo biologico si basavano esclusivamente
sulla casualità. La randomizzazione è un elemento chiave per l’inferenza in quanto permette
di considerare tutte le condizioni uguali per tutti i casi (ceteris paribus). L’esperimento in
agricoltura, quindi, si basava su un campionamento casuale di terreni, su cui poi si applicava
un trattamento (un nuovo fertilizzante, certi tipi di semi, etc.) per poi osservarne i risultati.
Sono questi gli antecedenti della sperimentazione sociale. In seguito, per distinguere gli
effetti del trattamento da quelli che si sarebbero ottenuti anche senza di questo, si decise di
utilizzare dei campi simili a quelli sperimentali sui quali non si applicava il trattamento. I
risultati ottenuti nei due tipi di campi venivano poi comparati per rilevare quali degli effetti
erano dovuti esclusivamente al trattamento: anche questa tecnica verrà poi utilizzata, con i
dovuti aggiustamenti, anche nelle scienze sociali.
2. L’ESPERIMENTO NELLE SCIENZE SOCIALI
Dopo essersi consolidato come principale metodo di ricerca sia nelle scienze fisiche sia in
quelle biologiche, l’esperimento ha cominciato a essere utilizzato nelle scienze sociali, e in
particolare nella psicologia. Fin dai tempi di Auguste Comte, infatti, scienziati sociali e
psicologi hanno cercato di basare queste nascenti discipline sulle stesse basi su cui
poggiavano e poggiano tuttora le discipline naturali. Per Comte1, tuttavia, non era necessario
né auspicabile che fosse un attore cosciente (osservatore e/o ricercatore) a modificare la
situazione sperimentale. Egli preferiva, infatti, avvalersi del cosiddetto esperimento
naturale: studiava i casi in cui il regolare svolgersi di un fenomeno veniva modificato o
ostacolato da qualche variabile non introdotta dallo scienziato; questi casi erano dei veri e
propri esperimenti indiretti in cui forze sociali avevano effetti sulla società. E’ evidente
l’influenza della biologia, delle conoscenze raggiunte e dell’uso che questa faceva
dell’esperimento all’epoca. Tuttavia ci si rese ben presto conto che non era possibile affidarsi
esclusivamente agli esperimenti naturali per verificare le proprie ipotesi, data la difficoltà a
trovare situazioni sperimentali relativamente isolate adatte a tale scopo, a riconoscerle e a
osservarle in maniera appropriata.
1
Ferrarotti Franco, Comte. Antologia di scritti sociologici, Bologna, il Mulino, 1977, pag.22
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Inoltre l’espansione industriale e occidentale restringeva e restringe sempre di più i casi di
isolamento per quanto riguarda la diversità culturale e di organizzazione sociale. Si passò
quindi gradualmente all’allestimento di esperimenti controllati dagli scienziati sia nelle
condizioni sperimentali sia nel fenomeno di cui si volevano studiare le cause e/o gli effetti.
L’esperimento biologico fungeva da modello per le tecniche da utilizzare: l’assegnazione
casuale, il trattamento, l’uso del gruppo di controllo. Queste condizioni erano più facilmente
attuabili in un laboratorio piuttosto che sul campo e per questo le prime sperimentazioni vi
ebbero luogo.
3. LA QUESTIONE MORALE
L’introduzione di questo tipo di esperimento portò a una serie di critiche che resero
necessaria un’accurata progettazione metodologica di tali esperimenti. Oltre alle obiezioni
strettamente metodologiche, una serie di problemi di ordine morale e di regolamenti
legislativi limitava il tipo di ipotesi sottoponibile a esperimento e le sue modalità di
realizzazione. Mentre nelle scienze naturali, infatti, avendo a che fare con oggetti inanimati
questi problemi non erano mai sorti, le scienze sociali avevano come oggetti di studio
principalmente esseri umani: in certi casi, l’affidamento del controllo di un gruppo di
individui a uno scienziato o gruppo di scienziati era ed è considerato moralmente riprovevole
e giuridicamente sanzionabile perché va contro i diritti dell’uomo. Questo tipo di critiche
sorsero nella seconda metà del Novecento; dopo la scoperta delle sperimentazioni fatte dai
regimi totalitari nei cinquant’anni precedenti in violazione dei diritti umani, i regimi
democratici vollero prendere le distanze da questo metodo d’indagine. Certi atti che erano
magari anche sinceramente mossi da intenti puramente scientifici e sperimentali erano (e
sono) comunque considerati criminali e quindi perseguiti. 2
In sintesi, mentre la sperimentazione su oggetti inanimati non ha mai provocato nessuna
obiezione, quando i casi di studio erano esseri umani la società (fortunatamente) reagiva
attraverso l’opinione pubblica o con le apposite istituzioni, quando queste esperienze
andavano contro certi principi. Questo problema non è stato del tutto superato: è tuttora
molto difficile identificare la linea che separa i metodi e i soggetti di sperimentazione
permessi da quelli vietati, anche perché con il tempo i casi che suscitano questioni morali
2
Chapin, F. Stuart : Experimental Designs in Sociological Research, USA, Harper & Brothers, 1947