INTRODUZIONE: Avvento di un Nuovo Senet
Quando si parla di videogiochi, incombe sempre il rischio di una dura
reclusione negli anfratti più bui della cultura, in quella che di norma viene
volgarmente definita “popolare”. Questo perché i giochi non sono
assolutamente degni di essere considerati qualcosa di potentemente
evocativo, capaci di veicolare messaggi e forze che definirei sovrannaturali,
quanto invece delle mere forme espressive ritenute inferiori a cardini sociali
quali la letteratura, il cinema e l’arte tout court; passatempi per nerds,
asociali stereotipi che masticano estasiati la luce della tecnologia. Così
facendo, tali artefatti vengono brutalizzati da chi li ritiene che in fondo non
siano nient’altro che giocattoli infantili, sperimentati voracemente da chi
affetto da una costante Sindrome di Peter Pan.
Viene da ridere, pensando che nel 3500 A.C. in Egitto fosse molto in voga un
gioco da tavolo capace di porsi oltre a una semplice nozione di “gioco”, e di
ergersi invece ad una delle esperienze più antiche mai ricordate e al
contempo oggi dimenticate. Il Senet, un insieme di piccole sculture e
materiali, il cui funzionamento, di estrema importanza per la società di quei
tempi, nascondeva nelle sue procedure la raffigurazione del ponte tra il
mondo dei vivi e l’aldilà. La sua presenza nel Libro dei Morti ne lascia ben
intendere la potente carica spirituale, un incantesimo che raccoglieva nelle
sue regole una forza superiore ad una semplice rappresentazione della vita e
della morte, un potere simbolico trasmutato piuttosto a totem della
trascendenza corporea: chi voleva trasmigrare nel regno ultraterreno, doveva
prima giocare contro un avversario invisibile per potervi accedere. Il Senet è
una sorta di leggenda nel game design, una favola oscura e indicativa di
terribili fatalità: le sue regole sono andate perdute e il suo messaggio è finito
letteralmente nella Duat, nell’oltretomba della dimenticanza: “senza le regole,
il gioco non può parlare, e il suo messaggio [...] è andato. Senet, senza le sue
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regole, è solo una collezione di pezzi graziosi”.
Perché tutto questo è connesso all’odierno game design? Semplice: noi ci
accontentiamo della superficie, preferiamo non scavare appresso alle radici e
non vogliamo sporcarci le mani con puerili frivolezze fanciullesche.
Desideriamo solamente osservare una facciata, ciò che appare e non ciò che è
nascosto sotto discorsi inerenti la pratica videoludica nella cultura e nella
società. Questa tesi cercherà quindi di avvicinarsi alla fine del baratro,
laddove il moderno Senet cerca di emergere con splendore e immaginazione. Il
videogame è oramai ben insito nella cultura sociale del nostro tempo: i mondi
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Humble, Rod. “Game Rules as Art” 2006 www.escapistmagazine.com
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online non lasciano scampo a nessuno, le partite in multiplayer sono sempre
fonte di eccitamento e di passione, tanto che anche le donne, un tempo abili a
sentenziare l’inutilità di tali “bambinate”, paiono riscoprire oggigiorno i
piaceri della ludica virtualità. Accademici dei campi più variegati continuano
a interrogarsi sull’effettiva forza sociale dei games digitali, sulla loro carica
liberatoria e al contempo ingannatoria: “si, gioco solo altri cinque minuti, poi
smetto”. Ma quando mai? Chi vuole rompere l’integrità del “cerchio magico”?
Ci siamo dentro, del tutto ingabbiati nelle fauci della follia videoludica e dei
suoi piaceri così insensati e così dannatamente invitanti.
Tuttavia a volte l’accademia deraglia dal suo oggetto, finendo obliterata dalla
mancanza di passione, accecata dai propri termini e dalle proprie teorie
“rivoluzionarie”: i giochi sono narrazione, i giochi sono simulazioni, i giochi
sono mondi che sfuggono alla materia per approdare alla pervasività
dell’immaginario immateriale. Ma se il reale potere di questi artefatti
tecnologici non fosse altro che nei propri meccanismi? Nelle sfide che ci
pongono davanti? Se narrazione, simulazione, mondi, e giochi, non fossero
altro che un’olistica convergenza esperenziale? Se tutto non fosse che
un’illusione, un controllo fasullo adorato da noi perché finalmente abbiamo
davvero il dominio di qualcosa? Sono tutte domande prive di risposta, colme
altresì di suggestioni ed ipotesi, di potenti conflagrazioni di teorie e studi, che
passano dalla psicologia all’antropologia, dall’informatica alla semiotica; tante
discipline, per qualcosa di così ingenuo?
Il mio scopo è quello di navigare in acque profonde, negli abissi del ludo
digitale, con la speranza di trovare l’Atlantide da cui questo riemerge a
novello messaggero della fantasia, resa immagine su schermo. Ma
attenzione, non ci troviamo davanti a una bella fotografia: il dinamismo
invoca il controllo da parte di qualcuno, quindi non lasciamolo alla mercé di
chi trafuga nei corpi pixellosi ammassati sotto la società. Accogliamolo invece
nelle mani di chi si adopera a creare i nostri Paesi delle Meraviglie.
Se vogliamo davvero capire come i videogiochi assolvano al loro potere,
dobbiamo allora fare quattro chiacchiere con chi s’impegna a crearli, a
renderli impressionanti meccanismi di piacere, dalle complesse meccaniche
capaci di avvalorare la nostra espressione personale al loro interno.
Personalmente non trovo sufficiente dedicarsi a disamine transmediali, assai
ricorrenti quando si cerca di inquadrare il videogame in rapporto ad altre
forme espressive: dal mio punto di vista, queste pratiche sono volte ad
osservare la semplice superficie del medium, la sua natura simbiotica che
sovente maschera la sua forza autonoma. Per quanto queste teorie credano,
che così facendo, riescano ad inquadrare la capacità del videogame di farsi
carico di una miriade di aspetti mediali e culturali, esse non sono altro che
cammini secondari, vie con un certo fondamento ma di poco conto quando
vogliamo comprendere realmente di cosa è capace questo medium.
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Nel corso di questo lavoro mi imbatterò in queste suddette metodologie,
poiché se da una parte si mostrano limitanti, dall’altra riescono ad ogni modo
a fornire spunti d’interesse che, tuttavia, rappresentano solo sporadici scorci,
fievoli spiragli sulla forza effettiva ed affettiva di questo medium, autonomo e
personale. Il cammino è scosceso, privo di confini illuminati, quindi occorrerà
farsi carico dei rischi e delle possibilità d’incorrere in contraddizioni:
d’altronde, il videogame stesso è frutto dei suoi paradossi, dato che non
esistono metodologie oggettive e tecniche accertate a riguardo del suo potere
escapista. Quello che possiamo fare però è ascoltare come queste meccaniche
si mettono in moto, dove trovano piena maturazione e dove il giocatore sente
fluire il proprio potere di “agente del caos” nei reami virtuali.
Questa tesi è nata come una ricerca spassionata, ma che ben presto si è
rivelata qualcosa di più: una critica, un manifesto d’intenzioni e di pensieri
travalicanti ogni possibile dissertazione sull’argomento. Pur appostandomi di
nascosto, cercando così di racimolare i pensieri di gente più “in gamba”,
talvolta non potrò fare a meno di criticare, di evidenziare le mie ipotesi e le
mie supposizioni. La creatura videoludica è nata quasi per sbaglio ma ha
continuato a crescere e sempre lo farà, senza mai trovare freni alla propria
corsa; il suo potere risiede nell’interazione, nella passione di colui che
imbraccia il joypad e decide di farsi largo lungo il tunnel dell’immersione e
dell’espressione. Nel corso di questo lavoro si faranno le voci di teorici e
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studiosi avvezzi alla pratica del videoludo, tuttavia, ciò che mi ha sempre
affascinato non sono tanto le parole spese ad elogiarne i meriti in quanto
medium, quanto piuttosto le pratiche messe in atto da parte dei game
designers affinché l’avventura personale del giocatore dia i frutti sperati.
Spesso i demiurghi del virtuale non vengono considerati, o altresì appena
citati per avvalorare i propri discorsi teorici in merito a uno specifico caso in
analisi: io ho preferito evitare queste singole evenienze a favore di una
visione che sia il più possibile onnicomprensiva degli aspetti funzionali,
narrativi, estetici e artistici, cercando in tal modo di dare peso alle mie
opinioni in merito al futuro del medium. Il lavoro delle prossime pagine
potrei ritenerlo come suddiviso in vari strati, che partono dalla superficie,
dall’epidermide del videogame, fino ad arrivare al nucleo dove tutto
incomincia, dove l’esperienza trova le sue radici.
Nel primo capitolo affronterò una disamina sulla nozione di gioco in generale,
ponendo i cardini dettati da Huizinga e Caillois, fautori delle prime ed
esaustive teorie ludiche-culturali, mentre in seguito darò addito ad alcuni
game designers. Successivamente svilupperò una sorta di cartografia, una
mappa tecno-ludica sull’evoluzione del medium, che l’ha visto nascere come
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Tutte le citazioni presenti in questo lavoro sono frutto delle mie traduzioni personali,
qualora non fossero già state tradotte.
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una semplice manipolazione tecnologica, per poi evolversi in quell’artefatto
che oggi conosciamo, generatore di emozioni e di esperienze.
Nel secondo capitolo passerò al tanto acceso dibattito che vede contrapposti
narratologi e ludologi, i due schieramenti accademici che aspirano ad
accaparrarsi una propria autonomia d’analisi sul medium; ciascuno di essi
espone concetti interessanti, davvero ragguardevoli e indicativi dei differenti
angoli di visione sotto cui poter osservare il videogioco. Si potrebbe asserire
che nessuno di essi espone pensieri errati ed al contempo ciascuno mostra i
propri limiti; fallacie che d’altro canto verranno prese in considerazione, ma
alle quali preferirò rispondere implicitamente nel corso del capitolo
conclusivo.
Nella terza e ultima parte infatti, ci troveremo nel nucleo energetico dove gli
atomi del videogame si spezzano per riabilitarsi sotto le mani sapienti dei
game designers: prenderò in analisi il processo di sviluppo sotto un profilo
teorico, illustrando come il lavoro di questi progettisti sia qualcosa di davvero
sfuggente anche all’indagine più attenta. Meccaniche, regole, gameplay e
narrazione assumeranno un altra visione d’insieme, che mirerà a dare
centralità alla vera esperienza d’interazione e all’illusoria libertà concessa ai
giocatori. Senza dimenticare inoltre, come l’arte nel videogame non risieda
nella sua estetica, ma proprio nei suoi processi, nei suoi funzionamenti
basilari capaci di comunicare: che sia forse l’avvento di un nuovo Senet
dell’era digitale?
1.DALL’HOMO LUDENS ALL’HOMO
VIDEOLUDENS
1.1. HUIZINGA
Huizinga è uno storico olandese, o meglio, uno storiografo che combina i fatti
con la narrazione e la teoria: per lui, la storia è una scienza sociale la cui
evoluzione è strettamente connessa a tutte le forme del sapere. Soprattutto,
egli manifesta la predilezione nello studio della coscienza collettiva, nelle
differenti forme di civiltà susseguite nella storia, e della cultura come crogiolo
di fenomeni sociali tra i più disparati, come l'arte e lo sport, il diritto e la
guerra.
La summa della sua concezione culturale si ritrova in HOMO LUDENS, testo
cardine pubblicato nel 1939, che ha avuto il merito di approfondire e di aprire
la strada a uno dei temi ritenuti fino allora marginali da parte degli storici,
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ossia il gioco. La visione di Huizinga è affascinante, procede con gli strumenti
della sociologia, dell'antropologia e dell'etnologia, in un'enfasi interdisciplinare
(seppur, sovente indisciplinata come fa notare Eco (1973) nel saggio
introduttivo al libro) che non distoglie mai il suo sguardo estetico in ogni sua
disamina, giungendo a vedere il gioco come un'innegabile astrazione, una
funzione dotata di senso più antica della cultura stessa, la quale "non nasce
dal gioco, ma si sviluppa nel gioco e come gioco": "la cultura è dapprima
giocata" (Huizinga, J. 2002:54).
Benché il gioco sia visto come superfluo dall'uomo adulto, come un'attività
intrapresa solo una volta che il proprio lavoro è stato compiuto, la funzione
ludica assume portata culturale dal momento che ogni azione umana è
intessuta dal suo spirito: il linguaggio per esempio, strumento primordiale,
permette attraverso il gioco, il continuo passaggio dallo spirituale al materiale
e viceversa: "dietro ogni espressione dell'astratto c'è una metafora, e in ogni
metafora c'è un gioco di parole" (ivi:60).
Gioco come mondo esterno seppur liminale e sovrastante il mondo consueto,
zona d'intima neutralità, derivante dalla libertà di parteciparvi o meno, ma
che una volta all'interno è in grado di fagocitare l'uomo, intrappolarlo nelle
sue spire e ridurre all'oblio il concetto che in fondo è "soltanto un gioco".
All'intensità fa seguito l'estasi della performance; l'esaltazione può catturare
completamente l'essere dell'uomo, il quale pertanto, sarà del tutto rapito da
quell'unità e indivisibilità della realtà ludica, in bilico tra l'ostentazione e il
semplice "scherzo".
L'homo ludens precede l'homo sapiens: il gioco precede l'uomo, e al contempo,
lo plasma fin dalla sua evidenza infantile ponendosi come diletto; l'attività
ludica si presenta quindi come una libera ricreazione, esterna alla vita
"ordinaria", si "svolge entro certi limiti di tempo e di spazio," (ivi:35)
caratteristiche sulle quali l'autore si concentra per rimarcarne la prossimità,
anzi, la confluenza negli eventi sacri e festivi, anch'essi insiti all'interno dei
rispettivi limiti temporali-spaziali. Il gioco si sviluppa in sé, e nel suo
primogenito manifestarsi "permane nel ricordo come una creazione o un
tesoro dello spirito, è tramandato e può essere ripetuto in qualsiasi
momento" (ivi:13). Assunto il cardine della ripetizione, il gioco si fissa come
cultura attraverso la nozione di un mondo fittizio, esso crea ordine
inscrivendosi nelle sue proprie finalità "e realizza nel mondo imperfetto e
nella vita confusa, una perfezione temporanea e limitata" (ivi:65) fondata su
regole, che se non rispettate ne conseguono il crollo: il guastafeste, colui che si
oppone ai precetti dell'attività ludica, è colui che infrange l'illusione, che
toglie l'inlusio (l'essere in gioco). Ne si evince la centralità dell'ordine a cui si
ricollega l'etica che pervade l'attività ludica: la tensione del giocatore a
imporsi, a "risultare superiore", deve sottostare ai limiti prefissati dal gioco, il
quale "vincola e libera" al contempo.
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Il tema competitivo, la natura squisitamente agonistica, è centrale per
Huizinga, in quanto egli la identifica nella cultura arcaica, dove il gioco e la
competizione erano strettamente connesse alla natura rituale e mitica: la
sacra rappresentazione e l'agone festivo sono dappertutto le due forme in cui
la cultura cresce "come gioco" e "in gioco". La gara, come qualsiasi altro gioco,
"è essenzialmente inutile"; tuttavia, è una tensione antitetica fra due gruppi
contrapposti, le cui finalità non sono altro che il conseguimento di stima e
onore: si vuole "riuscire" nel gioco, affermare la propria virtù, "essere
autentico e perfetto nel proprio genere" (ivi:59). Una competizione, che risiede
in ogni branca della cultura comunemente attinente la serietà: nel diritto ("si
può ritrovare in ogni sorta di usanze giuridiche arcaiche la gara per il diritto,
cioè per la decisione e il riconoscimento di un rapporto stabile attorno a un
dato caso") (ivi:96); nella guerra, nella poesia ("quel che il linguaggio poetico
fa con le immagini è un gioco. Le distribuisce in serie stilistiche, vi depone dei
segreti, sicché ogni immagine giocando risponde a un indovinello") (ivi:157) e
di conseguenza nel sapere.
Seppur focalizzato in un'ottica che vede l'avvicendarsi delle svariate forme di
cultura relativamente arcaiche, il gioco si fa fondamento delle invarianti
culturali, ossia delle costanti che si susseguono nel corso delle ere,
sottolineando tuttavia, che con la complessità che la cultura acquisisce,
divenendo questa via via più estesa, la qualità ludica viene regolarmente
sgretolata. L'incessante sistemazione del gioco e delle sue regole, porta a
consacrare lo sport come professione, venendo meno alla spontaneità e
all'armonia che dovrebbe sempre vigere all'interno del gioco (è evidente come
nel procedere della sua analisi, Huizinga si soffermi a più riprese sui concetti
di "bello" "ritmo" e "armonia", non venendo mai meno all'estetica ).
Numerose critiche sono state apportate allo storico olandese, in merito ad
aver trascurato testi che potevano fornirgli una visione più completa per
convalidare o confutare l'esattezza delle proprie teorie, ma soprattutto,
Umberto Eco (1973) ci fa notare nel suo saggio introduttivo alla versione
italiana di Homo Ludens, come egli non sia interessato affatto a dirci quale
sia il gioco e come funzioni, ma al fatto che questo gioco venga giocato. Egli si
attiene più al concetto di "performance" che di "competence", al "play",
l'esecuzione in atto del giocare, più che al "game", la regola che sottostà alla
struttura del gioco, non dimostrando quindi una teoria del gioco, quanto
invece una teoria del comportamento ludico. Parafrasando Eco, egli non
scava in profondità, poiché la mancanza di una coscienziosa ricerca
metodologica ne limita il disegno morfologico, presentandosi come un mero
affresco senza evidenziarne le interconnessioni, risultando in tal modo, una
cornice più coesa alla necessità di Huizinga: citare ciò che ritiene pertinente
alla propria visione piuttosto che porsi in un confronto aperto.
Tuttavia, homo ludens aprì il sentiero verso una dignitosa importanza
paradigmatica del gioco, e poco importa che questo sentiero fosse ancora in
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balia di una certa penombra accademica: Caillois con il testo "i giochi e gli
uomini- la maschera e la vertigine" procede contiguo al passo di Huizinga,
rilevandone le teorie e la particolarità della ricerca, illuminandone le zone
d'ombra ed evidenziandone i limiti metodologici, per arrivare ad ampliare la
sua portata rivoluzionaria .
1.2. CAILLOIS
Nella concezione di Caillois , il gioco assume in sé i termini di libertà, limite e
invenzione: è un atto del tutto spontaneo e indipendente, circoscritto da limiti
spaziali e temporali e regolato da convenzioni che lo astraggono dalla realtà
ordinaria, rendendolo di conseguenza fittizio, un reale illusorio a cui fa eco la
sua incertezza, in quanto "il dubbio sulla sua conclusione deve sussistere fino
alla fine" (Caillois R 2007:23), portando in primo piano la capacità
d'iniziativa dell'uomo, spinto ad operare con libertà d'ingegno ma entro i limiti
imposti.
Molto del suo pensiero procede nella stessa direzione di Huizinga, soprattutto
per ciò che concerne un'analisi puramente formale dell'attività ludica, che
vincola e libera al contempo, fondata sulla spontaneità e sulle sue limitazioni
strutturali e legislative, dalle quali si evince che "il gioco non ha altro senso
che in se stesso, proprio per questo le sue regole sono imperative e assolute:
al di là di ogni discussione" (ivi). Tuttavia, Caillois s'interroga dapprima sul
binomio giochi/cultura e sulla dimensione ludica insita nel sacro. Egli arriva a
definire "lo spirito del gioco essenziale alla cultura" tuttavia "giochi e
giocattoli non sono altro che i residui (di essa)" (ivi:6): se nei tempi antichi,
essi erano ingranaggi delle differenti istituzioni, laiche e religiose, col tempo,
la loro funzione sociale subisce una degradazione che ne isola la pura e
semplice struttura, ormai scevra da ogni carica religiosa e politica.
Caillois non rinnega la liminalità tra il gioco e le istituzioni culturali, tuttavia
"le rispettive attività cui esse presiedono sono irriducibili l'una all'altra, e si
esercitano in campi fra loro incompatibili"; gioco e vita sono antagonisti, in
ogni campo, e poco importa se alcuni principi regolatori possono manifestarsi
al di là, nell'universo confuso e inestricabile dei rapporti umani, poiché la
dimensione ludica è per l'appunto fittizia, sospesa e "priva di materia" (è
un'astrazione riprendendo Huizinga).
Le sue regole, circoscritte nell'universo ludico, diverrebbero azioni non isolate
dalle conseguenze inevitabili interferendo nei rapporti umani della vita reale.
Le regole del gioco sono esclusive della sua dimensione, non devono alludere a
quelle della vita, né simularle o imitarle: la sua caratteristica primaria è il
fatto che non sia produttivo, esso si manifesta di conseguenza in pura perdita.
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In merito alla sua improduttività, Caillois rimarca un altro fattore trascurato
da Huizinga, ossia, il gioco d'azzardo, ritenuto sterile alla cultura dallo storico
olandese, esso comporta comunque un interesse di natura economica, che
sebbene non travalichi la sua improduttività, genera "uno spostamento di
proprietà, ma non una produzione di beni" (ivi:26): rappresenta quella fugace
possibilità di uscire perennemente da una condizione di vita precaria e
frustrante, una sorta di rivincita ludica, di come il "gioco si fa beffe del
lavoro", arrivando in taluni casi a determinare la condizione di una società.
Proprio per queste sue caratteristiche, il gioco d'azzardo è sovente visto come
venefico e negativo dall'opinione comune, qualcosa di sospetto e immorale:
"non si affida al caso la benché minima funzione istituzionale" (ivi:184).
1.3. CLASSIFICAZIONE DEI GIOCHI
La discriminante più importante che Caillois attribuisce a Huizinga è la sua
visione "univoca": l'esperienza ludica è un'insieme di pratiche decisive per la
società umana, e per ciò, essa va approfondita indagandone la molteplice
natura, senza procedere per via astratta (ossia il concetto di gioco puro e
semplice) ma scandagliando ogni sfaccettatura dei diversi giochi e dei diversi
modi di giocare.
Caillois quindi identifica un registro fondato su contrapposizioni e estremi: le
due potenze cardine, sulle quali poggiano le sue suddivisioni, sono
rappresentate dalla paidia e dal ludus. La prima, è la dimensione naturale
del gioco, la sua spontaneità e spensieratezza, la turbolenza che deriva dalla
partecipazione volontaria ed estatica: "è esigenza di distensione e insieme
distrazione e fantasia" (Caillois R. 2007:29). Vigono il chiasso, l'agitazione,
l'ebbrezza del puro divertimento: è in pratica, il motore e l'origine
dell'esperienza ludica.
Il ludus invece è combinazione e calcolo, è l'esigenza di piegare l'universo
della totale distensione a convenzioni arbitrarie che regolano e al contempo
ostacolano il conseguimento del risultato che si ambisce, il quale, non è
individuato nel materiale, sebbene talvolta siano presenti dei premi, ma
risiede dalla prova data di se stessi e nelle modalità di vittoria: il piacere di
venire a capo da una difficoltà ben definita e creata di proposito, che ha come
unico vantaggio l'intimo compiacimento di averla risolta e nient'altro.
Le regole quindi sono le assi su cui poggia la dimensione istituzionale del
gioco, trasformandolo in strumento di cultura fecondo e decisivo. Ludus come
completamento e disciplina della paidia. Queste sono le colonne portanti del
tempio ludico, al cui interno, troviamo le quattro dimensioni dell'agon,
dell'alea, della mimicry e dell'ilinx.
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L'agon è dove "l'uguaglianza delle probabilità di successo viene artificialmente
creata, affinché gli antagonisti si affrontino in condizioni ideali, tali da
attribuire un valore preciso e incontestabile al trionfo del vincitore" (ivi:30): il
merito personale viene puramente manifestato, all'interno di limiti ben
delineati dove non si consegue altro che il successo. L'agon è la massima
rappresentazione del ludus: vincere gli ostacoli, affidandosi solamente sulle
proprie capacità e responsabilità, la padronanza di sé come continuo
raffinamento della propria destrezza, portato avanti con perseveranza e la
volontà d'imporsi sull'altro, vincendo.
Contrapposto all'agon, troviamo l'alea, campo d'azione del destino, assunto
come avversario del giocatore: la soggettività viene abdicata, oscurata da una
sorta che è sia giudice che carnefice della riuscita del gioco. Il tiro del dado, la
pallina della roulette, sono gli strumenti del fato, nella cui neutralità vige
l'ansiosa attesa del giocatore, il fatto che egli debba "stare al gioco" e accettare
la sfida della sorte, come "avversità totale o fortuna assoluta". Si dice addio al
merito personale: ciò che conta è "di porre ciascuno (ogni giocatore) su un
piede di assoluta uguaglianza di fronte al cieco verdetto della sorte" (ivi:
33-34).
Sia nell'agon che nell'alea, Caillois suggerisce che la continua ricerca di
uguaglianza non è altro che un tentativo di sostituire alla normale confusione
dell'esistenza ordinaria, delle situazione ottimali, negate nella realtà,
dall'incertezza insita della vita. Nell'alea è evidente inoltre, meglio che in ogni
altro tipo di gioco, quella costante ludica di essere in "pura perdita":
azzardare, sfidare la sorte, implica già accettare la sconfitta come possibile e
unico bottino, ma sta qui appunto il piacere che deriva nello "stare al gioco".
Il denaro, o qualsiasi altra posta, assume maggiore importanza quanto più si
estende la parte del caso: è il piacere del rischio.
Nella geometria dell'autore francese, il terzo asse è rappresentato dalla
mimicry: mimetismo, evasione, perdita anche qui, ma della propria
soggettività a favore di "altro", da cui ne deriva il piacere del travestimento e
della maschera, dell'assumere una parte. Evidente nel bambino, quando
questo gioca a fare l'adulto, la mimicry travalica qualsiasi confine di età, per
inglobare anche l'uomo, per esempio, nelle manifestazioni teatrali o
fortemente drammatiche. Nella mimicry troviamo ogni aspetto del gioco
tranne l'assoggettamento alle regole, sostituite dall'invenzione perenne, e
dalla continua dissimulazione e ricerca di un'altra realtà: vige unicamente la
sovranità dell'immaginazione atta a compiacere lo spettatore, il quale, si
presterà a un'illusione, che per un determinato periodo di tempo, sarà "un
reale più reale del reale".
Caillois evidenzia come alea e mimicry non possano abbinarsi, poiché "nessuna
imitazione può trarre in inganno la fatalità" (ivi:91), a differenza di come
invece, mimicry e agon possano legarsi dal momento "che ogni competizione è
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in se stessa uno spettacolo" (ivi:92), una rappresentazione costituita dalla
propria liturgia, dai propri costumi, da uno svolgimento talvolta solenne e
prestabilito dove ogni concorrente non desidera tradire le aspettative del suo
pubblico.
L'ultima specie di giochi risiede nella ilinx, ossia nella ricerca della vertigine
per destabilizzare la percezione e abbandonare così la coscienza all'estasi
ludica: un trasporto emotivo che porta l'uomo vicino allo "spasmo" e al
completo smarrimento, talvolta in una sorta di paralisi, talvolta vicino al
furore più sfrenato. La vertigine si trova incompatibile con l'agon, in quanto la
negazione della lucidità si contrappone inevitabilmente con il rigore della
regola, tuttavia, questo caos emozionale può comunque manifestarsi a
contatto con l'alea, sopraggiungendo come conseguenza della volontà
abdicata per lasciare spazio al destino.
Rimane essenziale, alla base dello studio di Caillois, il rapporto tra mimicry e
ilinx: maschera e vertigine, creatrici di un mondo immaginifico, in cui
l'anarchia è tenuta sotto stretto controllo da parte della sola fantasia,
rappresentano la più terribile tra le relazioni, poiché "provoca tali eccessi,
arriva a tali parossismi che nella coscienza allucinata dell'ossesso il mondo
reale viene provvisoriamente abolito" (ivi:99).
L'autore si mostra seriamente intimorito da una simile conseguenza,
giungendo a definire questo connubio come qualcosa, che nella sua forma più
sincera, trascende il semplice gioco per assumere una dimensione sacrale,
come nella pratica dello sciamanesimo; l'uomo è fatto "prigioniero di estasi
ambigue ed esaltanti in cui si crede un dio" (ivi:105), rapito da potenze che lo
annichiliscono, alienandolo verso l'ultraterreno.
Questo regno della pura invenzione e finzione, ha dominato la società fino a
che l'uomo non ha sentito l'esigenza dell'ordine, di liberarsi da questa sorta di
"prigione estatica", guadagnando l'accesso alla civiltà con l'avvento dell'unica
forma che oggi concepiamo ammissibile, ossia quella dell'agon-alea, della
commistione tra merito e fortuna, dove l'agon rimane l'aspetto predominate,
l'unico che abbia realmente un degno valore, contrariamente alla sorte, alla
possessione della maschera e all'estasi vertiginosa.
Tuttavia, l'autore intende precisare che quest'ultima dimensione, regolata e
competitiva, non ha completamente soppiantato la maschera e la vertigine,
perché queste sono sempre e comunque presenti, seppur in maniera
differente, e magari dalla forza affievolita, ma comunque presenti: tutto ruota
attorno a una piattaforma sempre mutevole e instabile, in cui è impossibile
per l'autore, dare il pieno predominio dell'uomo nei confronti del gioco.
Egli può al limite, accettare il gioco, stare al gioco e mettersi in gioco, poiché
la sua carica liberatoria, può esplodere da un momento all'altro, catturando
l'uomo e mettendolo in bilico, sulla vertigine.
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1.4. LA RICERCA DELL'EVASIONE
Ciò che viene esplicato da Huizinga e Caillois è la coestensione del gioco con
la cultura e tra la cultura: le nozioni dei due studiosi sono state fondamentali
nell'attribuire l'importanza dovuta al mondo "fittizio" del ludo e della sua
valenza con quello "reale" della quotidianità, con la realtà comunemente
sentita della "serietà", del lavoro e dello sviluppo individuale e collettivo.
Se lo storico olandese descrive l'homo ludens come precedente all'homo
sapiens, in quanto la cultura viene dapprima giocata, Callois espone il
rapporto d'intrinseca interdipendenza tra la realtà ludica e quella culturale:
se il primo stabilisce che il gioco umano, a differenza di quello del mondo
animale, sia fondato su modalità complesse, dipendenti prevalentemente
dalla trasmissione di invarianti culturali e culturalizzanti, del gioco come
propulsivo a ogni pratica dell'uomo, il secondo espone come le singole forme
ludiche siano residui di una determinata epoca culturale. In sintesi, gioco e
cultura rappresentano le due facce di una stessa medaglia e nonostante le
differenti prospettive, questo sembra essere un preciso dato di fatto. V'è
comunque una interminabile letteratura che si è avvicendata nell'analisi del
gioco, osservandolo da diverse angolazioni e sviluppando, per ogni autore, un
preciso criterio d'analisi. Gregory Bateson (1972), per esempio, ci fornisce una
visione del gioco individuata nella sua essenza "metacomunicativa": dato che
il gioco è qualcosa che "non è quello che sembra", la metacomunicazione, ossia
quel messaggio che ci fornisce un'informazione riguardo a come dovrebbe
essere interpretato un altro messaggio, in tal caso "questo è gioco" (Bateson:
1955-1972), serve a svelare la natura del "come se" del gioco, a svelare la sua
dimensione fittizia e simbolica.
Non è ai fini di questa tesi intercorrere nelle varie disamine attuate da ogni
singolo ricercatore, tuttavia, in Ambiguity of Play (1998), Brian Sutton-Smith
passa in rassegna le svariate teorie ludiche sulla base di sette "retoriche" (del
progresso, dell'immaginario, dell'autonomia, della fatalità, del potere,
dell'identità e della futilità), e di come sulla base di ciascuna di queste,
sussista ogni discorso socioculturale ed empirico che ha esaminato il
fenomeno nel corso degli anni; il testo di Smith si pone quindi come un utile
approccio metateorico, importante per avere una visione generale sulla
complessità delle diverse discipline accademiche, fondate ciascuna su
determinate strutture socioculturali che ne hanno prodotto e determinato i
diversi tentativi di spiegazione dell'attività ludica. Queste sovrastrutture di
riferimento, vengono definite "retoriche" del gioco, facendo riferimento alla
nozione moderna del termine, come discorso persuasivo, compiuto da uno o
più individui col fine di convincere altri sulla base delle proprie
argomentazioni, idee e fantasie. Sulla base di quanto afferma Sutton-Smith,
l'ambiguità del gioco è dovuta alla sua natura sfuggente ad un'univoca
definizione, confinati come siamo a ragionare sull'attività ludica in termini di
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"azione" e di epistemologia senza saper darne una lettura in chiave ontologica
e neutrale, che possa trascendere i differenti paradigmi delle svariate
discipline che si sono interrogate nel corso del tempo: il come ostruisce il cosa.
In questa sede però, trovo più interessante la necessità che spinge l'uomo a
evadere dall'ordinario quotidiano per venire coinvolto nell’Altro; la visione del
gioco, analoga a quella di Huizinga e Caillois, del filosofo Josè Ortega y
Gasset si riallaccia perfettamente a ciò. Emersa nel corso del 1946, da una
serie di conferenze tenute sulla "Idea del Teatro" e poi raccolte nel testo
Meditazioni del Chisciotte (1986), l'idea di Ortega y Gasset si fonda sul
concetto di circostanza, secondo cui la vita è sempre un mondo presente,
quello della realtà quotidiana, dove siamo perennemente impegnati nel dover
fare qualcosa: qui siamo senza poterlo decidere, indipendentemente dalla
nostra volontà, siamo imposti in una realtà circostanziale e a farci carico di
essa, obbligati a capire quali azioni svolgere per vivere.
Sulla base di questo "dover fare", l'uomo cerca di evadere, di creare i suoi
giochi per trovare l'agognato riposo dallo stare alla realtà, ancorato ad essa,
naufrago in questa imposizione il gioco è "l'arma o tecnica elaborata
dall'uomo per sospendere virtualmente la sua schiavitù dentro la realtà, per
evadere, fuggire, sottrarsi a questo mondo in cui vive per rifugiarsi in un
altro irreale" (Ortega y Gasset J. 1986:163). Un sottrarsi alla realtà senza
implicare la morte, versandosi in un altro mondo, in un’oltrevita raggiunta
tramite la diversione. Ciò che non ha senso, parafrasando Ortega y Gasset, è
voler fare di tutta la vita solo del divertimento, perché allora non avremmo da
che distrarci: "Ecco perché la diversion è una delle grandi dimensioni della
cultura” (ivi:164).
Ci rifugiamo nell'irreale per sottrarci al nostro dovere interpretativo della
circostanza ordinaria, realtà vincolata da uno spazio-tempo che stringe
l'uomo ai suoi doveri; per ciò offriamo il nostro stato d'animo al rapimento
ludico, al fine di alleggerire questo peso esistenziale: "il gioco ci rapisce,
giocando siamo per un po' liberati dall'ingranaggio della vita, come trasferiti
su un altro corpo celeste, dove la vita appare più leggera, più aerea, più
felice" (Fink citato in Fulco I. 2006:13). "L’oasi della gioia" di Fink rimanda a
quello "spazio magico" delineato da Huizinga; vige sempre la separazione
dalla realtà opprimente del quotidiano, poiché, sembra rispondergli
Mongardini, "il gioco è l'espressione permanente del bisogno di
semplificazione della complessità della vita quotidiana, di rappresentazione
di una società nella quale prevale una maggiore certezza della norma, una
maggiore uguaglianza e una maggiore giustizia, di espressione di
atteggiamenti (spirito d'avventura, rischio) connaturati all'uomo che spesso
non hanno possibilità di manifestarsi nella vita di tutti i giorni" (Mongardini
C. 1996:184).
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Tuttavia, anche nell'oasi della gioia di Fink sembra aleggiare quella
"incertezza" di Caillois, quello stato incandescente in cui il gioco può
racchiudere in sé il luminoso momento apollineo del libero essere se stessi, ma
anche l’oscuro momento dionisiaco del panico abbandono di sé; il terrore di
scadere "nel demoniaco della maschera", timore condiviso dall'autore
francese, quel rischio che viene drammatizzato nella comune espressione del
"mettersi in gioco".
Accanto a queste affermazioni, possiamo vedere però come il concetto di
"flusso" teorizzato dallo psicologo Mihayl Csikszentmihalyi si presti
perfettamente a questo stato d'animo a se stante dell'universo ludico, senza
però trovare l'inquietudine nei confronti della maschera e dell'estasi: "una
sensazione olistica presente quando agiamo in uno stato di coinvolgimento
totale (...) in cui ci sentiamo padroni delle nostre azioni e in cui si attenua una
distinzione fra il soggetto e il suo ambiente, fra stimolo e risposta" (citato in
Alinovi F.2004:36). Si dimentica quindi il rapporto spazio-temporale,
ingabbiati in quel coinvolgimento sensoriale, che ci pone in uno stato di
"flusso" dove la realtà in cui si agisce e il soggetto agente divengono, in
sostanza, indifferenziabili. Questa "esperienza ottimale", avviene soprattutto
nel caso di attività creative, come la stesura di un romanzo o di un dipinto, ed
è il caso anche di chi è impegnato a fondo in un gioco, in una competizione e in
una prestazione che richiede impegno e capacità da parte dei partecipanti.
Interessante notare come sulla base di questa teoria, Jenova Chen (2006)
della University of South California, utilizzò il concetto "flusso" nella sua tesi
“Flow In Games”, ideando un videogame che funzionasse come metodologia
psicologica applicativa per gli addetti ai lavori: "flOW", nelle intenzioni
dell’autore, avrebbe fornito un "Bilanciamento Dinamico della Difficoltà", un
sistema atto a porre al centro il giocatore, al fine di creare esperienze ludiche
ottimizzate secondo i differenti generi di utenti. Il bilanciamento tra sfida e
capacità, si unisce alla percezione di controllo da parte dell’utente, si lascia
insomma, che sia lui stesso tramite il gioco a entrare nella "flow zone"
attraverso le scelte che opera e la possibilità di scartarne altre. Integrando il
fattore "scelta" all'interno delle modalità di gioco, l’autore ha voluto sostenere
l'importanza primaria del giocatore attorno al quale deve ruotare l'esperienza
ludica in sé.
Con questo ultimo appunto, entriamo nel vivo della questione: il videogioco,
una nuova forma e al contempo una nuova prassi ludica. Benché sia ancora
bistrattato da molti esponenti della "cultura alta", o per meglio dire, ancora
ignorato da un mondo accademico ancorato al passato che solo ultimamente
pare accorgersi del suo valore, è innegabile il suo apporto nella cosiddetta
civiltà della simulazione, quella che ha vissuto e che sta vivendo quella
Rivoluzione Digitale connessa ai processi di informatizzazione della struttura
sociale.
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Come afferma Pecchinenda (2004): "i videogame possono essere considerati
dei veri e propri <<Cavalli di Troia>>, ovvero degli strumenti innocui che
nascondevano invece le loro potenzialità rivoluzionarie". I concetti di
maschera e vertigine delineati da Cailois, così come il "flusso" di
Csikszentmihalyi sono parti costituente e predominanti nei videogiochi, che
hanno dalla loro la forza dell'interattività con cui immergere il fruitore
all'interno dei loro mondi, realtà puramente ludiche ovviamente, liminali al
mondo concreto, ma la cui espansione sembra non conoscere freni, divenendo
ormai parte integrante di una società sempre più in esodo verso la virtualità
del mondo di gioco.
1.5. GAME DESIGNERS: i Druidi del Cerchio Magico
Nei paragrafi precedenti il concetto di gioco è stato scandagliato a dovere
attraverso la disamina delle concezioni di Huizinga, Callois e di altri autori
che si sono interrogati negli anni sulla natura dell'attività ludica. Tuttavia,
se qui volessi intraprendere un'analisi accurata dell'oggetto "gioco" sotto ogni
sua angolazione, rischierei di addentrarmi in una selva oscura, parafrasando
il poeta, fitta di denominazioni, terminologie e varie tassonomie.
Probabilmente, mi ci vorrebbero dieci anni solo per poter metabolizzare tutto
il materiale riguardante il ludo, fino a che, una volta che le mie parole
cominceranno a ritagliarsi il proprio spazio sulla carta, nulla resterà di
quell'incredibile "cerchio magico", se non dei semplici resoconti accademici. In
questa sede si tratta il videogame e la sua evoluzione, ma più precisamente,
nel corso di queste pagine, arriverò a quel processo affascinante chiamato
game design. Ritengo quindi sia doveroso, smettere di masticare i pensieri di
illustri antropologi e illuminanti psicologi, per invece dedicarmi ad esplorare
il gioco sotto le direttive di chi passa le notti a spremere la propria creatività
fino allo sfinimento: i game designers, o in altri termini, "le divinità di un
universo (il videogioco)" che creano "il programma (che) corrisponde al Verbo
[...] cui hanno avuto accesso solo alcuni sacerdoti o saggi (i giocatori esperti)
che sono pertanto in grado di interpretare e coadiuvare i nuovi venuti nella
loro avventura" (Pecchinenda G. 2004:120).
Nessuno di questi demiurghi è uguale all'altro, ciascuno ha i propri pensieri
su ciò che concerne l'attività ludica, per cui considererò solo alcuni di loro, ma
certamente i più decisivi a voler condividere i propri pensieri con i loro umili
sudditi. Parto quindi da Chris Crawford (1982), uno dei primi, se non il primo
in assoluto, ad aver voluto esplorare il sentiero del ludo in quel suo seminale
trattato, "The Art of Computer Game Design", primo testo effettivo dedicato
allo studio e alla pratica della creazione dei giochi digitali. Dopo aver passato
in rassegna vari tipi di giochi, Crawford arriva a stabilire quattro istanze
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caratteristiche: rappresentazione, interazione, conflitto e sicurezza. Per
rappresentazione, s'intende "un sistema formale chiuso che soggettivamente
rappresenta un sottoinsieme della realtà" (Crawford C. 1982:7): sistema,
perché un gioco è una collezione di parti interagenti tra loro, spesso in modi
complessi; "formale" perché retto da regole esplicite; "chiuso" significa che è
completo ed autosufficiente, proprio per via delle sue regole che dovrebbero
sempre coprire tutte le contingenze incontrate.
Una rappresentazione soggettiva, invece, si riferisce alla percezione del
giocatore, che modella l'esperienza ludica con la forza della propria fantasia: "i
giochi sono oggettivamente irreali perché non creano fisicamente le situazioni
che rappresentano, eppure sono soggettivamente reali al giocatore (ivi:8).
Collegato a questo, è il concetto di sottoinsieme della realtà, poiché il gioco è
progettato da un designer, che si è focalizzato solo su determinati aspetti
importanti per comunicare un precisa porzione del reale: se questo
sottoinsieme fosse più esteso, il designer fallirebbe poiché l'esperienza che
crea indurrebbe confusione nella mente del giocatore, trovandosi di fronte a
qualcosa di quasi indistinguibile dalla vita stessa.
L'istanza dell'interazione, è la forma più evoluta di rappresentazione, in
quanto permette a chi gioca di esplorare i rapporti di causa/effetto da
differenti punti di vista; per esempio, storie e giochi, ci dice l'autore, sono
sostanzialmente differenti, poiché le prime presentano una sequenza di
eventi immutabili diretti verso una conclusione predestinata, mentre coi
secondi "il game designer crea una complessa rete di vie, abilmente messe
insieme per mostrare al giocatore tutti i possibili aspetti di una singola
verità" (ivi:11). In pratica, il gioco può essere affrontato più e più volte,
generando sempre sorpresa.
Il terzo elemento fondamentale è il conflitto, strettamente connesso alla
natura interattiva dato che il giocatore cerca di raggiungere un obiettivo, ma
viene ostacolato da un agente intelligente che si frappone fra lui e la meta. Il
conflitto è intrinseco all'esperienza ludica, poiché l'unico modo di evitarlo è
eliminare l'illusoria e attiva reazione ai movimenti del giocatore, ossia,
togliendo l'interattività: facendo ciò, il gioco crollerebbe sulle propria
fondamenta. La contesa richiama di conseguenza una possibile sensazione di
pericolo ed un ipotetico danno, ma nel gioco questa evenienza non solo è
scongiurata, ma resa fittizia col potere della fantasia: "il gioco è un modo
sicuro per sperimentare la realtà" (ivi:14).
Tra il gioco e il suo fruitore, siede il game designer, colui che deve giostrare su
questa interdipendenza che si crea tra la sua creazione e l'altro. Per farlo deve
avere pieno controllo del mezzo su cui opera, ossia il computer, strumento
ideale per via di cinque caratteristiche illustrate da Crawford. La flessibilità,
ossia la possibilità di manipolare le variabili della materia digitale, anche
durante la performance ludica; il potere amministrativo, ovvero, il computer
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