Introduzione
Che nella poesia medievale si trovino formulari, strutture e un lessico
appartenenti di diritto all‟epistolografia è stato variamente (seppure, forse,
episodicamente) notato; nel suo volume Versi a un destinatario (Bologna, Il
Mulino, 2002), ad esempio, Claudio Giunta mette in luce come si possano,
senza grandi difficoltà, individuare calchi dal genere epistolare esaminando
testi poetici che spaziano dal volgare delle origini fino al Rinascimento.
Il contatto tra i due generi si può certamente imputare, innanzitutto,
alla limitatezza della lingua poetica volgare delle origini, che forse, per
ampliare le proprie possibilità, si sarà appropriata di elementi pertinenti ad
altri generi. Nel Duecento manca ancora una società letteraria omogenea
che conosca ed attinga a testi in lingua volgare che siano determinati ed
universalmente riconosciuti, con l‟eccezione unica della poesia siciliana; per
il resto, l‟esempio cui rivolgersi è necessariamente quello dei classici, in
particolare la letteratura latina: solo richiamandosi ai testi dell‟antichità si
è sicuri di essere colti dal lettore.
Se l‟epistolografia si insinua in questo processo, in questa ricerca di
testi di riferimento che possano fondare una cultura e una letteratura
volgare, è perché invece essa si presenta come un genere unificato (si
insegna nelle università accanto alla retorica, sulla base di rigide regole) e
conosciuto da tutti, non solo dal letterato che sa impiegarla in latino e nel
modo più compiuto ed armonioso, ma anche da coloro che sono
semplicemente alfabetizzati e che adottano il volgare (ma utilizzano le
stesse norme), perché è un genere legato anche alla praticità, all‟uso, al
commercio, o semplicemente alla figura del cittadino, un ruolo che
certamente acquista una chiara consistenza nell‟età dei Comuni.
Quello che si intende evidenziare con questo studio è come tali riprese
siano, in particolare, ampiamente presenti nelle poesie di quello che è il più
importante autore della letteratura medievale italiana, Dante Alighieri.
Lo stesso Giunta, nell‟articolo Un nuovo commento per le «Rime» di
Dante (in “Paragone”, 81-82-83, 2009, pp. 3-29), afferma:
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Le Rime di Dante non sono ancora, o sono in grado molto minore, lirica che si nutre
di altra lirica. Certo, esistono testi che ricorrono a una topica stilnovista frequentata
anche da Cino e da Cavalcanti. Ma come e più della memoria lirica conta, nella
poesia di Dante, quella che chiamerei memoria culturale: di testi non solo poetici, o
non solo letterari.
L‟idea quindi è che nelle Rime non affiori solo l‟esperienza dei generi poetici,
ma che compaiano anche altre esperienze, come quella epistolare, nel
Medioevo così generalmente posseduta e rigidamente codificata, e perciò
presente di certo anche nella vita di Dante stesso. Come uomo politico, come
letterato, e poi anche come poeta di corte, di certo Dante doveva saper
maneggiare con abilità gli strumenti dell‟ars dictaminis e del cursus,
insomma quella serie di disposizioni retoriche fondamentali per
l‟epistolografia, una disciplina che aveva nel Medioevo una rilevanza nella
formazione dell‟uomo di cultura da non sottovalutare: non è improbabile
dunque che l‟uso di questo tipo di retorica, di stile, di forme abbia
influenzato i suoi componimenti poetici.
Chiaramente, il contatto con il genere epistolare può presentarsi in un
passaggio in particolare, in un verso, in un termine, oppure essere
generalizzato e riguardare un intero testo, e si potrà parlare quindi di poesia
di corrispondenza. In entrambi i casi però si vedrà come l‟epistolografia si è
introdotta nella poesia dantesca, con modalità diverse e risultati diversi,
probabilmente anche per motivi diversi, e sarà interessante considerare ed
analizzare i vari casi in cui questo contatto esiste per trarne delle
conclusioni anche critiche.
Per quanto riguarda il confronto puntuale con i testi epistolari in prosa
si sono presi ad esempio solo testi in volgare, quindi non sono state prese in
considerazione le Epistole di Dante stesso, tutte latine; sono stati utilizzati
sia dei testi epistolari letterari, ovvero le Lettere guittoniane (ed. a cura di
Margueron, Commissione per i testi di lingua, 1990), sia dei testi di tipo più
pratico come i modelli proposti da Fava nei Parlamenti ed epistole e come le
lettere in volgare trascritte e raccolte da Arrigo Castellani nel suo La prosa
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italiana delle origini: testi toscani di carattere pratico (Patron editore,
1982). Per i testi danteschi, il commento di riferimento principale è stato
quello di Domenico De Robertis (Sismel, 2005), con il supporto dell‟edizione
della Vita Nuova a cura di Stefano Carrai (Rizzoli, 2009) per quei testi che
De Robertis esclude in quanto non se ne conosce una redazione precedente a
quella presente nel prosimetro dantesco.
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CAPITOLO 1
Il genere epistolografico nel medioevo italiano: caratteristiche e
relazioni con la poesia.
1.1 Caratteri dell‟epistolografia medievale
L‟epistolografia come genere strettamente legato alla retorica nasce nella
tarda antichità latina: quell‟atto, in principio spontaneo, che spinge a
comunicare per iscritto con un interlocutore assente, si stilizza e retoricizza
sempre più a partire dal IV secolo; il cambiamento in questo senso aumenta
nel momento in cui le singole lettere, o le raccolte, iniziano a venire
sistematicamente pubblicate, trasformando le epistole private in un genere
letterario. La sempre maggiore attenzione alla forma, all‟aspetto estetico di
lettere non più scritte per un singolo destinatario, ma per un ampio pubblico
che le leggerà principalmente allo scopo di trarre godimento letterario dal
sublime uso della retorica da parte dell‟autore, porta allo svuotamento dei
contenuti, secondo un processo che segue abitualmente il radicarsi della
retorica all‟interno di un genere, e che è stato tra l‟altro messo in relazione
1
con l‟autoritario incedere dell‟autocrazia imperiale.
Il fiorire di dettami retorici per quanto riguarda il genere epistolare
avviene nel momento in cui la canonizzazione sistematica delle norme da
una parte, e l‟uso spontaneamente retorico del genere dall‟altra, iniziano ad
interagire influenzandosi reciprocamente: da una parte la trattatistica dà i
precetti e i modelli a chi scrive, dall‟altro essa si procura gli stessi
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guardando alla pratica epistolare già esistente. È in questo modo quindi
che si vanno a costituire alcuni caratteri peculiari della retorica epistolare, i
quali si cristallizzeranno e andranno a riguardare la lettera soprattutto
nella sua struttura e nell‟uso di formule fisse, presenti in particolare in
apertura e chiusura. Tali regole sono caratterizzate proprio dall‟essere molto
precise e ben salde, al punto che i paradigmi retorici delle epistole erano
1
Cfr. Paolo Cugusi, L’epistolografia. Modelli e tipologie di comunicazione, in Lo spazio letterario di Roma
antica, Roma, Salerno editrice, 1989, pag. 383.
2
Ibid.
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dunque più o meno gli stessi di quelli di cui faceva uso Cicerone quando, nel
XIII secolo, Guido Fava decise di trasporle nella lingua volgare.
Maestro di retorica a Bologna, Fava scrisse due importanti opere per la
prosa letteraria volgare: la Gemma purpurea (composta tra il 1239 e il
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1248), trattato di retorica epistolografica in latino dove il volgare emula il
latino nelle sue formule epistolari, e l‟ancora più innovativo Parlamenti ed
Epistole (circa 1243), con il quale si propongono le norme dell‟arte del
comporre lettere (ars dictandi) non più a partire dal latino, ma presentando
una raccolta di componimenti epistolari già in volgare attinenti a varie
occasioni e situazioni, con i quali si forniscono tracce e modelli per le varie
occorrenze del pubblico e del privato.
Come disciplina umanistica, l‟epistolografia aveva nel Medioevo una
rilevanza notevole, che oggi non immagineremmo: le rigidissime tecniche di
elaborazione venivano insegnate all‟università dai maestri del dictamen e
raccolte in trattati e prontuari che venivano in aiuto dello studente; essa era
profondamente legata alla retorica, una disciplina fondante non solo nella
formazione del letterato, ma anche del cittadino dell‟età comunale, in quanto
profondamente connessa all‟ambito giuridico; e Bologna, dove i Parlamenta
vennero pubblicati, era già una rinomata università di studi giuridici e
notarili, oltre che qualificata nell‟insegnamento della retorica e tra i
principali centri di elaborazione dell‟ars dictandi in Europa.
Nel „200 per la prosa epistolare è ancora prevalentemente utilizzato il
latino; costituiscono quindi un‟eccezione rilevante le lettere in volgare di
Guittone d‟Arezzo, e si tratta di epistole letterarie con le quali Guittone
sperimenta il volgare come lingua d‟arte. Porre il volgare sullo stesso piano
del latino era dunque in quel momento un atto di inedita audacia; ed ancora
di più lo era elaborare vari esemplari di testi in latino partendo da un
modello volgare, come fece appunto Fava. Egli anticipò i tempi, fosse anche
solo perché spinto da necessità pratiche, gettando un ponte tra latino e
volgare senza soluzione di continuità tra le due lingue; un primo testo in
volgare era il prototipo per tre diverse redazioni latine (maior, minor,
3
Cfr. Angelo Monteverdi, Le formule volgari di Guido Fava, in Saggi neolatini, Roma, edizioni di Storia
della Letteratura, 1945.
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