Diritti violati e diritti negati a Guantanamo
INTRODUZIONE
Per comprendere appieno che cosa significhi davvero Guantanamo, è necessario
effettuare una sorta di viaggio a ritroso nel tempo. Il carcere cubano altro non è che il
prodotto di un mondo che ha subìto una svolta tanto radicale quanto inaspettata con la
fine della guerra fredda. La linearità del mondo bipolare ha lasciato oggi il posto ad un
pianeta nel quale ha fatto la sua comparsa un nuovo tipo di conflitto: la guerra
asimmetrica, che vede contrapposti uno Stato nazionale come gli Stati Uniti ad un
gruppo a-territoriale come al-Qa’ida che, per il fatto di non appartenere alle categorie
che il mondo occidentale si è costruito, porta con sé una paura decisamente maggiore, la
paura di ciò che non è conosciuto, la paura dell’ignoto.
Guardando la questione da lontano, si può dire che Guantanamo di questa paura è frutto,
così come della mancanza di conoscenza reciproca tra il mondo occidentale e il mondo
musulmano.
Questo lavoro cercherà dunque di partire da una descrizione del mondo post bipolare
come ci viene fornita dalle teorie della Relazioni internazionali, che ci propongono una
nuova struttura con una superpotenza, gli Stati Uniti, e tante grandi potenze, su cui l’11
settembre si abbatterà come un fulmine a ciel sereno, spezzando l’apparente tranquillità
degli anni Novanta e facendo scoprire al mondo una nuova sfida bipolare. Si partirà, per
analizzare la situazione creatasi, dal concetto musulmano che vede contrapposto il Dâr
al-Islâm al Dâr al-Harb.
In queste pagine, grande spazio sarà dato agli Stati Uniti ponendo l’accento in
particolare sulla politica interna e sulla politica estera degli anni Novanta e del dopo 11
settembre, per capire quanto un evento inaspettato, commesso da un attore poco
conosciuto, possa indurre cambiamenti radicali nelle policies governative e, soprattutto,
come la paura riesca ad indurre lo Stato più forte del mondo a barattare i suoi valori per
cercare di garantire ad ogni costo maggiore sicurezza alla propria nazione.
L’attacco alle torri gemelle apre poi un nuovo capitolo del terrorismo internazionale,
che deve adeguare le vecchie definizioni alle nuove sfide; l’11 settembre mette il mondo
in movimento: non sono solo gli Stati a produrre nuove normative in materia di anti
terrorismo ma, a farlo, sono anche le Organizzazioni internazionali. L’analisi dei
provvedimenti da esse intrapresi risulta essere estremamente utile in quanto la grande
13
Diritti violati e diritti negati a Guantanamo
forza dei tavoli negoziali internazionali è proprio quella di ottenere dei documenti
bilanciati, frutto del compromesso tra le differenti visioni.
Per avvicinarsi sempre di più al carcere di Guantanamo e a ciò che esso significa, il
passaggio che non si può saltare è quello che vede impegnati gli Stati Uniti in una
guerra contro l’Afghanistan in grado di lasciare indietro gli alleati storici e di fare
traballare pericolosamente la NATO. La breve storia dell’Afghanistan che sarà
necessario tracciare, aiuterà il lettore a comprendere quante differenze vi siano tra il
nostro mondo occidentale e questo medioriente di cui poco si sa ma con il quale d’ora
innanzi non sarà più possibile evitare di confrontarsi.
Nel gennaio 2002 i primi ad arrivare a Guantanamo furono proprio i prigionieri caduti
nelle mani statunitensi in seguito al conflitto afghano. La scelta del luogo, una base
militare americana in territorio cubano, è il frutto di approfonditi studi che portarono a
delineare un’opzione che sa di vero capolavoro giuridico: rinchiudendo queste persone
fuori dal territorio statunitense il governo sperava di non dover garantire loro le
protezioni offerte dalla Costituzione federale; la Corte Suprema stabilì ben presto il
contrario ma gli escamotages giuridici continuarono a proliferare, con il rifiuto di
applicare la Terza Convenzione di Ginevra a quelli che sono a tutti gli effetti dei
prigionieri di guerra. Con l’insediamento di Karzai alla guida del governo ad interim
dell’Afghanistan, poi, termina la fase del conflitto internazionale ed inizia quella del
conflitto interno tra la forza multinazionale Isaf e i ribelli affiliati ai talebani o ad al-
Qa’ida: ai prigionieri catturati in questa seconda fase del conflitto, vengono negate le
garanzie offerte dall’articolo 3 comune alle quattro Convenzioni di Ginevra. Essi
verranno tacciati di essere degli Enemy combatants e, come tali, immeritevoli di godere
di alcun diritto. A giudicarli provvederanno appositi tribunali militari, le military
commissions, operanti totalmente al di fuori della legge e irrispettosi dei criteri basilari
del giusto processo.
Gli Stati Uniti divengono quindi tristemente famosi per gli abusi inflitti ai prigionieri in
loro custodia; quando il New York Times si impossessa nel 2004 di uno dei rapporti
confidenziali su Guantanamo redatto dal Comitato internazionale della Croce Rossa, la
notizia delle torture e dei maltrattamenti inflitti ai prigionieri diventa di pubblico
dominio. Anzi, si scopre che ciò è inserito in una più ampia politica che vede la CIA
indossare le vesti di arbitrario giustiziere mondiale. Essa, non accontentandosi più di
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Diritti violati e diritti negati a Guantanamo
svolgere le solite mansioni di intelligence, inizia ad architettare, con il benestare del
governo statunitense, un sistema illegale di lotta al terrorismo che prevede il
prelevamento in ogni parte del mondo dei presunti estremisti (Extraordinary renditions)
per essere poi rinchiusi in una serie di prigioni segrete disseminate in giro per il mondo,
ove è negato l’accesso persino al Comitato internazionale della Croce Rossa.
I prigionieri hanno visto per anni negati e violati i loro diritti, sia a Guantanamo che
nelle prigioni segrete dove hanno transitato prima di giungere sull’isola cubana. Essi
sono stati rinchiusi in minuscole celle, spesso completamente nudi, costretti ad ascoltare
musica ad alto volume, esposti alle temperature più estreme, privati di una dieta solida,
sottoposti al waterboarding e ai pestaggi di apposite squadre addette al mantenimento
dell’ordine. Lo scopo di simili trattamenti è quello di indurre sofferenze psicologiche,
più che fisiche, in linea con quanto stabilito già da anni da un manuale segreto della
CIA reso pubblico nel 1997, e in linea con quanto si legge nei memoriali, sempre della
CIA, che il neo eletto Presidente Obama ha deciso di rendere pubblici, relativi proprio al
trattamento dei detenuti catturati a seguito della cosiddetta «guerra al terrorismo».
A questi detenuti, oltre alle sevizie inflitte, è anche negato il diritto al due process of
law, uno dei pilastri del sistema giuridico di ogni nazione civile che si rispetti così che,
ancora oggi, in carcere, si trovano persone che dopo anni e anni non hanno ancora visto
materializzarsi contro di loro un’accusa specifica e che sono, spesso, innocenti. Altri,
che invece innocenti non sono, non possono essere comunque condannati perché contro
di loro non è possibile addurre alcuna prova dato che le confessioni estorte con la
tortura non possono essere considerate valide.
A Guantanamo molti detenuti hanno cercato di togliersi la vita e hanno intrapreso
estenuanti scioperi della fame, interrotti dai militari statunitensi attraverso l’utilizzo di
sondini naso gastrici per l’alimentazione forzata e l’impiego di speciali tute
indistruttibili, in modo che essi non potessero farne corde da impiccagione.
L’elezione di Barack Obama a Presidente degli Stati Uniti d’America segna una svolta
epocale e determina un’insperata soluzione anche per il problema di Guantanamo. Due
giorni dopo il suo insediamento alla Casa Bianca, il 22 gennaio 2009, il neo eletto
Presidente ha firmato tre provvedimenti volti a stabilire la chiusura del carcere il prima
possibile e, in ogni caso, non più tardi del gennaio 2010.
15
Diritti violati e diritti negati a Guantanamo
La buona volontà di Barack Obama si sta però scontrando con la resistenza degli Stati
federati degli Stati Uniti, che si oppongono all’ipotesi di accogliere sul loro territorio i
fuoriusciti da Guantanamo: anche se dichiarati innocenti, il marchio di terroristi che è
stato loro cucito addosso precluderà a costoro per sempre molte strade.
La soluzione potrebbe essere che ad accoglierli siano altri Stati, in particolare quelli
europei, dato che non si può nemmeno profilare l’ipotesi che essi facciano ritorno in
patria, in quanto la permanenza a Guantanamo sarebbe considerata da parte dei
connazionali valido motivo per infliggere loro ulteriori persecuzioni.
Questo lavoro terminerà dunque con la grande incognita della sfida lanciata dal
Presidente Obama: quella, con la chiusura di Guantanamo, di riuscire a cancellare con
un colpo di spugna le barbarie commesse dalla precedente Amministrazione e di
restituire così alla più grande democrazia del mondo il volto umano che merita.
16
Diritti violati e diritti negati a Guantanamo
CAPITOLO I : IL CONTESTO
Guantanamo non è altro che la punta di un iceberg formatosi all’indomani del 9
novembre 1989, giornata che vide il crollo, assieme al Muro di Berlino, anche di un
sistema -quello della guerra fredda- che nel bene e nel male aveva garantito l’equilibrio
mondiale per più di quarant’anni.
Con il crollo della struttura in muratura si ebbe anche il crollo di un sistema di regole e
di valori che, meglio di un qualsiasi calcestruzzo, era in grado di tenere assieme i
materiali più disparati. La fine della guerra fredda ha frantumato l’integrazione
intrasistemica e con essa quella guaina in grado di contenere ogni velleità nazionalistica
o particolaristica, portando ad una nuova ed incerta allocazione del potere globale. A ciò
si aggiunga la perdita di riferimenti sistemici che essa ha causato, con il venir meno dei
modelli occidentali a vocazione universale (il modello liberale e il modello socialista)
1
ereditati dall’Illuminismo.
Per indagare a fondo ciò che succede all’interno del carcere di Guantanamo, è
necessario partire dalla tangente estrema della questione e analizzare gli anni Novanta:
nel decennio che ha separato l’11 settembre 2001 dalla fine dell’equilibrio del terrore
hanno preso forma le forze che in quella data sono entrate in rotta di collisione.
Risulta quindi assolutamente indispensabile alla comprensione della questione
analizzare i fenomeni globali sottesi al decennio di quiete che ha preceduto la tempesta.
2
Ian Clark, nel suo saggio del 2001, ci presenta due tipologie di equilibrio che,
delineatesi già in epoche passate, hanno mostrato in pieno il loro volto proprio in
seguito alla caduta del muro di Berlino: si tratta del fenomeno della globalizzazione e di
quello della frammentazione. Il primo è definibile come quell’integrazione e fusione
delle economie nazionali in seguito alle attività transnazionali delle imprese che porta a
delineare un processo economico che plasma il paesaggio politico a mano a mano che lo
3
attraversa; la frammentazione è indicata invece quale risposta dialettica alla
globalizzazione e consiste nel sostanziale rinvigorimento delle identità nazionali ed
4
etniche. Si può dunque attribuire al primo una connotazione più economica e al
secondo una connotazione più politica; sarebbe infatti errato pensare alla
1
Jean-Jacques Roche, Le relazioni internazionali. Teorie a confronto, Paris 2000, pp. 135-136.
2
Ian Clark, Globalizzazione e Frammentazione, le relazioni internazionali nel XX secolo, Bologna 2001.
3
Ivi, pp. 43-44.
4
Ivi, p. 303.
17
Diritti violati e diritti negati a Guantanamo
globalizzazione come ad un processo foriero di una cultura globale, dato che non
esistono sistemi di significato globalmente condivisi; inoltre, se pensiamo alla cultura
come ad una sorta di memoria collettiva appare quanto mai lampante l’impossibilità
5
dell’esistenza di una memoria globale e quindi di una cultura globale. Appare dunque
evidente come la globalizzazione non possa che essere sostanzialmente identificata con
6
un processo trilaterale che tocca il mercato, la produzione e l’informazione e che porta
7
ad una crisi della sovranità, della territorialità e dell’autorità. La conseguenza, per gli
Stati, sarà quella di non avere altra scelta che rimanere attivamente integrati dentro
l’economia globale, impossibilitati a calcolare i propri interessi in termini strettamente
8
nazionali e non essendo più adeguati alle rotture e alle ricomposizioni del mondo
9
contemporaneo. Susan Strange formula a tal proposito una nuova definizione della
potenza che tiene conto della continua e progressiva erosione del ruolo esclusivo dello
Stato, coniando l’espressione potenza strutturale, identificata come il «potere di
scegliere e dare forma alle strutture dell’economia politica globale entro le quali gli altri
Stati, le loro istituzioni politiche, le loro imprese economiche e (non ultimi) i loro
10
lavoratori devono operare».
11
La globalizzazione, iniziata fin dalla nascita del sistema statale moderno nel Seicento,
ha trovato nella guerra fredda la spinta decisiva, un potente fattore di integrazione
intrasistemica nello schieramento occidentale; ad essa si accompagna il beneplacito
delle teorie liberali che vedono nella globalizzazione l’incarnazione dell’efficienza
economica e la vittoria delle istituzioni in veste di mano invisibile di smithiana
concezione. Fornire un’univoca e condivisa definizione di globalizzazione risulta
comunque un’impresa impossibile, per cui l’unico assioma realmente accettato è il fatto
che essa indica una rottura, evidenzia la fine di una società integrata dove tutto si
svolgeva entro i confini dello Stato-nazione, in favore di una condizione post-societaria
5
Ivi, pp. 58-59.
6
G. John Ikenberry, L’età della globalizzazione, in G. John Ikenberry, Vittorio Emanuele Parsi (a cura
di), Manuale di Relazioni Internazionali, Bari 2007, pp. 44-56.
7
Jean-Jacques Roche, Le relazioni internazionali, cit., p. 133.
8
G. John Ikenberry, L’età della globalizzazione, in G. John Ikenberry, Vittorio Emanuele Parsi (a cura
di), Manuale di Relazioni Internazionali, cit., p. 61.
9
Jean-Jacques Roche, Le relazioni internazionali, cit., p. 133.
10
Susan Strange, The Persistent Myth of Lost Hegemony, in International Organization, XLI n.4, p. 565.
11
G. John Ikenberry, L’età della globalizzazione, in G. John Ikenberry, Vittorio Emanuele Parsi (a cura
di), Manuale di Relazioni Internazionali, cit., p. 60.
18
Diritti violati e diritti negati a Guantanamo
12
dove tali confini sono permeabili e i poteri sganciati dalla dimensione territoriale e
dove si assiste ad una costante perdita di punti di riferimento legata alla diversificazione
13
degli attori, alla molteplicità delle loro strategie e alla diversità dei loro vincoli. La
globalizzazione afferma soprattutto che, per dirla con Giaccardi e Magatti, «abbiamo
abbandonato un mare noto e siamo entrati in acque sconosciute, per orientarci nelle
14
quali disponiamo di mappe assai approssimative».
Come anticipato, oltre alla globalizzazione esiste un fenomeno uguale e contrario,
ovvero quello della frammentazione: molti processi che sembrano avere effetti
integrativi a un determinato livello si rivelano essere, invece, cause di frammentazione a
15
un altro livello; la frammentazione è la risposta alla globalizzazione di quella parte del
mondo che dal processo globalizzante non ha tratto alcun beneficio. Si tratta di un
processo di resistenza che si dimostra tanto più forte quanto più forte è la spinta
omologante. In concreto, la frammentazione altro non è che un risveglio diffuso delle
identità nazionali, etniche e religiose, una risposta sfaccettata, imprevedibile e
fortemente nazionalistica alla crescente occidentalizzazione del globo.
Globalizzazione e frammentazione sono altresì esplicabili nella dicotomia ordine
16
mondiale liberaldemocratico versus disordine mondiale non democratico. La
liberaldemocrazia è uscita vincitrice dalla guerra fredda e ha iniziato ad esigere una
modifica dei comportamenti politici nel Sud del mondo e questo, ovviamente, non ha
fatto che fomentare la ripresa dei processi di frammentazione. Ad un crescente processo
di integrazione economica si contrappone un altrettanto crescente processo di
frammentazione politica. Quest’ultima va considerata come un effetto collaterale della
rimozione della patina ideologica che la guerra fredda imponeva, nella semplice
decisione se aderire all’una o all’altra ideologia, senza lasciare spazio alcuno a correnti
17
di pensiero alternative, se non timidamente espresse in quel processo che si autodefinì
18
Terzo Mondo, proprio per differenziarsi dai due mondi allora considerati e
12
Chiara Giaccardi, Mauro Magatti, L’Io globale, Dinamiche della società contemporanea, Bari 2006,
pp. 34-35.
13
Jean-Jacques Roche, Le relazioni internazionali, cit., p. 133.
14
Chiara Giaccardi, Mauro Magatti, L’Io globale, cit., p. 37.
15
Ian Clark, Globalizzazione e Frammentazione, cit., p. 53.
16
Ivi, p. 322.
17
Ivi, p. 329.
18
L’espressione è sorta nei primi anni Cinquanta per sottolineare la nuova realtà affermatasi sullo
scenario mondiale con l’ascesa dei paesi di nuova indipendenza, in Asia e poi in Africa. Dalla Conferenza
di Bandung (1955) fino a tutti gli anni Settanta essa diviene d’uso universale: come sinonimo del
19
Diritti violati e diritti negati a Guantanamo
contrapposti. Eliminare questa patina ha significato permettere ai particolarismi di
affiorare in superficie.
Clark ritiene plausibile l’ipotesi di un compromesso tra potere statuale e globalizzazione
19
piuttosto che la vittoria dell’una sull’altro, ovvero un bilanciamento tra le forze
globalizzanti e quelle frammentarie.
Ma che cosa succede se si tende un po’ di più questa analisi, se si cerca di dare un nome
alla globalizzazione e uno alla frammentazione, ovvero se, con una buona dose di
audacia, si prova a dare alla globalizzazione il volto degli Stati Uniti d’America e alla
frammentazione le sembianze di quell’entità priva di confini territoriali che è il Dâr al-
20
Islâm? A tutto ciò si aggiunga un aspetto della globalizzazione, cui ancora non si è
21
fatto riferimento, ossia il villaggio globalequale emblema di una società mondializzata
dell’informazione in continua espansione grazie alla diffusione dell’informatica di
22
massa e dei suoi linguaggi e si pensi all’uso che la frammentazione può fare di questo
particolare aspetto della globalizzazione, a come possa sapientemente sfruttarlo a suo
uso e consumo.
Cosa sarebbe stato l’attentato alle Torri Gemelle senza la globalizzazione
dell’informazione?
1.1 Il contesto internazionale post guerra fredda
Lo scontro frammentazione/globalizzazione si è incarnato nello scontro aerei/Torri
Gemelle; prima di indagare le due parti della barricata occorre soffermarsi ancora sullo
scenario globale, per capire quali forze, quali fattori, quali pre-condizioni siano state
all’origine della miccia che ha innescato quelle tensioni sotterranee.
vittorioso processo di decolonizzazione prima; poi dello sforzo delle nuove nazioni di proporsi - con il
non allineamento – in alternativa al bipolarismo armato delle due superpotenze; e, infine, della tensione
tra le immense aree economicamente povere ma in forte crescita demografica del Sud del mondo e le
società industriali più ricche: cfr. Carmine Donzelli (a cura di), Storia contemporanea, Roma 2003, p.
654.
19
Ivi, p. 338.
20c
Letteralmente: Territorio dell’Islam; è quella parte del mondo dove vige la legge islamica, la sharîah e
se ne applicano i princìpi. Cfr. Valeria Fiorani Piacentini, Islam, Logica della fede e logica della
conflittualità, Milano 2008, p. 328.
21
Espressione coniata da Marshall McLuhan. Cfr. Marshall McLuhan, Bruce Powers, The Global Village,
Oxford 1989.
22
Carmine Donzelli (a cura di), Storia contemporanea, cit., p. 643.
20
Diritti violati e diritti negati a Guantanamo
Per indagare al meglio la questione non resta che partire dalla solida base offerta dalle
teorie delle Relazioni Internazionali, grazie alle quali si può cercare di capire la struttura
del mondo, il significato della società internazionale nella quale siamo calati, l’ordine
mondiale ad essa sotteso, le teorie di stampo liberale e la ricerca della pax democratica
che guidano la politica estera americana in tutte le sue sfaccettature e che
contribuiscono a delineare l’equilibrio istituzionale post bipolare.
Un sistema di Stati o sistema internazionale si forma quando due o più di essi
stabiliscono un sufficiente contatto e assumono, ciascuno sulle decisioni dell’altro, un
impatto sufficiente a far sì che ognuno si comporti -almeno in una certa misura- come
23
parte di un tutto. Due o più Stati possono naturalmente esistere senza formare un
sistema internazionale; dove però essi si dovessero trovare in regolare contatto gli uni
con gli altri e ove si verificasse un’interazione tra di essi sufficiente a fare del
comportamento di ciascuno un elemento necessario nei calcoli dell’altro, allora si può
affermare che essi formano un sistema. L’interazione che deve intercorrere tra di essi
può essere di natura diretta oppure indiretta in conseguenza del fatto che ciascuno deve
trattare con uno stesso Stato terzo, o semplicemente a causa dell’impatto che ognuno
esercita sul sistema nel suo complesso; oppure ancora può trattarsi di un’interazione
presente su un’intera gamma di settori o soltanto su una parte di essi ed infine,
l’interazione può presentarsi sotto forma di cooperazione o di conflitto.
Vale inoltre la pena di riportare la definizione coniata da Raymond Aron di sistema
internazionale: esso è il complesso costituito da unità politiche che coltivano relazioni
24
regolari e sono tutte suscettibili di venire coinvolte in una guerra generale. Lo stesso
autore distingue tra sistemi internazionali omogenei ed eterogenei, i primi essendo
quelli nei quali gli Stati appartengono al medesimo tipo, obbediscono alla stessa
concezione della politica e i secondi quelli nei quali gli Stati sono organizzati secondo
25
princìpi diversi e fanno appello a valori contraddittori.
Una società di Stati o società internazionale esiste quando un gruppo di Stati, conscio di
alcuni valori e interessi in comune, forma una società nel senso che ciascuno si
concepisce, nelle proprie relazioni con gli altri, vincolato da un insieme di regole
23
Hedley Bull, La società anarchica. L’ordine nella politica mondiale, Milano 2006, p. 20.
24
Raymond Aron, Pace e guerra tra le nazioni, Milano 1970, p. 124
25
Ivi, p. 181.
21
Diritti violati e diritti negati a Guantanamo
comuni, e partecipa al funzionamento di istituzioni condivise (a partire dal Diritto
26
internazionale).
In questo senso una società internazionale presuppone un sistema internazionale, ma
27
quest’ultimo può esistere anche in assenza di una società internazionale.
Oggi appare chiara l’esistenza di entrambe le costruzioni: siamo sicuramente in
28
presenza di una società internazionale, seppur anorganica, per quanto attiene alle
regole comuni e alla partecipazione da parte degli Stati al funzionamento di istituzioni
condivise; per quanto attiene invece ai valori, è forse il caso di procedere con maggiore
cautela, dato che proprio qui si forma la faglia con la quale oggi bisogna fare i conti.
Risulta difficile pensare ad una comunanza di valori tra gli Stati Uniti e l’Iran, o tra la
Cina e l’Unione Europea che, seppur abitando lo stesso condominio delle Nazioni
all’interno dell’ONU, possono meglio identificare i loro rapporti alla luce della
definizione di sistema internazionale, di tipo eterogeneo, piuttosto che di società
internazionale.
È appena il caso di sottolineare come, ovviamente, una società internazionale costruita
sulla base di una comune cultura o civilizzazione, formata cioè da Stati appartenenti ad
un sistema internazionale di tipo omogeneo, avrebbe decisamente minori difficoltà di
funzionamento rispetto all’attuale sistema internazionale eterogeneo racchiuso
all’interno delle regole imposte dalla società internazionale che, comunque,
innegabilmente esiste.
È a partire dal XX secolo che la società internazionale dismette la sua connotazione
europea per assumere le sembianze di una costruzione mondiale con un distintivo tratto
difensivo; nel 1880 il giusnaturalista inglese James Lorimer suddivideva l’umanità in
una curiosa tripartizione tra civilizzati (Europa e Americhe), barbari (Turchia, Cina,
Giappone) e selvaggi (racchiudendo in questa espressione tutto il resto del mondo) ed è
in questo momento che viene altresì respinta l’idea secondo la quale la società
internazionale si fonda su una medesima cultura o civilizzazione, in favore piuttosto di
29
un riferimento alla modernità quale unica base culturale, di stampo occidentale.
26
Hedley Bull, La società anarchica, cit., p. 25.
27
Ibid.
28
La comunità internazionale è sostanzialmente anorganica nel senso che non ha apposite strutture o
apparati per porre norme di carattere generale né per assicurarne il rispetto in maniera coercitiva: cfr. Ugo
Draetta, Principi di diritto delle organizzazioni internazionali, Milano 2006, p. 2.
29
Hedley Bull, La società anarchica, cit., pp. 51-53.
22
Diritti violati e diritti negati a Guantanamo
A questa questione si sovrappone quella dell’ordine internazionale definito quale
modello di organizzazione dell’attività internazionale che sostiene gli scopi elementari,
primari o universali della società degli Stati. Lo scopo principale può essere individuato
nella preservazione stessa del sistema e della società internazionale; il secondo nel
mantenimento dell’indipendenza o sovranità esterna dei singoli stati, il terzo nella pace
come concetto negativo di assenza di guerra, il quarto ed ultimo scopo, infine, racchiude
al suo interno gli scopi comuni ad ogni esistenza sociale: limitazione della violenza,
30
mantenimento delle promesse e stabilità del possesso.
Strumento di questa ordinata convivenza statuale è senza dubbio il Diritto
31
internazionale, definibile come il diritto (o ordinamento) della «comunità degli
32
Stati», con il quale si è fissato in maniera indelebile il principio in base al quale il
33
ricorso alla violenza legittima nella politica internazionale è monopolio dello Stato.
In ogni caso, il mantenimento dell’ordine in qualsiasi società presuppone che tra i suoi
membri, o almeno tra quelli politicamente attivi, ci debbano essere la percezione di
interessi comuni negli scopi elementari della vita sociale, delle norme (comprendenti i
princìpi normativi fondamentali, le regole di coesistenza e le norme volte a regolare la
cooperazione tra Stati) e delle istituzioni quali apparato in grado di dare una corretta
34
esplicazione alle norme stesse.
Date queste premesse, è necessario, ora, analizzare l’edificio che su queste fondamenta
è stato costruito e, prima di giungere ai piani più alti, occorre percorrere le scale che dal
piano terra ci conducono in su, passando inevitabilmente seppur velocemente, attraverso
il periodo della guerra fredda.
Secondo Vattel, l’equilibrio di potenza, o «bilancia politica», è «una disposizione delle
cose, mediante la quale veruna Potenza non trovasi in istato di predominare
35
assolutamente e d’impor la legge ad altrui». Tale equilibrio di potenza si manifesta nei
modi più disparati: come equilibrio di potenza semplice (tra due potenze contrapposte)
oppure complesso (se costituito da tre o più potenze); come equilibrio di potenza
30
Ivi, pp. 28-31.
31
Espressione coniata da Jeremy Bentham nel 1789 nella sua Introduction to the Principles of Morals
and Legislation, Oxford 1789.
32
Benedetto Conforti, Diritto internazionale, Napoli 2006, p. 3.
33
Hedley Bull, La società anarchica, cit., p. 49.
34
Ivi, cit., pp. 80-91.
35
Vattel, Il diritto delle genti ovvero Princìpi della legge naturale applicati alla condotta e agli affari
delle nazioni e de’ sovrani, Bologna 1805, libro 3, capitolo 3, p. 33.
23
Diritti violati e diritti negati a Guantanamo
generale (caratterizzato dall’assenza di una potenza capace di dominare nell’intero
sistema internazionale) oppure particolare (se riferito ad una particolare area del
sistema); come equilibrio di potenza che esiste soggettivamente oppure oggettivamente
(basato, cioè, su dati concreti); come equilibrio di potenza fortuito (che emerge in
assenza di qualsiasi sforzo cosciente da parte dei protagonisti per attuarlo) oppure
36
intenzionale.
Un equilibrio di potenza si prefigge inoltre talune funzioni quali: impedire che il sistema
internazionale complessivo si trasformi in un impero universale per mezzo di conquiste,
preservare l’indipendenza degli Stati e contribuire a produrre le condizioni in cui le altre
37
istituzioni da cui l’ordine internazionale dipende possano funzionare.
Dagli anni Cinquanta l’equilibrio di potenza, in forma semplice, ha assunto delle
sembianze del tutto particolari, basandosi sulla mutua deterrenza nucleare, dovendosi
intendere con questa espressione, quella particolare condizione per cui due o più
potenze si dissuadono reciprocamente dal portare deliberatamente un attacco nucleare
38
per mezzo della minaccia di una ritorsione nucleare. Negli anni Settanta questo
equilibrio diviene complesso con l’entrata in scena della Cina, del Giappone e delle
potenze europee riunite e possiamo in generale affermare che l’equilibrio di potenza
delineatosi durante la guerra fredda non è stato fortuito, gli attori in gioco non
disponevano della medesima forza, non erano politicamente equidistanti, non si reggeva
su alcun tipo di collaborazione tra le grandi potenze interessate, la mutua deterrenza
nucleare era solo una parte delle relazioni di equilibrio di potenza in gioco ed era del
tutto soggettiva; inoltre, se incrementava le possibilità di pace sul globo, data
l’irrazionalità di una guerra nucleare, sicuramente ha impedito di fondare l’ordine
39
internazionale su una base migliore.
È ancora il caso di presentare brevemente i due principali filoni delle relazioni
internazionali, ovvero il realismo e l’economia politica internazionale liberale.
Il realismo si basa su una visione pessimistica della natura umana, sull’idea che le
relazioni internazionali siano sede di una conflittualità costante e ineliminabile, sulla
centralità dello Stato quale attore della politica internazionale e, soprattutto, sull’assunto
36
Hedley Bull, La società anarchica, cit., pp. 120-125.
37
Ivi, pp. 125-126.
38
Ivi, pp. 140-141.
39
Ivi, pp. 142-148.
24
Diritti violati e diritti negati a Guantanamo
dell’anarchia internazionale intesa come assenza di una solida autorità centrale alla
quale poter fare appello per ottenere protezione o riparare le ingiustizie. A questo
40
proposito, Waltz afferma che le parti dei sistemi politici internazionali sono in
relazione di coordinazione: ciò significa che tra Stati formalmente uguali tra loro
nessuno ha il diritto di comandare e nessuno ha il dovere di obbedire. Gli Stati in questo
41
contesto «pericoloso» devono provvedere da sé all’autodifesa. Gli Stati cercheranno
sicuramente l’equilibrio contro una potenza nascente invece di ricorrere con essa al
42
fenomeno del bandwagoning, inoltre non riusciranno a cooperare se si profila il
problema di guadagni relativi e si opporranno alla specializzazione invece di
43
abbracciarla di fronte al rischio della dipendenza.
L’economia politica internazionale liberale, al contrario, abbraccia la concezione
dell’antropologia positiva in contrapposizione a quella negativa sostenuta dal realismo:
l’uomo è visto come un essere razionale capace di imparare dalla storia e di migliorare
limitando la propria aggressività con vari strumenti. L’uomo è in grado di cooperare e
può in questa maniera limitare l’insicurezza data dal contesto internazionale; gli
obiettivi degli Stati non sono solamente la ricerca di sicurezza e di potenza bensì la
crescita economica, per cui essi porranno in essere il fenomeno dell’interdipendenza
complessa, in base al quale adotteranno politiche di sicurezza nei confronti degli
avversari più temibili e politiche di interdipendenza economica con Stati amici o meno
minacciosi. L’economia internazionale, infine, deve ovviamente essere basata sul libero
scambio dato che l’estensione del commercio internazionale sembrerebbe ridurre la
conflittualità.
Se i realisti identificano il contesto internazionale come una serie di palle da biliardo
che si avvicinano, si scontrano e si allontanano, il liberalismo al contrario guarda al
44
quadro internazionale come ad una ragnatela: nella società contemporanea infatti, le
appartenenze di gruppo sono molto complesse poiché ogni individuo appartiene a più
gruppi contemporaneamente e queste appartenenze si intersecano e vanno al di là dei
legami nazionali, generando una vera e propria ragnatela dove i gruppi non sono
40
Kenneth N. Waltz, Teoria della politica internazionale, Bologna 1987, p.178.
41
Joseph M. Grieco, Realismo e neorealismo, in G. John Ikenberry, Vittorio Emanuele Parsi (a cura di),
Teorie e metodi delle Relazioni Internazionali, Bari 2007, pp. 29-33.
42
Il bandwagoning consiste nel salire sul carro del vincitore.
43
Ivi, p. 42.
44
Si tratta del celeberrimo modello a ragnatela di Burton.
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Diritti violati e diritti negati a Guantanamo
contrapposti ma intrecciati, con l’innegabile pregio di ridurre notevolmente la
conflittualità.
L’economia politica internazionale liberale racchiude al suo interno vari filoni, che si
sviluppano nel cosiddetto terzo dibattito delle relazioni internazionali, degli anni
Settanta, Ottanta e Novanta e che esplicano quanto sopra affermato: liberalismo
sociologico, liberalismo dell’interdipendenza, neo liberalismo istituzionale e filone della
pace democratica.
Il liberalismo sociologico ritiene che la comunanza di valori all’interno di un’area del
sistema internazionale riduca la conflittualità. Il liberalismo dell’interdipendenza
sostiene come la sicurezza militare non sia più il problema principale, il neo liberalismo
45
istituzionale ritiene che la costruzione di istituzioni internazionali sia il più efficace
strumento di cooperazione tra gli Stati ed infine, il filone della pace democratica, di
strettissima attualità per quanto attiene alla politica estera statunitense, sostiene che la
diffusione nel mondo delle democrazie sia un fattore di pacificazione, poiché le
democrazie tendono a non utilizzare lo strumento bellico le une contro le altre.
Per la prosecuzione di questa analisi si è scelto di avvalersi del supporto scientifico
fornito dal filone liberale piuttosto che da quello realista, nella stretta convinzione che
solamente il primo sia in grado di spiegare al meglio il contesto nel quale oggi ci si
trova inseriti. Questa convinzione deriva soprattutto dall’evidenza di un costante
incremento di istituzioni e organizzazioni internazionali che cercano, in qualche modo
di imbrigliare lo spirito anarchico degli Stati e soprattutto dall’evidenza empirica che la
fine della guerra fredda ha mostrato: secondo le teorie neorealiste dell’equilibrio,
coesione e collaborazione tra alleati avrebbero dovuto decrescere vertiginosamente
dopo il crollo dell’Unione Sovietica, in quanto la mancanza di un comune pericolo
avrebbe dovuto far riemergere le rivalità intra-occidentali. Così non è stato: l’ordine tra
46
alleati è proseguito, si è rinforzato e stabilizzato.
Questo ordine istituzionale non sarebbe però stato raggiunto se il più potente attore
statuale, uscito vittorioso dal confronto bipolare, non si fosse profondamente adoperato
per la sua realizzazione. Per capire le motivazioni che hanno portato gli Stati Uniti ad
45
John S. Duffield, L’istituzionalismo neoliberale, in G. John Ikenberry, Vittorio Emanuele Parsi (a cura
di), Teorie e metodi, cit., pp. 51-66.
46
G. John Ikenberry, Dopo la vittoria. Istituzioni, strategie della moderazione e ricostruzione dell’ordine
internazionale dopo le grandi guerre, Milano 2003, p. 335.
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Diritti violati e diritti negati a Guantanamo
impegnarsi fattivamente affinché il mondo fosse permeato di solide e diffuse istituzioni
che vincolassero tra loro gli Stati è utile fare riferimento all’opera di Ikenberry che
47
analizza le dinamiche post-conflittuali.
Tornando al predetto concetto di ordine internazionale, è necessario sottolineare come
esso si formi nelle fasi direttamente successive ad un conflitto mondiale, quando i
vincitori iniziano la ricostruzione del mondo postbellico. La più importante
caratteristica delle relazioni tra Stati dopo una guerra generalizzata è il rapido imporsi di
una nuova distribuzione del potere e, con questa, di nuove asimmetrie tra nazioni forti e
deboli. Lo Stato vincitore ha tre alternative per impiegare l’immenso potere che detiene
tra le mani: dominare, quindi aggiudicarsi tutti i premi possibili sull’assetto mondiale,
abbandonare, cioè rinunciare ad influire sulla situazione complessiva per concentrarsi
sulle questioni locali in cui si ha un interesse immediato, trasformare il proprio primato
48
in un ordine permanente che gli assicuri il rispetto e la collaborazione degli altri paesi.
Risulta quasi superfluo sottolineare che è la terza ipotesi quella empiricamente più
accreditata e gli Stati Uniti, dopo la vittoria nella guerra fredda, non si sono di certo
sottratti a questa regola. Lo strumento più forte per la costituzione di un siffatto ordine
stabile del tutto favorevole alla potenza vincitrice è sicuramente la realizzazione di un
sistema istituzionale mondiale che sia funzionale ad un ordine internazionale di tipo
costituzionale. Questo genere di ordine risulta essere un assetto politico imperniato su
istituzioni giuridiche e politiche di tipo consensuale, incaricate di far valere diritti e
limiti dell’esercizio del potere. Alla sua base vi sono una generale approvazione dei
princìpi e delle regole che lo governano, il consenso attorno all’assunto della
costituzione come forma di limitazione giuridica della politica, l’accettazione dello
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strumento dei checks and balances e la difficoltà nella modifica delle regole. La
stabilità dell’ordine dipende dalla capacità dei dispositivi istituzionali di limitare gli usi
del potere da parte di coloro che lo detengono; in mancanza di istituzioni vincolanti e
impegni credibili, l’ordine perde la capacità di rassicurare gli Stati che si sentono in
pericolo.
I patti costituzionali riducono le implicazioni del vincitore nelle relazioni internazionali
e servono a moderare i dividendi del potere. Lo Stato che ha vinto la guerra ha buone
47
V. nota 45.
48
G. John Ikenberry, Dopo la vittoria, cit., p. 3.
49
Ivi, pp. 40-44.
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