Introduzione
Il 1 gennaio 1994, nei villaggi agricoli immersi tra i boschi del Chiapas, tremila
contadini, armati in modo rudimentale e coperti da passamontagna, lanciarono la
propria sfida allo Stato messicano, al grido di «ora basta!». Gli insorti, appartenenti
all‟Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale (EZLN) e guidati dal carismatico
“subcomandante” Marcos, guadagnarono il controllo di numerosi centri abitati. Il
presidente in carica, Carlos Salinas de Gortari, inviò sul posto 14mila soldati, ma si
trovò costretto, in seguito alle diffuse manifestazioni di solidarietà e appoggio nei
confronti dei ribelli, a dichiarare il cessate il fuoco: erano passati soltanto dodici giorni,
dall‟inizio dell‟insurrezione. Dopo anni di infruttuose trattative e di guerre civili locali,
fomentate da gruppi paramilitari in gran parte istruiti dall‟esercito, nel Chiapas, regione
poverissima e periferica, l‟EZLN controlla ancora oggi diverse municipalità, vere e
proprie enclavi in cui, per citare i manifesti che circondano la zona, «il popolo
comanda, e il governo obbedisce». L‟insurrezione chiapaneca fu uno dei numerosi
episodi di guerriglia rurale che il Messico affrontò negli anni Novanta, in continuità con
una storia nazionale profondamente segnata dagli episodi di rivolta contadina. L‟EZLN
ha saputo ottenere, tuttavia, un livello di legittimazione nazionale e globale che nessun
altro gruppo insurrezionale aveva mai raggiunto – non solo in Messico, ma in tutto il
mondo – grazie all‟elevato spessore politico, alle rivendicazioni sociali e politiche
condivise da gran parte dei campesinos, all‟originalità del suo approccio critico alla
globalizzazione, alle doti comunicative di Marcos e al sapiente utilizzo dei media.
Negli anni più recenti, il Messico ha ridestato l‟attenzione internazionale in seguito
all‟ondata di violenze legate al narcotraffico, che hanno insanguinato il paese in misura
sempre più angosciante. La presenza di forti organizzazioni criminali, dedite allo
smercio di stupefacenti negli USA sin dall‟inizio del XX secolo, ha radici antiche in
Messico. A partire dagli anni Ottanta, tuttavia, il potere dei cosiddetti “cartelli” della
droga si è progressivamente dilatato e sottratto al controllo dello Stato. Le ricchezze
prodotte dal narcotraffico sono cresciute immensamente, al punto da arrivare a sostenere
buona parte dell‟economia nazionale. La corruzione, nelle istituzioni statali e soprattutto
nella polizia, è divenuta endemica, inestirpabile; l‟impunibilità dei reati criminali resta
un‟angosciosa costante. I cartelli si sono trasformati in soggetti capaci di assumere
4
funzioni tipicamente statali in numerosi territori. E questo nonostante le crescenti
frammentazioni, rivalità e conflittualità tra i cosiddetti narcos, ferocemente in lotta per
il presidio delle plazas, gli snodi più importanti delle rotte della droga.
Dopo anni di sottovalutazioni, quando non di collusioni, dal 2006 il governo
messicano, guidato da Felipe Calderón, ha finalmente deciso di affrontare con
determinazione il problema della criminalità organizzata, contando sull‟appoggio degli
USA. La strategia adottata, tuttavia, si è limitata alla militarizzazione del confronto, in
attesa, a detta degli esponenti di governo, di riformare la polizia e il sistema giudiziario.
L‟esercito è stato impiegato nelle aree di maggiore influenza criminale, per presidiare e
pattugliare il territorio, sostituire nell‟amministrazione della pubblica sicurezza le
agenzie civili di law enforcement corrotte dai narcos e svolgere le operazioni più
delicate di arresto e di aggressione nei confronti delle organizzazioni criminali. I
risultati appaiono assai preoccupanti: la militarizzazione, oltre ad introdurre pratiche
poco rispettose dei diritti umani, ha moltiplicato il livello della violenza, che è tale da
produrre migliaia di morti l‟anno, a tassi crescenti. Il Messico è posto sotto l‟assedio dei
cartelli della droga, che tramite i propri eserciti paramilitari – reclutati perlopiù tra ex
poliziotti ed ex militari – hanno lanciato un‟offensiva di carattere insurrezionale e
terroristico. Mentre la conflittualità tra le diverse organizzazioni non cessa di
aumentare, le violenze e le uccisioni da parte dei narcos vengono sovente perpetrate
torturando e decapitando le vittime, infierendo sui loro cadaveri in modo sempre più
macabro, esibito e spettacolarizzato, con l‟evidente obiettivo di intimidire e annichilire
la popolazione.
Che cosa accomuna le insurrezioni degli anni Novanta e lo strapotere della
criminalità organizzata? Due fenomeni così apparentemente distinti hanno, in realtà,
numerosi punti in comune, non certo nelle loro manifestazioni visibili, quanto piuttosto
nelle origini. Entrambi affondano le radici nella duplice transizione verso il liberismo e
verso la democrazia, che il Messico ha affrontato a cavallo tra gli anni Ottanta e
Novanta. In seguito alla Rivoluzione degli anni Dieci, nel paese nordamericano si
affermò un sistema istituzionale destinato a durare decenni, formalmente democratico,
ma in effetti autoritario, a causa del dominio del Partito Rivoluzionario Istituzionale
(PRI), erede degli assetti di potere post-rivoluzionari. Tale partito dominante (o, di fatto,
“unico”), occupando ogni settore dello Stato e della società, strutturò nel tempo un
5
sistema economico clientelare e corporativo, fondato sulla proprietà pubblica delle
banche e delle industrie più grandi, nonché, dal punto di vista agrario, sulla
distribuzione ai contadini delle terre di proprietà statale. In seguito alla crisi del debito
degli anni Ottanta, i presidenti de la Madrid e (soprattutto) Salinas, con il pieno
sostegno della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale, avviarono una
politica di “aggiustamenti strutturali” volta ad aprire il Messico al mercato
internazionale, liberalizzando i commerci, privatizzando il patrimonio pubblico dello
Stato e introducendo stringenti logiche di mercato nell‟agricoltura, in un processo di
integrazione economica con gli USA che fu definitivamente sancito con l‟ingresso nel
NAFTA (Accordo Nord Americano di Libero Scambio) nel 1994. Il nuovo assetto
socioeconomico contribuì a rendere ancor più insostenibile e intollerabile per la
popolazione il regime antidemocratico del PRI, che cominciò a sgretolarsi. Grazie alle
riforme degli anni Novanta, il sistema politico si aprì via, via alla competitività e alla
regolarità del processo elettorale, fino alle elezioni del 2000, che videro trionfare per la
prima volta un candidato delle opposizioni.
L‟intreccio di queste due transizioni ha originato, in modi diversi e talora
sorprendenti, sia le insurrezioni degli anni Novanta, sia il rafforzamento, la
frammentazione e la conflittualità della criminalità organizzata. Lo Stato messicano,
infatti, non è stato in grado di concludere il proprio percorso di riforme ammortizzando i
traumi sociali della conversione al neoliberismo (tra cui, in particolare, la “questione
agraria” che ne è conseguita), né di affermare, in luogo della precedente gestione
accentrata del potere, la rule of law e il principio di trasparenza. Ha subìto così un
processo di erosione della propria legittimazione pubblica, generando un vuoto
prontamente riempito da nuovi soggetti, tra cui i gruppi armati insurrezionali, le
organizzazioni dei narcos e un terzo attore ad essi legato, la cui presenza non è tipica
soltanto del Messico, ma di tutta l‟America Latina: le gang, che impongono la propria
legge nelle aree urbane più disagiate e periferiche.
A ben vedere, però, il caso del Messico può essere ricondotto a un contesto più
ampio e complesso, di dimensioni internazionali. Le vicende insurrezionali e criminali
sono manifestazioni locali, declinate secondo le peculiarità della storia e delle
evoluzioni del sistema-paese messicano, di fenomeni globali, che riguardano, in ultima
analisi, sia i paesi occidentali sia quelli in via di sviluppo.
6
Con la fine della Guerra Fredda e l‟avvento della globalizzazione, è entrato in crisi il
sistema vestfaliano delle Relazioni Internazionali, per il quale gli Stati-nazione
rappresentavano gli unici soggetti di politica internazionale, dotati di una sovranità
indiscutibile all‟interno dei propri confini e riconoscibili attraverso la loro funzione
primaria, cioè a dire – secondo la definizione di Max Weber, adottata da tutta la
politologia contemporanea – il monopolio della forza fisica legittima su un dato
territorio. La crisi di tale sistema non riguarda soltanto fenomeni ormai noti, come
l‟erosione della sovranità statale e le “nuove guerre”, sempre più transazionali e segnate
dalla politica dell‟identità e dal tribalismo, combattute in misura crescente da attori
extra-statali come clan, warlords, guerriglieri e nuovi mercenari ingaggiati dalle
compagnie militari private. Ma chiama in causa, più in generale, un processo definibile
come privatizzazione della violenza.
La globalizzazione ha creato nuove fratture intorno ai rapporti tra
l‟“occidentalizzazione” culturale e il revival del particolarismo, tra un capitalismo
vorace e i vincoli della legge, tra la deriva populista, privatistica e personalistica della
politica e la democrazia, tra i ceti favoriti dai nuovi assetti economici e le ampie aree di
esclusione sociale. Intorno a tali fratture si verifica una sorta di decostruzione dello
Stato, che vede sbriciolarsi – in modo non del tutto inconsapevole né involontario – il
proprio monopolio della forza fisica legittima, a vantaggio di nuovi attori, come il
terrorismo internazionale e le mafie. Si tratta evidentemente di soggetti privati, che però
riescono spesso a guadagnare, presso la popolazione, un grado di legittimazione tale da
far loro assumere funzioni pubbliche, unendo globale e locale meglio di molti Stati.
Alla luce di queste riflessioni, nel primo capitolo si analizzeranno, dopo una breve
parte introduttiva sulla formazione dello Stato moderno, la crisi del monopolio della
forza legittima e la formazione di un “mercato della violenza privatizzata”, che
accomuna, seppure con modalità differenti, i paesi della decolonizzazione con i paesi
occidentali e con quelli post-sovietici. Non tutti gli aspetti trattati attengono
direttamente al caso messicano, ma si è ritenuto di includerli ugualmente, per rendere
l‟idea di un movimento del sistema internazionale che va necessariamente considerato
nel suo insieme, al di là delle sue singole espressioni. Il capitolo si chiude con una
riflessione sul ruolo che gli attori privati di violenza assumono in relazione all‟esercizio
occulto del potere, nell‟intento di dimostrare, attraverso numerosi esempi storici ed
7
attuali, che i fenomeni descritti rappresentano spesso una forma di deliberato subappalto
delle funzioni statali, più che una minaccia proveniente dall‟esterno.
Per affrontare con strumenti teorici adeguati lo studio del caso messicano, nel
secondo capitolo si approfondirà l‟analisi generale e teorica dei due attori che incarnano
la privatizzazione della violenza nel paese nordamericano: la criminalità organizzata
mafiosa e la guerriglia insurrezionale. Nel primo caso, l‟analisi verrà ampliata da alcune
riflessioni sul narcotraffico globale, nel secondo, si dedicherà un certo spazio alle
strategie statali di contro-insurrezione. Il terzo e ultimo paragrafo introdurrà alcune
considerazioni conclusive sui soggetti di violenza extra-statale emersi nel corso della
trattazione, evidenziando come il nodo cruciale, per cogliere e tentare di risolvere la
crisi del monopolio della forza legittima, non sia tanto la forza, quanto piuttosto la
legittimità di tali soggetti presso la popolazione.
Il terzo capitolo si aprirà con una riflessione generale sull‟America Latina – nel cui
ambito culturale, sociale ed istituzionale si è ritenuto di inserire il Messico –, in
particolare sulle transizioni democratiche affrontate negli anni Ottanta e sulle evoluzioni
del ruolo pubblico della violenza. Si proseguirà con una ricostruzione storica della
Rivoluzione messicana e del sistema di potere che essa cristallizzò nel paese, per poi
descrivere le fasi e i limiti della duplice transizione al capitalismo e alla democrazia, in
un cammino che dagli anni Ottanta porta fino ai giorni odierni. Dopo queste necessarie
premesse, la seconda parte del capitolo sarà incentrata sulle insurrezioni messicane
degli anni Novanta, ed in particolare su quella dell‟EZLN. Di esse si delineerà la
struttura, sia dal punto di vista militare sia dal punto di vista del controllo del territorio,
e si spiegherà il nesso con le riforme neoliberiste e la democratizzazione, con un ultimo
paragrafo sulle strategie contro-insurrezionali dei governi.
Infine, il quarto e ultimo capitolo si concentrerà sulle organizzazioni criminali
messicane dedite al commercio di droghe illegali. Verrà tracciato un percorso storico di
tre tappe, lungo il quale si è passati da una prima fase in cui il narcotraffico avveniva in
modo accentrato e subordinato alle decisioni del governo e delle agenzie di pubblica
sicurezza, all‟attuale guerra della droga, combattuta da (e tra) organizzazioni più
frammentate e competitive, che, nella seconda fase, hanno ottenuto l‟indipendenza ed
un eccezionale potere economico, corruttivo, militare e finanche politico. Particolare
attenzione verrà riservata al ruolo degli USA e ai meccanismi di controllo del territorio,
8
che stanno segnando il passaggio da “semplici” imprese criminali a vere e proprie
mafie.
9
Cap. 1: La privatizzazione della violenza e la crisi del
monopolio statale della forza legittima
1.1 Globalizzazione e crisi dello Stato
A vent‟anni dalla caduta del Muro di Berlino, l‟evoluzione del ruolo dello Stato
seguita al mutamento del sistema internazionale e ai processi di globalizzazione è tra i
1
temi più dibattuti dalla totalità delle discipline sociali. A prescindere dai diversi punti di
vista e dalle diverse interpretazioni, sociologi, economisti, politologi, storici e giuristi
sono essenzialmente concordi nell‟individuare un drastico ridimensionamento delle
funzioni dello Stato-nazione e del suo ruolo nello scenario internazionale.
Gli Stati-nazione sono coinvolti, infatti, in un duplice e contraddittorio movimento,
che da un lato accentua le interconnessioni globali, politiche ed economiche, culturali e
2
militari – ciò che Ulrich Beck ha definito «transnazionalizzazione» – e dall‟altro
genera, per reazione, fenomeni di “localizzazione” e di “frammentazione”.
Per Beck (…) viene infranta la cornice degli stati nazionali, cosicché gli Stati non
possono più essere concepiti in una prospettiva “inter-nazionale”. Viviamo ormai in
una società mondiale ove qualsiasi rappresentazione di spazi chiusi non può che
essere fittizia. Lo Stato stesso è ormai pensabile soltanto come uno “Stato
transnazionale” (…) Sta emergendo uno spazio intermedio che non può più essere
ricondotto alle vecchie categorie statal-nazionali. La “transnazionalizzazione”
conferisce una nuova importanza anche al localismo territoriale: la dimensione
locale e la dimensione globale prevalgono su quella nazionale. La nazione cessa di
3
essere l‟istanza mediatrice fra lo spazio locale e il resto del mondo.
Così, negli ultimi sessant‟anni, la “dimensione internazionale” di tutti i processi
collettivi si è estesa costantemente, accelerando in modo ancor più vistoso e
inarrestabile in seguito alla fine del bipolarismo. Per questo, la prospettiva delle
1
La bibliografia è talmente sterminata che il tentativo di riportarla in una nota incontrerebbe, per
evidenti motivi di spazio, il rischio di escludere impropriamente alcune opere significative. Si rimanda
pertanto a D. Zolo, Globalizzazione. Una mappa dei problemi, Laterza, Bari 2004, saggio ricco di
indicazioni bibliografiche, in cui è evidente la centralità delle trasformazioni dello Stato-nazione nel
dibattito sulla globalizzazione.
2
U. Beck, Was ist Globalisierung? Irrtümer des Globalismus, Antworten auf Globalisierung,
Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1997, trad. it. Che cos‟è la globalizzazione? Rischi e prospettive della
società planetaria, Carocci, Roma 1999.
3
D. Zolo, Globalizzazione, cit., pp. 72-73.
10
Relazioni Internazionali è giudicata particolarmente significativa, forse imprescindibile,
per comprendere la complessità delle trasformazioni che coinvolgono le funzioni, il
4
ruolo e persino il concetto stesso di Stato.
Avvalendosi di questa prospettiva, si può pacificamente ritenere che il sistema
affermatosi in Europa con la pace di Vestfalia nel 1648, e poi diffusosi in tutto il mondo,
si sia avviato verso il tramonto. Il sistema vestfaliano si fondava sulla fine del
particolarismo e dell‟universalismo medievali: lo Stato diventò l‟unica autorità politica
riconosciuta e l‟unico soggetto di diritto, sia sul piano interno sia su quello
internazionale. La sovranità dello Stato-nazione sul proprio territorio era inviolabile e lo
qualificava come superiorem non recognoscens. Da ciò derivava il potere supremo, per
lo Stato, di determinare la pace e la guerra, e il fatto di essere l‟unico soggetto del diritto
internazionale.
Nel descrivere la crisi di questo modello si possono richiamare, in estrema sintesi e
senza addentrarsi in pur rilevanti valutazioni teoriche e interpretative, tre fenomeni,
tutt‟altro che slegati tra loro. In primo luogo, è avvenuto, a scapito dello Stato, un
progressivo rafforzamento delle istituzioni sovranazionali (le Nazioni Unite e le agenzie
collegate, l‟Organizzazione Mondiale del Commercio, la Banca Mondiale…), delle
organizzazioni di carattere continentale-regionalistico (l‟esempio più riuscito è
indubbiamente l‟Unione Europea), dei regimi e delle conferenze tematiche
internazionali, ed infine delle organizzazioni non governative. Parallelamente, un
numero sempre maggiore delle funzioni dello Stato è affidato a enti subnazionali come
regioni, province, stati federati, dipartimenti, comuni, etc.
In secondo luogo, la globalizzazione del mercato, della produzione e
dell‟informazione non lascia altra scelta agli Stati che rimanere attivamente integrati
dentro l‟economia globale in un processo di crescente interdipendenza, sicché questi
5
risultano impossibilitati a calcolare i propri interessi in termini strettamente nazionali.
Nell‟ultimo ventennio, in proposito, si è registrato un nuovo ruolo e un nuovo rapporto
con la sovranità dello Stato per gli attori economici di rilevanza internazionale, come le
compagnie multinazionali o transnazionali. Queste, fino alle soglie degli anni Novanta,
4
L. Ornaghi, Il ruolo internazionale dello Stato, in G.J. Ikemberry - V .E. Parsi, Manuale di Relazioni
Internazionali, Laterza, Bari 2001.
5
G. J. Ikemberry, L‟età della globalizzazione, in G.J. Ikemberry - V .E. Parsi, Manuale di Relazioni
Internazionali, cit., p. 61.
11
tendevano a comportarsi come «campioni nazionali del paese d‟origine» e come
«gruppi di pressione per il paese ospite». Oggigiorno l‟atteggiamento nei confronti dei
paesi ospiti non solo è rimasto sostanzialmente immutato, ma si è esteso anche ai paesi
d‟origine. Le multinazionali hanno acquisito una «natura apolide», che, unita alla loro
straordinaria potenza economica (a sua volta alla base di una capacità fortemente
incisiva di lobbying) ne prospetta il ruolo di veri e propri attori del sistema
internazionale. Nei loro confronti, «agli Stati sembrano restare ben poche strategie al di
6
fuori di quelle forzatamente cooperative». A questo proposito, è particolarmente
efficace la ridefinizione di potenza operata da Susan Strange. La «potenza strutturale» si
definisce come «il potere di scegliere e dare forma alle strutture dell‟economia politica
globale entro le quali gli altri Stati, le loro istituzioni politiche, le loro imprese
7
economiche e (non ultimi) i loro lavoratori devono operare».
Last but not least, la caduta del Muro di Berlino – nonostante l‟ottimismo ingenuo, e
forse arrogante, di chi si affrettò ad annunciare il trionfo pacifico e inesorabile del
8
modello liberal-democratico occidentale – ha sconvolto il sistema internazionale,
liberando, come una sorta di “vaso di Pandora”, forze incontrollate e rimaste per anni
arginate dal sistema bipolare. Un recentissimo saggio di Luigi Bonanate esprime
efficacemente le caratteristiche di questi mutamenti. Il bipolarismo
con la sua immensa forza centrifuga aveva paralizzato qualsiasi stato, costretto a
mantenere inalterato il suo assetto; ma, fiaccatasi questa forza, nessun vincolo
9
poteva più trattenere società e regioni artificiosamente compattate.
Inoltre
La pacificazione del mondo ha scatenato il circuito della globalizzazione, ritenuto
virtuoso ma scopertosi vizioso, perché ha globalizzato ogni tipo di situazione e così
ha agito anche nei confronti delle sorgenti di insoddisfazione, incompiutezza,
sofferenza e ingiustizie manifestate da alcune parti della popolazione mondiale
6
V . E. Parsi, Il ruolo internazionale degli attori economici, in G.J. Ikemberry -V .E. Parsi, Manuale di
Relazioni Internazionali, cit., pp. 104-105.
7
S. Strange, The Persistent Myth of Lost Hegemony, in International Organization, XLI n. 4, p. 565.
8
Cfr. F. Tuccari, Profezie rivali. Interpretazioni della politica mondiale in F. Armao - A. Caffarena (a
cura di), Introduzione al mondo nuovo. Scenari, attori e strategie della politica internazionale,
Guerini, Milano 2006.
9
L. Bonanate, La crisi. Il sistema internazionale vent'anni dopo la caduta del Muro di Berlino, Bruno
Mondadori, Milano 2009, p. 67.
12
rispetto ad altre, quantitativamente molto più esigue e infinitamente più ricche e
10
potenti.
Il fatto che la Guerra Fredda sia finita non giustifica la facile semplificazione
secondo cui ci troveremmo di fronte a un mondo unipolare, dominato dall‟egemonia
statunitense. L‟Unione Sovietica ha certamente perso (e si farà cenno delle drammatiche
conseguenze della sua incontrollata conversione al capitalismo), ma forse si può ritenere
che gli Stati Uniti non abbiano vinto. Essi sembrano aver fallito nel loro ruolo di unica
superpotenza mondiale e sono apparsi impreparati di fronte a tutti i movimenti
scatenatisi dopo la fine del bipolarismo; dacché piuttosto che un nuovo ordine, dalle
11
macerie del Muro di Berlino sembra essersi affermato un nuovo disordine. La
globalizzazione determina spinte contrastanti e nuove fratture intorno alle dicotomie
integrazione-frammentazione, omogeneizzazione-differenziazione, esclusione-
inclusione (rispetto ai suoi vantaggi materiali e culturali). Tali contraddizioni si
riflettono in un “revival particolaristico” particolarmente aspro, il quale non fa che
esacerbare quelle tensioni e quei conflitti rimasti latenti grazie alla “forza centrifuga”
del bipolarismo. Questo processo di frammentazione, osserva Ian Clark, non è che la
«risposta dialettica» alla globalizzazione, la reazione di coloro che da quest‟ultima non
traggono alcun beneficio, espressa attraverso l‟esaltazione delle identità etniche,
12
nazionali, religiose, regionali. Del resto già Karl Popper aveva intuito che nella Storia,
13
le transizioni verso quella che definì «società aperta» alimentano spesso il tribalismo.
I processi così sinteticamente descritti sono più che sufficienti a decretare la crisi del
sistema vestfaliano e della sovranità statale: lo Stato non è più l‟unico titolare di
“politica”. Tuttavia il quadro non sarebbe completo, senza l‟aggiunta di un ulteriore
14
elemento, che Mary Kaldor mise per prima in evidenza, cogliendone le connessioni
con le dinamiche globali sopra descritte. Si tratta della privatizzazione della violenza,
ovvero della crisi della principale caratteristica dello Stato moderno, il monopolio della
forza fisica legittima. Le premesse del fenomeno, per Kaldor, risiedono nell‟intreccio tra
10
Ivi, p. 49.
11
Ivi, pp. 14-16.
12
I. Clark, Globalizzazione e frammentazione: le relazioni internazionali del XX secolo, Il Mulino,
Bologna 2001.
13
A. Borghini, Karl Popper . Politica e società, Franco Angeli ed., Milano 2000.
14
M. Kaldor, New and Old Wars: Organized Violence in a Global Era, Polity Press, Cambridge 1999,
trad. it. Le nuove guerre. La violenza organizzata nell‟età globale, Carocci, Roma 2001.
13
le «politiche dell‟identità» tipiche del già citato movimento di frammentazione, e il
processo di erosione della sovranità e degli spazi pubblici, in cui «l‟attività di governo
viene sempre più spesso appaltata verso l‟esterno attraverso varie forme di accordi di
15
privatizzazione o semi-privatizzazione». Un fenomeno diffuso specialmente tra gli
Stati che si sono ritrovati sulla scena globale senza aver risolto le loro pregresse
fragilità.
Il primo, drammatico indicatore della privatizzazione della violenza è ciò che si è
osservato in occasione degli agghiaccianti massacri avvenuti durante gli anni Novanta –
per esempio nell‟ex Jugoslavia, in Ruanda e in Somalia – ossia l‟avvento delle «nuove
guerre», sempre più transnazionali e combattute in misura crescente da attori non statali.
La minaccia del terrorismo di matrice islamica rappresenterà poi, agli occhi
dell‟Occidente, il sintomo più evidente, minaccioso e preoccupante della
privatizzazione della violenza e del superamento del sistema vestfaliano. L‟11 settembre
2001, così, aggiungerà un ulteriore tassello al mosaico che Kaldor e altri autori avevano
già abbozzato, disegnando uno scenario epocale: l‟era dello Stato-nazione sta
terminando, e con essa anche l‟era della guerra intesa come conflitto tra Stati. Fabio
Armao, che di questo lavoro sarà il principale punto di riferimento teorico, ritiene che si
sia passati dal monopolio della forza fisica alla libera concorrenza, cioè a un vero e
16
proprio mercato della violenza. Un mercato alimentato di continuo dalla proliferazione
di attori privati di violenza, come signori della guerra, capiclan tribali, mafie,
guerriglieri, paramilitari, terroristi, compagnie militari private, polizie private, a volte
del tutto indipendenti o antagonisti rispetto ai governi, altre in stretto contatto – ufficiale
o informale – con essi. Un mercato che, bisogna anticipare, non coinvolge solamente la
cronica debolezza degli Stati post-coloniali e le violente trasformazioni patite dall‟area
ex-sovietica, ma che chiama in causa anche la crisi degli Stati democratici occidentali.
1.2. Lo Stato e il monopolio della forza fisica legittima
Prima di approfondire le origini, i meccanismi, le criticità e le prospettive di questo
mercato, e di descrivere le peculiarità delle diverse categorie di attori privati di violenza,
è quanto mai opportuno un excursus sul concetto di “monopolio della forza fisica (o
15
Ivi, p. 88.
16
F. Armao, Il mercato della violenza: dal monopolio alla libera concorrenza, in F. Armao - A.
Caffarena (a cura di), Introduzione al mondo nuovo, cit., pp. 155-186.
14
della violenza) legittima” e sui processi storici che hanno portato alla sua affermazione.
Com‟è noto, questa espressione è stata coniata da Max Weber per definire lo Stato: si ha
uno Stato quando un soggetto politico di carattere istituzionale è capace di «rivendicare
17
con successo il monopolio della forza fisica legittima». L‟accentramento della forza –
usata per difendere la comunità politica da attacchi esterni e per mantenere l‟ordine
interno – nelle mani di una sola istituzione è considerato unanimemente dalla
politologia l‟elemento “minimo” dello Stato, la cui prima funzione, storicamente, è
18
proprio quella della sicurezza.
L‟espulsione della violenza dalla sfera privata e il suo trasferimento sulla scena
pubblica sono dunque tra gli elementi che segnano maggiormente il passaggio dal
Medioevo alla modernità. Si tratta di un processo estremamente articolato, che non
ovunque si è realizzato con la stessa linearità e gradualità, ma che di certo può essere
19
inquadrato schematicamente. Armao individua due fasi, per così dire preliminari. La
prima è quella della formazione dei monopoli, che avviene attraverso l‟accentramento
delle risorse nelle mani di una sola persona. Il re non è più, come nel sistema feudale,
primus inter pares tra i vari poteri, ma assoggetta tali poteri divincolandosi dai legami di
vassallaggio, grazie alla costituzione di un tesoro centrale e all‟acquisto di reparti armati
mercenari da imprenditori militari.
La seconda fase preliminare riguarda la redistribuzione dei ruoli. Viene creata una
burocrazia civile in grado di far funzionare l‟amministrazione del regno, e nel frattempo
gli esclusi dal potere vengono «coinvolti nella spartizione dei benefici sociali ed
economici», andando tra l‟altro a formare il corpo ufficiali di un esercito sempre più
permanente. Successivamente, la nascita delle accademie militari comporta una
professionalizzazione della carriera militare, del tutto funzionale a una «violenza
20
sempre più collettiva». Va notato che la centralizzazione del potere prima, e
dell‟amministrazione e dell‟apparato coercitivo-militare poi, è legata soprattutto a
esigenze belliche. La legittimazione internazionale degli Stati, cioè il riconoscimento
della loro sovranità, avveniva generalmente grazie alla “prova” rappresentata da una
grande guerra. Si può dunque parlare di reciproco rinforzo tra Stato e guerra, da cui la
17
M. Weber, Wirtschaft und Gesellschaft, J.C.B. Mohr (Paul Siebeck), Tubinga, 1922; trad. it. Economia
e società, 5 voll., Edizioni di Comunità, Milano 1981.
18
D. Della Porta, Introduzione alla scienza politica, Il Mulino, Bologna 2002, pp. 16-17.
19
F. Armao, Il mercato della violenza, cit., pp. 163-164.
20
Ibid..
15
21
nota proposizione di Charles Tilly «la guerra fece lo Stato, e lo Stato fece la guerra».
La definizione weberiana non include soltanto il concetto di monopolio della forza,
ma anche la sua legittimità. Come si è appena visto, un primo passo verso la
legittimazione del potere assoluto del sovrano si ha con il coinvolgimento delle
oligarchie sconfitte nella macchina dello Stato, in particolare nel settore militare. Resta
però il fatto che, in questo primo momento, sovrano e Stato tendono a coincidere,
configurando uno “stato patrimoniale”: è quanto mai emblematico il celebre motto di
Luigi XIV «l‟État c‟est moi». In seguito il re, «in un primo tempo depositario e
personalizzazione del potere supremo, trasferisce gradatamente e deve spersonalizzare
questo suo potere a favore dello Stato», attraverso una serie di regole riconosciute che
22
vincolano l‟uso della forza al controllo della legge. L‟impersonalità del comando,
corollario del monopolio della violenza legittima dello Stato moderno, è un traguardo
che in Europa si è raggiunto in modo tutt‟altro che uniforme, in seguito anche a bruschi
movimenti della Storia come la Rivoluzione francese e la Rivoluzione inglese.
La legittimità dello Stato si consolida poi con «l‟inserimento nel sistema di settori
sempre più consistenti di masse» e con la conseguente formazione di un «diffuso
23
sentimento di identificazione con il sistema politico», un percorso accidentato che si
concluderà infine con la partecipazione attiva di tali masse al funzionamento dello Stato
e con la redistribuzione della ricchezza e delle opportunità propria del Welfare State. Un
cammino che non può prescindere dall‟affermazione di una vera e propria «ideologia»
funzionale allo «Stato burocratico accentrato»: il concetto di nazione, delicato percorso
24
di elaborazione (anche simbolica) dell‟identità e del “destino comune” di un territorio.
Nel campo militare il «sentimento di identificazione» con lo Stato si esprime con il
passaggio (non sempre compiuto fino in fondo) dal mercenario al cittadino-soldato, e
dunque agli eserciti di leva. La coscrizione obbligatoria, pur essendo un‟esperienza
21
C. Tilly, On the Formation of National States in Europe, in idem (a cura di), The Formation of
National States in Western Europe, Princeton University Press, Princeton (N.J.), 1975; trad. it. Sulla
formazione dello Stato in Europa. Riflessioni introduttive, in La formazione degli stati nazionali
nell'Europa occidentale, Il Mulino, Bologna 1984, p. 44.
22
O. Barié, Formazione e sviluppo dello stato moderno nel mondo occidentale, in Aa. Vv., Stato e senso
dello Stato oggi in Italia. Atti del corso di aggiornamento culturale dell‟Università Cattolica.
Pescara, 20-25 settembre 1981, Vita e Pensiero, Mlano 1981, p. 29.
23
S. Rokkan, Dimensions of State Formation and Nation-Building, in C. Tilly (a cura di), The
Formation of National States..., cit., trad. it. Formazione degli stati e differenze in Europa, in La
formazione degli stati nazionali…, cit., p. 406.
24
F. Rossolillo, Nazione, in N. Bobbio - N. Matteucci - G. Pasquino (a cura di), Dizionario di politica,
Gruppo Editoriale Espresso, Roma 2006, vol II, pp. 569-577.
16
«tutto sommato molto rara per tutta l‟età moderna e contemporanea», costituì «la forma
più “pubblica” concepibile di esercizio della violenza» e accrebbe enormemente «il
25
grado di legittimazione delle élites al potere». Il modello riuscì a funzionare appieno
solo nei regimi democratici (o con forme di governo assembleare), in cui la fedeltà allo
Stato-nazione si basava sulla concessione dei diritti civili e politici, oppure nei regimi
totalitari, dove tale fedeltà si esprimeva piuttosto come incontro tra consenso, fanatismo
ideologico, indottrinamento e terrore. Va sottolineato, in ogni caso, che le moderne
tecnologie e la possibilità di estendere alle truppe il modello di professionalità già in
vigore per il corpo ufficiali sembrano aver già fatto tramontare l‟epoca della coscrizione
obbligatoria, ormai abbandonata da quasi tutti i paesi occidentali.
Il modello evolutivo che si è sintetizzato è caratteristico della Storia europea e
statunitense, dove con l‟affermarsi democrazia liberale lo Stato-nazione ha raggiunto
l‟apice della sua legittimità. Questo modello si è nel frattempo diffuso in tutto il mondo
tramite la colonizzazione occidentale. È proprio nei paesi di formazione più recente,
non a caso, che l‟affermazione del monopolio della forza fisica e della legittimità dello
Stato (ovvero, in ultima analisi, della capacità di svolgere le funzioni che gli sono
proprie: sicurezza, rule of law e welfare) ha incontrato maggiori difficoltà.
L‟imposizione del modello statale occidentale si è scontrata con strutture sociali
sconosciute al mondo europeo, culture e religioni inclini al particolarismo, povertà
strutturale, disuguaglianze, conflitti più o meno latenti, interferenze delle ex-potenze
coloniali, cambi di regime troppo bruschi, impreparazione o disonestà delle classi
dirigenti: tutti ostacoli che hanno minato la solidità o addirittura la costruzione dello
Stato nelle transizioni post-coloniali o post-sovietiche. Ma, benché la letteratura si
concentri soprattutto sulla fragilità dello Stato in Africa, Asia, America Latina, Balcani,
ex Repubbliche Sovietiche, nuovi e vecchi attori privati di violenza intaccano il
monopolio statale anche nelle liberal-democrazie occidentali. La crisi dello Stato verrà
quindi descritta, con particolare riferimento alla privatizzazione della violenza, nei
diversi sviluppi che essa ha assunto rispettivamente nei paesi che hanno affrontato la
decolonizzazione, nei paesi post-sovietici e nelle democrazie liberali. In altre parole –
per usare una terminologia oramai obsoleta ma comunque utile, ai nostri fini, per
collocare geograficamente le diverse situazioni – ci si soffermerà dapprima sui paesi del
25
F. Armao, Il mercato della violenza, cit., pp. 166-167.
17
Terzo e del Quarto mondo, poi su quelli dell‟(ex) Secondo mondo e infine sul Primo
26
mondo, quello Occidentale. Ciò sarà funzionale alla comprensione dei diversi
meccanismi attraverso cui la violenza privatizzata e commercializzata si sta diffondendo
globalmente. Senza mai dimenticare, però, che il fenomeno va esaminato in una
prospettiva unitaria, per coglierne il reciproco, straordinario impatto – già reale o ancora
potenziale – sul sistema internazionale e sulla sicurezza globale.
1.3. Stati deboli, Stati falliti e mercato della violenza nell’epoca della
globalizzazione
Fino all‟avvento del XXI secolo il tema degli “Stati falliti” – cioè gli Stati incapaci di
adempiere le proprie funzioni – era percepito in Occidente come un problema locale,
“interno” al Terzo mondo, e come tale oggetto di interesse e studio solo nell‟ambiente
degli esperti di sviluppo e di sicurezza regionale, oltre che per le organizzazioni
internazionali e di quella porzione di opinione pubblica più attenta ai diritti umani. Solo
recentemente la questione ha acquistato rilevanza nelle politiche della sicurezza globale.
L‟11 settembre ha chiarito al mondo occidentale che se i problemi locali sono ignorati
possono produrre rischi globali. Tutti sembrano ormai essere concordi sul fatto che la
fragilità degli Stati non rappresenta soltanto un ostacolo alla sicurezza degli abitanti e
allo sviluppo umano, sociale e politico, ma anche un fattore di diffusione della violenza,
del terrorismo, del crimine organizzato. La politica estera statunitense, dopo gli attentati
di matrice islamica al World Trade Center e al Pentagono, prese le mosse da una
constatazione: «L'America è ora minacciata dagli Stati conquistatori meno di quanto
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non lo sia da quelli falliti». Da allora, l‟espressione “Stato fallito”, per la verità in uso
già da tempo, è entrata nel lessico comune; sono stati discussi i criteri che definiscono la
fragilità dei vari paesi e sono stati approntati numerosi indici per misurare e classificare
le performance degli Stati.
26
L‟espressione “Terzo mondo” fu coniata negli anni Cinquanta per distinguere quelle realtà, emerse in
seguito alla decolonizzazione e riunitesi in occasione della Conferenza di Bandung (1955), che si
dichiararono “non allineate” rispetto alle due superpotenze e alle loro zone di influenza (il “Primo” e il
“Secondo mondo”). L‟espressione “Quarto mondo”, invece, fu introdotta per distinguere i paesi del
Sud del mondo che ancora non avevano intrapreso la strada dello sviluppo. Il ricorso a tale
terminologia, nel presente contesto, è sganciato dal significato originale di queste espressioni.
27
The White House, The National security Strategy of the United States of America, Washington D.c.
2002, p. 1. <http://merln.ndu.edu/whitepapers/USnss2002.pdf> (trad. propria).
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