Introduzione
La sostenibilità è uno dei principi fondamentali a cui si ispira la cooperazione
internazionale allo sviluppo. Larga parte dei progetti di cooperazione si dedica
sempre più allo sviluppo del commercio equo e solidale nelle comunità locali.
Parlando di commercio equo e solidale, non possiamo limitarci a considerare solo
l‘aspetto produttivo -ad esempio progetti realizzati per lo sviluppo di prodotti
agricoli, oppure di tipo tessile o di oggettistica- ma dobbiamo considerare anche i
servizi, che rispettano gli stessi principi e criteri. Tra questi, il turismo responsabile è
un esempio significativo.
Nel presente lavoro si studia la sostenibilità del turismo responsabile all‘interno del
commercio equo e solidale. Comunemente il termine sostenibilità rimanda
riduttivamente all‘ambiente, mentre la sostenibilità dipende anche da altri elementi
altrettanto importanti e dal modo in cui essi interagiscono, ossia dalle relazioni che si
instaurano tra tutti gli elementi che concorrono a definire il sistema delle risorse
presenti all‘interno di un processo. Con questo termine indichiamo quello che è un
processo legato alla riproducibilità delle risorse che utilizza. Una qualunque attività
può essere definita sostenibile se è riproducibile nel tempo, per far ciò è necessario
che la riproducibilità delle risorse da essa utilizzate sia tutelata. Nel momento in cui
riscontriamo una convenienza economica nel continuare una attività e c‘è la
possibilità di farlo, cioè ci sono le risorse, siamo dinanzi ad un‘attività sostenibile.
Attraverso lo studio illustreremo come la sostenibilità sia strettamente legata
all‘insieme di relazioni che si instaurano tra le risorse in un determinato contesto e,
sulla base di ciò si va a costruire il percorso specifico che si intende perseguire
secondo gli obiettivi che si vogliono ottenere. Si cercherà di sottolineare che per
soddisfare i bisogni futuri della comunità sarà necessario in un primo luogo
conoscere le interazioni attuali che caratterizzano l‘ambiente, sia che ci si voglia
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concentrare nell‘ambito produttivo sia in altri contesti. Si vuole mettere in risalto che
nel momento in cui costruiamo la catena del valore vanno considerate, oltre alle
attività, anche i vari soggetti presenti, le cui interazioni possono avere impatti
positivi o negativi. Per ―soggetti‖ si intendono le comunità, le istituzioni ma anche
l‘ambiente naturale e le risorse collettive presenti all‘interno di una comunità.
Lo studio si basa sull‘utilizzo del quadro teorico promosso dal Premio Nobel, Elinor
Ostrom, sulla gestione dei beni comuni. Uno dei punti centrali del pensiero della
Ostrom è legato all‘apertura del settore pubblico e di quello privato in modo che
incoraggi la soluzione dei problemi da parte dei singoli individui in tutti gli aspetti
dell‘esistenza. Sviluppa una teoria che identifica le condizioni che devono valere
affinché una gestione comunitaria dei beni comuni possa divenire sostenibile nel
lungo termine, come sarà possibile vedere nel seguito del percorso di analisi.
Si è deciso di prendere come caso di studio il turismo perché è particolarmente
interessante in quanto, come spiegheremo nel seguito del lavoro, pone in evidenza
che il nucleo centrale del suo funzionamento è legato alle relazioni. Potremo vedere
che, a differenza dei settori produttivi in cui il processo termina nel momento in cui il
consumatore acquista l‘oggetto, nel turismo il consumatore è parte integrante del
processo produttivo. Di conseguenza è evidente quanto le modalità di interazioni
possano influenzare le attività svolte ed il loro risultato.
I primi due capitoli rappresentano il quadro generale; nel terzo capitolo si presenta il
modello della gestione dei beni comuni di E. Ostrom su cui si basa l‘intera ricerca;
infine nell‘ultimo capitolo vi è la presentazione e discussione della ricerca fatta.
Questa parte dell‘analisi a sua volta si costruisce su due momenti. In primo luogo vi
è il laboratorio di analisi tenuto sul campo in un Villaggio senegalese, Diol Kadd,
che in collaborazione con un‘associazione italiana, pianifica lo sviluppo dell‘attività
turistica. In secondo luogo presentiamo la ricerca empirica, in cui si analizzano i
problemi del settore, svolta intervistando i soci dell‘Associazione Italiana del
Turismo Responsabile.
Si è deciso di aprire lo studio con una presentazione della cooperazione
internazionale allo sviluppo poiché il turismo responsabile nasce all‘interno di questo
contesto: ONG che organizzano piccoli viaggi per far conoscere i progetti ai propri
amici all‘interno del commercio equo e solidale. Una volta inquadrato lo sviluppo
storico e gli attori della cooperazione, si passa ad un‘analisi più approfondita del
turismo mondiale per poi ricollegarsi alla realtà del turismo sostenibile e responsabile
in Italia, presentandone i vari aspetti che la caratterizzano e i suoi principali attori.
Date le potenzialità di questo settore, diverse sono le organizzazioni, anche
internazionali, che hanno visto in esso uno strumento pro-poor e come tale vedremo
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che molte ONG hanno investito nella realizzazione di progetti per lo sviluppo di
attività turistiche nei PVS, nel rispetto della loro mission, cioè di ridurre il livello di
povertà dei gruppi sociali più deboli.
In questo momento la definizione più consolidata e condivisa del turismo
responsabile è quella di un viaggio in cui si pongono al centro le comunità locali
cercando di valorizzarle. Questa definizione viene dall‘esperienza di AITR e dei suoi
soci che cercano, attraverso i loro viaggi e le loro iniziative, di abbattere le barriere
culturali valorizzando gli aspetti più naturali e reali di un territorio, facendoli
diventare gli elementi caratterizzanti all‘interno di un viaggio di turismo
responsabile.
Nel corso della discussione della letteratura si mostrerà che quest‘ultima ancora oggi
non ha sciolto l‘ambiguità di voler separare i concetti di sostenibilità e responsabilità.
Attraverso la descrizione dell‘evoluzione dell‘esperienza sul campo, cercheremo di
dimostrare che questi due concetti sono congruenti. Come detto precedentemente con
il termine sostenibilità indichiamo un processo che tutela la riproducibilità delle
risorse utilizzate. All‘interno del turismo il villaggio e il turista rappresentano una
parte delle risorse, anche la relazione che si instaura tra di loro è una risorsa di cui va
curata la riproducibilità. Attraverso l‘utilizzo del quadro teorico esposto da E.
Ostrom spiegheremo cosa vuol significare riproducibilità delle risorse utilizzate e
quali sono gli elementi che vanno presi in considerazione. Per ottenere un processo
riproducibile e quindi sostenibile è necessario che gli attori che sono presenti
condividano un comportamento responsabile dato dalla loro consapevolezza che le
loro azioni portano a modificare il contesto in cui ci si trova influenzando il processo
in atto. Questo è ancora più evidente all‘interno del turismo perché essendo un
servizio vede sia il villaggio ospitante o la comunità e sia i turisti come produttori e
consumatori del servizio stesso. Ad esempio le relazioni che si vanno a creare ogni
volta che si ha un incontro tra questi due soggetti possono stimolare dei cambiamenti
dal momento che si creano nuove relazioni. Abbiamo un input di informazioni che
vengono da loro assorbite e riutilizzate. Per tale ragione è importante che si arrivi a
definire delle buone pratiche che ci permettano di arrivare ad un equilibrio tra la
sostenibilità del processo avviato e la responsabilità dei suoi attori. Dunque: il
turismo responsabile è un turismo sostenibile, ed il turismo sostenibile è un turismo
responsabile.
Nonostante la sensibilità e l‘attenzione dell‘organizzazione AITR, che vanta un buon
bagaglio culturale e un‘accurata analisi sull‘esperienza vissuta, consentano di
presentare un insieme di buoni presupposti, non è per niente detto che l‘operazione di
realizzare delle attività di turismo sostenibile sia semplice e quindi segua un
protocollo standard. Questo perché ci basiamo su un sistema di relazioni dinamico
9
che a sua volta non può essere considerato come una tecnologia data, ma è un
qualcosa che si modifica in base ad un insieme di variabili che possono relazionarsi
in modo sinergico o demolitore. Discuteremo che nonostante gli operatori siano
consapevoli, abbiano esperienza, relazioni, canali e metodiche per portare avanti
questa versione non è per nulla detto che l‘esperienza necessariamente funzioni,
proprio perché si basa su relazioni dinamiche e non statiche. Si cercherà di vedere il
problema legato alle difficoltà riscontrate dagli operatori non solo in chiave
comunicativa ma più su un piano organizzativo. Gli interessi diversi che sono
perseguiti dai vari attori influenzano l‘insieme delle attività sviluppate in ambito
dello sviluppo del settore turistico. La difficoltà comunicativa rappresenta, infatti,
l‘ombra dei processi che tardano ad integrarsi tra loro e di coordinarsi. Vedremo,
infatti, che prima di definire cosa fare è importante inquadrare i bisogni e gli interessi
sentiti dagli attori in gioco in quel momento.
Dall‘analisi fatta ci si può render conto quanto la pianificazione delle attività debba
essere curata nei minimi dettagli. In contesti fragili come quelli delle economie
emergenti è necessario responsabilizzare le comunità locali per fare in modo che
attraverso una riallocazione delle risorse reali si possano generare opportunità che
diano vita a un cambiamento che non vada a danneggiare l‘entità del territorio stesso.
Nella parte in cui presenteremo il quadro teorico, vedremo che il modello Social-
Ecological System, di E. Ostrom, ci presenta qual è il sistema di interazioni che si
sviluppa e che deve essere considerato, per poi passare ad uno studio su diversi livelli
e su come devono essere prese le decisioni.
I vari punti studiati nel modello teorico vengono, nell‘ultimo capitolo,
contestualizzati nel turismo sostenibile. Attraverso il laboratorio di analisi e lo studio
empirico (questionari assistiti e le interviste) si potrà osservare se quanto riportato
nel modello teorico è riscontrabile nella realtà di tutti i giorni e se effettivamente è
fondamentale un‘analisi approfondita delle relazioni che caratterizzano un‘attività.
Per quel che concerne lo studio empirico si è fatto riferimento ai soci di AITR, da cui
sono state estrapolate le difficoltà degli operatori, la loro consapevolezza sulla
sostenibilità e i limiti presenti nella sua rete, dovuti probabilmente alla mancanza di
un coordinamento dei soci che ne disciplini i ruoli, le responsabilità e gli interessi.
Per realizzare questo studio si ringraziano in particolar modo il professore Enrico
Giovannetti, tutti i soci di AITR che hanno contribuito attraverso le interviste ed i
questionari, un particolare ringraziamento va anche a Giorgio Gatta di T-erre e a
tutto il villaggio di Diol Kadd.
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Abbreviazioni
DGCS Direzione generale per la cooperazione allo sviluppo del
Ministero degli Affari Esteri
MAE Ministero degli Affari esteri
ONG Organizzazioni non governative
ONLUS Organizzazioni non lucrative di utilità sociale
PVS Paesi in via di sviluppo
REL Enti locali e Regioni
WTO o UNWTO World Tourism organization
AITR Associazione Italiana Turismo Responsabile
CEeS Commercio equo solidale
CTM La cooperativa Cooperazione Terzo Mondo
IADF Istitutional Analysi and Development Framework
SES Social-Ecological System
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1 Cooperazione Internazionale allo
Sviluppo
1.1 Evoluzione storica della cooperazione internazionale allo
sviluppo
La storia della cooperazione internazionale allo sviluppo inizia dopo il periodo
della Seconda Guerra Mondiale, quando nascono gli Official development assistance
con l‘obiettivo principale di sostenere i nuovi Stati divenuti indipendenti con la
decolonizzazione. Dagli anni ‘50 sino ai nostri giorni possiamo vedere che il modo di
fare cooperazione internazionale presenta delle fasi nettamente diverse, sono state
individuate quattro in base all‘ideologia seguita e agli obiettivi perseguiti nei progetti
1
di cooperazione (F. Bonaglia, 2006).
Il primo periodo va dagli anni „50-‟60 (industrializzazione e
istituzionalizzazione del sistema di cooperazione internazionale allo sviluppo).
La politica per lo sviluppo inizia intorno agli anni ‘50 quando vi sono le prime
riflessioni sulle economie di sviluppo da parte degli economisti, come Rosenstein
Rodan (inventore del big push model). In questa prima fase l‘obiettivo di sviluppo
coincideva con la mera crescita del reddito attraverso l‘industrializzazione, la
sostituzione delle importazioni, gli investimenti nelle infrastrutture, la centralità
urbana e la costruzione di infrastrutture di tipo sociale. Il modello economico
prevalente in questa prima fase è il modello Harrod-Domar, elaborato da due
economisti americani Roy Harrod e Evsey Domar. Tale modello prevedeva che la
crescita del reddito fosse proporzionale all‘investimento e quindi al risparmio.
Secondo questa concezione ci si aspettava che attraverso l‘aumento dell‘investimento
1
La suddivisione in quattro periodi si rifà a quella fatta da Bonaglia F. in ―La Cooperazione
internazionale allo sviluppo‖, p.9.
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si alimentasse la crescita del reddito dei paesi arretrati e che questa a sua volta avesse
delle ricadute positive sulla popolazione. La strategia adottata per raggiungere questo
obiettivo era di promuovere l‘industrializzazione: tutte le risorse disponibili erano
utilizzate a tale scopo. L‘industria assume un ruolo da protagonista all‘interno del
processo di sviluppo e di modernizzazione, però per far si che questo processo
decollasse e si auto-sostenesse erano necessarie una massa critica di risorse
(soprattutto infrastrutture) ed una quota costante di investimenti che mancavano nei
PVS. Attraverso il trasferimento delle risorse dai paesi donatori ai PVS si sarebbe
dovuta generare la spinta necessaria (teoria del big push) che avrebbe permesso loro
di avviare il giusto processo di sviluppo, e nell‘arco di dieci o quindici anni si
sarebbe raggiunto l‘auto-sostenimento necessario per inserirsi nel mercato mondiale
e non avere più bisogno degli aiuti finanziari.
Lo Stato aveva quindi un ruolo centrale nel dirigere il processo di industrializzazione
del paese realizzando piani pluriennali, rimediare alle inefficienze dei mercati reali e
allocare le risorse, inclusi gli aiuti alle industrie nascenti che dovevano essere
protette dalla competizione delle importazioni.
Il secondo periodo è negli anni Settanta (riflessioni sull‟efficacia degli aiuti,
basic needs e crisi economica). In questo periodo l‘idea della riduzione della
povertà e il miglioramento delle condizioni di vista nei paesi in via di sviluppo si
concentravano sui basic human needs (i bisogni fondamentali). Si pensava che i
governi dei paesi beneficiari degli aiuti dovessero impegnarsi in politiche di
redistribuzione del reddito a favore delle categorie più svantaggiate. Si passa da un
modello in cui lo sviluppo è trainato da un solo settore (l‘industria), dove il
principale limite allo sviluppo è la carenza di risparmio, a un modello in cui si
riconosce l‘importanza dei legami intersettoriali e dell‘accesso ai mercati
internazionali. Questa idea fu sostenuta dal presidente e dal vice-presidente della
Banca Mondiale, Robert McNamara e dall‘economista Hollis Chenery. Hollis
Chenery dimostrò come, anche laddove la carenza di risorse umane e finanziarie
fosse alleviata attraverso gli APS (aiuti per lo sviluppo), la crescita poteva ancora
essere ostacolata dal mancato accesso a mercati, beni e tecnologie non disponibili
immediatamente, per tale ragione la crescita del reddito non era sufficiente a ridurre
la povertà.
Gli aiuti si focalizzavano su azioni e risultati concreti, di cui beneficino direttamente
i poveri, come ad esempio: vaccinazioni, case e infrastrutture rurali, costruzione di
pozzi per garantire l‘accesso all‘acqua, costruzione di scuole e cosi via. Fu
riconosciuto che l‘impatto degli aiuti dipende anche dall‘efficienza con cui il paese
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recettore utilizza le risorse oltre alla politica economica e sociale. Attraverso questa
visione si incoraggiavano maggiormente i donatori ad aumentare gli aiuti e a
migliorare la qualità, riducendo il ricorso agli aiuti legati e agli aiuti alimentari. I
paesi membri della DAC si impegnavano ad indirizzare in misura maggiore i propri
aiuti verso le istituzioni multilaterali, le quali erano meno inclini a perseguire fini
diversi da quelli dello sviluppo. In questo stesso periodo entrano in scena nuovi attori
rappresentanti della società civile, come le Organizzazioni Non Governative (ONG),
impegnate in un ruolo di advocary degli interessi dei PVS e in azioni di soccorso in
caso di emergenze umanitarie. Queste organizzazioni iniziarono a finanziare e ad
assumere responsabilità dirette nell‘attuazione di programmi di aiuto allo sviluppo, in
particolare nei progetti di sviluppo rurale. In questo periodo il numero di ONG iniziò
a crescere in maniera esponenziale e spesso anche disordinata, giungendo in alcuni
casi al paradosso di ONG che dopo aver ottenuto dei finanziamenti pubblici
perdevano la loro ―vocazione ‖ di non governative.
Con la crisi petrolifera del 1973 e le guerre in Medio Oriente si impenna il prezzo del
petrolio ed aumentano i capitali investiti in crediti destinati ai PVS, spesso sotto
regimi dittatoriali che non ne favoriscono l'impiego per un effettivo sviluppo, con la
conseguenza dell'aumento rapido del debito per i paesi del sud del mondo.
Terzo periodo è durante gli anni Ottanta (crisi del debito e aggiustamento
strutturali). Con la fine degli anni Settanta si verifica lo scoppio della crisi del
debito in molti PVS che si ritrovano nella situazione di impossibilità di restituire i
prestiti accordati. Questo porta alla crescita del divario tra Nord e Sud del mondo e
alla disillusione riguardo all‘efficacia degli aiuti allo sviluppo. Si introduce il
concetto di Partnerships, alleanza tra istituzioni del Nord e del Sud per il
raggiungimento di obiettivi condivisi. La Banca Mondiale mette in atto i Piani di
aggiustamento strutturali (SAP) e le Strategie di assistenza. Con lo scoppio del debito
i paesi creditori proposero a quelli debitori un piano per la ristrutturazione del debito,
accompagnato da maggiori aiuti, dietro l‘adesione del paese debitore a un
programma di aggiustamento strutturale (structural adjustment program, SAP). I
Programmi di aggiustamento strutturale sono creati con l'obiettivo di ridurre gli
squilibri fiscali del paese debitore. La banca dalla quale un paese debitore riceve il
proprio finanziamento dipende dalla tipologia di necessità. In generale, si sostiene
che i finanziamenti concessi dalla Banca Mondiale e dal FMI siano progettati per
promuovere la crescita economica, generare reddito, e ripagare il debito che i paesi
hanno accumulato. Alla fine degli anni Ottanta, l‘aggiustamento strutturale, diventa il
bersaglio di una campagna di protesta globale contro il modello neoliberista adottato
dalla comunità dei donatori.
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Il quarto periodo è negli anni Novanta (lo sviluppo sostenibile e la
cooperazione decentrata). Verso la fine degli anni Ottanta, con la pubblicazione del
rapporto Our common future o rapporto Brundtland (1987), si fa avanti il tema della
sostenibilità ambientale e sociale all‘interno dei processi di sviluppo. L‘innovazione
di questo rapporto è di individuare un nesso specifico tra ambiente e sviluppo.
L‘esperienza dell‘aggiustamento strutturale, la trasformazione delle economie
socialiste e le crisi finanziarie hanno reso evidente l‘importanza della qualità delle
istituzioni e della governante. Sia gli studi sulla crescita economica che quelli
sull‘efficacia degli aiuti mostrano come le differenze nella qualità delle istituzioni
spieghino in buona misura la capacità di un‘economia di crescere più rapidamente, di
adattarsi meglio al cambiamento e di beneficiare in misura maggiore degli aiuti.
Riconoscendo queste necessità, la parola ―chiave‖ della politica di cooperazione allo
sviluppo negli anni Novanta diventa ownership. Ad indicare l‘appropriazione del
processo decisionale da parte degli attori locali ci sono gli stakeholders. Si passa ad
un concetto di cooperazione internazionale partecipata, secondo la quale bisogna
rispondere alle esigenze locali attraverso un punto di vista locale e con il
coinvolgimento dei beneficiari nelle attività pianificate.
Questa evoluzione ha implicazioni pratiche anche sulla realizzazione dei progetti di
cooperazione che sono stati realizzati in seguito. Molte agenzie di cooperazione e
istituzioni internazionali abbracciano il cosiddetto ―approccio partecipativo‖ allo
sviluppo e affidano direttamente a ONG, sia del Nord sia del Sud, i propri progetti.
Da questo momento le ONG diventano sempre più gli attori fondamentali della
cooperazione allo sviluppo.
Nel tempo si è passati da una cooperazione centralizzata a una cooperazione
decentralizzata, che vede come protagonisti i comuni, le provincie, le regioni, le
piccole associazioni.
16
Cooperazione Centralizzata
(anni ‘50 -‘70 – metà 80‘ )
MACRO-COOPERAZIONE
(Cooperazione Economica e Finanziaria, Grandi Infrastrutture, ecc.)
Cooperazione Decentralizzata
(fine ‘80 –‘90 – oltre )
MICRO-COOPERAZIONE
(Enti locali, ONG, Volontariato, Sindacati, Immigrati, PMI, Cooperative, ecc.)
Fonte: G. Barbera, ―Corso per volontari della cooperazione internazionale‖
La cooperazione centralizzata si ha nei primi periodi, sino a quando non si è
introdotto il concetto di Sviluppo Sostenibile. Questo approccio presenta diversi
limiti perché si basava sul centralismo delle decisioni e delle attività e
assistenzialismo, attraverso questo modo di agire si andava in contro a:
L‘incapacità di raggiungere le fasce marginali della società e quindi più a
rischio, con ciò rimanevano insoddisfatti i bisogni e gli obiettivi sembravano
solo apparentemente raggiunti poiché i problemi legati alla povertà e alle
condizioni di vita non miglioravano;
Scarsa partecipazione dei soggetti locali che porta ad una bassa attivazione
del capitale sociale locale;
Difetto di coordinamento, poiché si hanno alti costi gestionali, scarso rispetto
delle specificità locali;
Approccio Top-Down con scarsa formazione tecnica dei soggetti locali;
Ruolo passivo dei beneficiari;
Dipendenza politico-culturale.
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1.1.1 Cooperazione decentrata
Con la fine degli anni Ottanta e l‘inizio degli anni Novanta si ha un notevole
cambiamento all‘interno della cooperazione internazionale per lo sviluppo. Si fa
avanti il concetto di cooperazione decentrata che vede un maggiore ruolo delle
Autonomie locali (regioni, provincie e comuni)che non si limitano più solo a
contribuire al finanziamento dei progetti di cooperazione portati avanti dai soggetti
del proprio territorio, ma assumono di se un ruolo pro-attivo.
La cooperazione decentrata è espressione di un nuovo modo di concepire lo sviluppo
equo e sostenibile tra i popoli, fondato: sulla partecipazione, sulla promozione dei
diritti umani e delle libertà fondamentali, sul rafforzamento delle capacità e dei poteri
degli attori decentrati e dei gruppi svantaggiati. L‘obiettivo è di favorire uno sviluppo
che consideri in misura maggiore (rispetto alle tradizionali politiche tra Stati) i
bisogni e le priorità delle popolazioni nei loro luoghi concreti di vita (Iteco 1999).
La cooperazione decentrata assume principi, modi e valori aggiunti particolarmente
innovativi e ambiziosi, che risultano molto impegnativi. Questo soprattutto per le
Autonomie locali che hanno iniziato da pochi anni a misurarsi con le problematiche
della cooperazione allo sviluppo. In questo periodo sono ancora poche le Regioni, le
Provincie e i Comuni che cercano di integrare questi progetti nei piani di sviluppo
del proprio territorio. Probabilmente perché le risorse finanziarie e soprattutto quelle
umane sono ancora scarse. La cooperazione decentrata è vissuta adesso più come
un‘appendice dell‘amministrazione, vincolata ai soggetti tradizionali (organizzazioni
non governative) e nuovi (associazioni no global, ambientalistiche e per i diritti
umani, agenzie di sviluppo locale) impegnati nei rapporti Nord-Sud (Iteco 1999).
La base giuridica della cooperazione decentrata, almeno in Italia, non risulta ancora
sviluppata quanto le pratiche che nel paese ad essa si riferisco. Da alcuni spunti
contenuti nel secondo articolo della legge.49/87, la maggioranza delle Regioni ha
deliberato delle proprie leggi sulla materia, cercando sia di indirizzare e coordinare
gli interventi di rilevanza internazionale degli enti subordinati, sia di gestire
autonomamente e autorevolmente azioni internazionali del sistema.
Sulla base della legge 68/1993, i Comuni hanno la possibilità di gestire direttamente
azioni di sostegno all‘export locale, interventi di diplomazia popolare a difesa di
interessi umanitari e progetti di cooperazione per lo sviluppo di territori che
condividono con i primi alcuni interessi strategici comuni.
18
Gli attori della cooperazione decentrata sono molteplici. Le ―linee guida sulla
2
cooperazione decentrata‖, distribuite dal MAE, fanno riferimento a: REL, DGCS,
ONG, Università e centri di ricerca e formazione, associazioni professionale e di
volontariato, cooperative, piccole e medie imprese (PMI), imprese sociali e culturali,
parchi e agenzie per l‘ambiente, servizi pubblici, organizzazioni sindacali, enti
strumentali, associazioni di migranti, professionisti del territorio, del nord e del sud,
e le emanazioni senza fini di lucro di enti for profit.
Nonostante la loro numerosità ancora oggi non si dispone di meccanismi univoci di
coordinamento tra di essi che ne disciplini i ruoli e le responsabilità di ciascuno. La
forma più avanzata di coordinamento tra soggetti diversi all‘interno di interventi di
cooperazione decentrata è quella sviluppata dai Comitati Locali per la cooperazione
decentrata operativi nei programmi di sviluppo umano del MAE/UNOPS (Tomei
2005).
1.1.2 Concetto di sviluppo sostenibile
Negli anni Ottanta si iniziò a prendere maggiore consapevolezza che il
concetto di sviluppo, strettamente legato a quello di crescita economica, entrava in
evidente conflitto con l‘ambiente, sempre più minacciato dall‘inquinamento di una
crescente industrializzazione. Iniziò a sentirsi l‘esigenza di conciliare crescita
economica ed equa distribuzione delle risorse in un nuovo modello di sviluppo, che
considerasse la tutela dell‘ambiente e più in generale le interrelazioni tra ambiente e
benessere sociale.
Il culmine di questo nuovo approccio allo sviluppo si ebbe nel 1987, come già
accennato, quando la Commissione Mondiale per l‘Ambiente e lo Sviluppo (World
3
Commission on Environment and Development, WCED) pubblicò il suo rapporto
dal titolo ―Our Common Future‖, meglio noto come “Rapporto Brundtland”, dove
fu introdotto il concetto di ―sviluppo sostenibile‖ (Lanza 2006):
―L’umanità ha la possibilità di rendere sostenibile lo sviluppo, cioè di far si che esso
soddisfi i bisogni dell’attuale generazione senza compromettere la capacità di quelle
2
Le Linee Guida sono disponibili on line al sito del Ministero degli Affari Esteri, Direzione Generale
per la cooperazione allo sviluppo (www.esteri.it)
3
La commissione Mondiale per l‘Ambiente e lo Sviluppo del 1987 è chiamata anche Earth Summit,
fu istituita nel 1983 dal Segretario Generale delle Nazioni Unite e presieduta dall‘allora primo
ministro norvegese Gro Harlem Brundtland,
19
future di rispondere ai loro. Il concetto di sviluppo sostenibile racchiude quello di
“bisogni”, in particolare i bisogni primari dei poveri del mondo, ai quali deve essere
data assoluta priorità; e comporta “limiti”, ma non assoluti, bensì imposti
dall’attuale stato della tecnologia e dell’organizzazione sociale alle risorse
economiche e dalla capacità della biosfera di assorbire gli effetti delle attività
umane. La tecnologia e l’organizzazione sociale possono essere però gestite e
migliorate allo scopo di inaugurare una nuova era di crescita economica» (United
4
Nations 1987).
Il concetto di ―sviluppo sostenibile‖ si è evoluto negli anni successivi
attraverso importanti momenti come la Conferenza delle Nazioni Unite
sull‘Ambiente e lo Sviluppo (United Nations Conference on Environment and
Development, UNCED) di Rio de Janeiro nel 1992 con la ―Dichiarazione di Rio‖ e
5
―Agenda 21‖ e il Vertice Mondiale (che prevede, la partecipazione di capi di Stato
e di governo, agenzie internazionali, rappresentanti delle ONG, gruppi di interesse
del settore privato e della società civile) sullo Sviluppo Sostenibile di Johannesburg
nel 2002, come occasione per riflettere su quanto iniziato alla Conferenza di Rio e
per realizzare gli obiettivi dello sviluppo sostenibile (O. Pieroni 2003).
Comunemente sono distinte tre dimensioni di sviluppo sostenibile:
sostenibilità economica: capacità di generare, in modo duraturo, reddito e
lavoro per il sostentamento della popolazione ai diversi livelli della società;
indirizzare in modo equilibrato la rendita economica derivante da tutte le
attività produttive; eco efficienza dell‘economia, intesa come uso razionale ed
efficiente delle risorse, con la riduzione dell‘impiego di quelle non
rinnovabili;
sostenibilità sociale: rispettare i diritti umani, garantire condizioni di
benessere umano (sicurezza, salute, istruzione, ecc.) e pari opportunità
4
Il documento è consultabile anche on-line dal sito web www.un-documents.net/wced-ocf.htm.
5
La prima enuncia una serie di postulati politici che concretizzano il principio dello sviluppo
sostenibile e lo traducono in opzione necessaria della società internazionale. La seconda è un
documento programmatico che stabilisce una pluralità di obiettivi e l‘indicazione degli strumenti volti
al perseguimento dello sviluppo sostenibile, imperniati su fattori dinamici chiave, quali:
trasformazione dei modelli di consumo, integrazione dell‘ambiente e dello sviluppo nei processi
decisionali, protagonismo responsabile delle istituzioni internazionali e degli Stati, informazione e
partecipazione del pubblico ai processi decisionali. Si tratta, dunque, del piano d‘azione per
l‘evoluzione su scala globale verso un modello socio-economico sostenibile e condiviso, capace di
produrre benessere diffuso e prolungato nel rispetto dei limiti imposti dall‘ecologia del pianeta ed a
garanzia dell‘equità sociale.
20
distribuite in modo equo tra strati sociali, età e generi, ed in particolare tra le
comunità attuali e quelle future; assicurare un‘equa distribuzione dei profitti,
in particolare con l‘obiettivo di ridurre la povertà; mantenere e rafforzare i
sistemi di produzione locale, riconoscendo e tutelando le culture e evitando
ogni forma di sfruttamento;
sostenibilità ambientale: tutelare e gestire le risorse, specialmente quelle
non rinnovabili, prevedendo specifiche azioni volte a minimizzare
l‘inquinamento di aria, acqua e suolo, e a conservare le diversità biologiche e
il patrimonio culturale (M. De Carlo 2008).
L‘ottica dello sviluppo sostenibile richiede la necessità di coniugare gli aspetti
ambientali con quelli sociali ed quelli economici, soprattutto se prendiamo in
considerazione molte comunità dei PVS, in cui l‘elemento ecologico è strettamente
connesso con i sistemi d‘organizzazione sociale (Ostrom, Anderies e Jansses 2004)
(Casuccio e Giovannetti 2008).
1.2 Gli Attori della cooperazione internazionale allo sviluppo
I protagonisti della cooperazione internazionale allo sviluppo possono essere
distinti in due categorie: attori pubblici e attori privati (F. Bonaglia 2006). I primi
includono i governi e le istituzioni internazionali, i secondi includono le imprese e
chi opera nel settore no-profit.
Oltre a questa distinzione possiamo distinguerli in: bilaterali, multilaterali e
non governativi. I donatori bilaterali sono tutti i governi dei paesi sviluppati ed un
numero crescente di paesi emergenti, che attuano in qualche modo politiche di
cooperazione allo sviluppo. Accanto ai governi vi sono numerosi organismi
multilaterali che operano in questo ambito. I principali sono: le istituzioni finanziarie
internazionali, le agenzie delle Nazioni Unite e la Commissione Europea. I donatori
6
non governativi sono, invece, la società civile e il settore privato.
Tutti questi attori sono in relazione tra di loro e si interessano o dei
finanziamenti delle attività di cooperazione internazionale o dell‘aspetto più
6
La suddivisione degli attori della cooperazione internazionale allo sviluppo si rifà a quella fatta da
Bonaglia in ―La cooperazione internazionale allo sviluppo‖, p.36.
21