Introduzione
Dal mese di Maggio 2008 sto svolgendo un tirocinio presso l’Ufficio di Esecuzione
Penale Esterna di Treviso. L’UEPE è un servizio del Ministero della Giustizia che svolge
una funzione di controllo e contemporaneamente di sostegno nei confronti di soggetti,
autori di reato, che stanno usufruendo di una misura alternativa alla detenzione.
L’obiettivo di questa tesi è stato comprendere la visione di queste persone relativamente
all’esperienza che stanno vivendo, cercando di cogliere le loro aspettative iniziali, le
difficoltà incontrate durante il percorso e il loro punto di vista riguardo lo scopo della
misura. In altre parole si è trattato di capire se la misura alternativa viene vissuta come
un’opportunità, al di là delle limitazioni provenienti dalla stessa. A tal fine ho
somministrato un questionario, costituito da domande aperte e chiuse e da compilare in
modo anonimo, ad un campione significativo di utenti in carico presso l’UEPE di
Treviso, in modo particolare affidati in prova al servizio sociale e detenuti domiciliari.
Prima di presentare i risultati di questa ricerca (Cap. 3) mi sembra opportuno elaborare
una cornice teorica per comprendere che cosa sono le misure alternative, quando sono
state introdotte nel sistema penale e come funzionano.
E’ necessario partire dall’anno 1975, durante il quale, con l’approvazione della riforma
dell’Ordinamento Penitenziario, si è affermato un nuovo modo di concepire l’esecuzione
penale basato sull’idea che le pene devono avere come finalità la rieducazione del
condannato. Questa è la concezione che sta alla base del cosiddetto modello correzionale,
o riabilitativo, della giustizia penale, secondo il quale la pena deve essere “utile”, deve
cioè avere come scopo la prevenzione speciale. La finalità rieducativa viene perseguita
attraverso un percorso trattamentale che può essere anche extra-istituzionale, ovvero può
essere svolto al di fuori del contesto carcerario attraverso le misure alternative. Queste
ultime, quindi, si presentano come nuovi strumenti sanzionatori alternativi alla
detenzione che permettono al reo di svolgere un percorso finalizzato al reinserimento
nella società. Già nella riforma dell’Ordinamento Penitenziario è rilevabile la presenza di
due opposte tendenze, che si alterneranno, nel corso del tempo, in tutte le modifiche
apportate alla legge: una conservatrice, restrittiva, che conferma la rigidità del sistema
penale e quindi la centralità della pena detentiva; l’altra riformatrice, dettata da logiche di
decarcerizzazione basate su criteri di attenuazione dell’impatto affittivo della pena.
Nell’ambito della riforma se da un lato sono state introdotte le misure alternative alla
detenzione, dall’altro queste non possono essere concesse se il reo non ha prima scontato
un periodo più o meno lungo di pena detentiva. Oggi sembra prevalere una tendenza
restrittiva, vista la crisi del sistema correzionale di giustizia penale: l’idea risocializzativa
non regge di fronte al prevalere di una concezione retributiva, che pone al centro
l’istituzione carceraria la quale risulta inadeguata al raggiungimento della finalità
rieducativa della pena (Cap. 1).
Nell’ambito degli strumenti sanzionatori alternativi alla pena detentiva si può operare una
distinzione tra le misure alternative alla detenzione in senso stretto (affidamento in prova
al servizio sociale e detenzione domiciliare) e i benefici penitenziari che consentono
un’attenuazione della custodia operata in istituto di pena (semilibertà e permessi premio)
o una riduzione della stessa sanzione (liberazione anticipata). In questa tesi ho
approfondito la descrizione dell’affidamento in prova al servizio sociale, della detenzione
domiciliare e della semilibertà, disciplinate rispettivamente agli artt. 47, 47 ter, 48 50 e 51
dell’Ordinamento Penitenziario.
L’affidamento in prova al servizio sociale è la misura alternativa di più consolidata
tradizione nell’Ordinamento Penitenziario e molti la definiscono come la “misura
alternativa per eccellenza”: essa infatti prevede che il soggetto sconti la sua pena
completamente al di fuori del carcere, in stato di libertà. Accanto a questa, vi sono altre
forme di affidamento in prova al servizio sociale: quello per soggetti tossicodipendenti o
alcoldipendenti, i quali possono scontare la loro pena svolgendo un programma di
recupero presso una comunità terapeutica; l’affidamento per condannati militari, che
possono essere affidati al servizio sociale oppure ad un comando o ente militare se hanno
ancora obblighi di servizio militare; e infine l’affidamento per soggetti affetti da Aids
conclamata o da grave deficienza immunitaria, che possono svolgere un programma di
cura presso specifiche strutture.
La detenzione domiciliare è una misura alternativa relativamente giovane nell’esperienza
italiana, essendo stata introdotta nel 1986 con la legge Gozzini. Se l’originaria forma di
questa misura perseguiva uno scopo umanitario, oggi si può dire che essa si pone come
alternativa generale sia al regime penitenziario classico, sia allo stesso affidamento in
prova, il quale per sua natura richiede requisiti di accesso più rigidi e si presenta più
favorevole per il condannato. La detenzione domiciliare, come dice il termine stesso,
prevede che la persona stia sempre a casa e che possa uscire soltanto per andare al lavoro.
Accanto a queste due misure alternative in senso stretto abbiamo la semilibertà, la quale
viene considerata da molti come un beneficio penitenziario, ovvero come una modalità di
attenuazione della custodia in carcere: essa infatti consente alla persona di trascorrere
parte della giornata fuori dall’istituto al fine di partecipare ad attività lavorative o
istruttive che possono favorirne il reinserimento sociale. Vi sono tre diverse forme di
semilibertà, le quali tendono a soddisfare esigenze diverse: la semilibertà alternativa alle
pene detentive brevi, basata su una visione del carcere come luogo desocializzante e
quindi inadatto all’espiazione di pene brevi; la semilibertà alternativa a pene medio-
lunghe, che si può applicare soltanto dopo l’espiazione di almeno metà pena; e quella
“surrogatoria” dell’affidamento, concessa a una persona con una pena inferiore ai tre
anni, per la quale mancano i requisiti per la concessione di un affidamento in prova al
servizio sociale.
Quando una persona viene ammessa ad una misura alternativa alla detenzione, inizia un
percorso di recupero sociale durante il quale è obbligata al rispetto di determinate
prescrizioni: nel caso in cui esse non vengano rispettate o se il soggetto mette in atto un
comportamento contrario alla legge, come per esempio compiere un nuovo reato, la
misura può essere revocata. In caso contrario, cioè se la persona mantiene un
comportamento corretto, rispettoso delle prescrizioni e mostra un concreto recupero
sociale, la pena può considerarsi estinta (cap. 2).
Capitolo 1
La riforma dell’Ordinamento Penitenziario
La prima commissione ministeriale di studio per la formulazione di proposte di riforma
del regolamento del 1931, è stata istituita nel 1947, in seguito al verificarsi di numerose
rivolte, scoppiate all’interno degli istituti penitenziari, contro un regime di vita
estremamente duro e inumano. La situazione carceraria dell’immediato dopoguerra si
presentava infatti drammatica: accanto ad un’applicazione rigorosa del Codice Rocco, si
stava assistendo ad un progressivo aumento della popolazione detenuta, la quale aveva
portato ad un peggioramento delle condizioni di vita dei detenuti. Queste sono diventate
oggetto di molti studi, svolti da parte di una commissione di inchiesta nominata nel 1948:
il carcere italiano, come scriveva Bauer, era anzitutto custodia, la cui sicurezza era
affidata essenzialmente alla riduzione al minimo dell’autonomia del detenuto, della sua
possibilità di operare, di muoversi, di assumere una responsabilità, di svolgere un’attività
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che lo rifacesse uomo; il detenuto doveva essere, per quanto possibile, una cosa.
Nel 1950 i lavori della commissione hanno portato all’approvazione di alcune norme,
quali l’abolizione del taglio dei capelli e del numero di matricola, basate sul principio che
le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e che devono
tendere alla rieducazione del condannato. Tuttavia, in una circolare del 1954, si era
precisato che la pena, pur dovendo tendere alla rieducazione del condannato, non poteva
essere totalmente privata del carattere affittivo che la contraddistingue.
Nel 1960 è stato presentato da parte del Ministro Gonnella un primo disegno di legge
sull’ordinamento penitenziario, basato sui principi delle Regole minime per il trattamento
dei detenuti. Tali regole, adottate dall’ONU nel 1955, indicavano che il regime di vita dei
detenuti doveva uniformarsi secondo gli orientamenti umanitari ed i diritti umani. Il
disegno di legge Gonnella dava rilievo al mantenimento dei rapporti dei detenuti con il
mondo esterno, introduceva il criterio dell’individualizzazione del trattamento
rieducativo, basato sull’osservazione della personalità, e prevedeva anche l’istituzione dei
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M. Di Cara, A. Gervasoni, M. A. Steiner Riforma penitenziaria e intervento sociale La Nuova Italia
Scientifica Roma 1990
centri di servizio sociale per adulti. Accanto a questo, sono stati presentati altri disegni di
legge che però non vennero portati avanti. Ma negli anni settanta una serie di fattori
concomitanti (le pressioni esercitate da nuovi movimenti politici e giovanili, le lotte dei
detenuti sempre più connotate politicamente e la testimonianza critica di operatori ed
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esperti), hanno iniziato a creare le condizioni favorevoli alla realizzazione del progetto
Gonnella, fino all’approvazione della Legge n. 354 nel 1975.
1. La riforma dell’Ordinamento Penitenziario
Aspetti generali
Il 26 Luglio 1975 è stata approvata la Legge n. 354 intitolata Norme sull’ordinamento
penitenziario e sulle misure privative e limitative della libertà personale. La riforma è
fondata su un’interpretazione evolutiva dell’art. 27 della Costituzione, secondo il quale le
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pene devono avere come finalità la rieducazione del condannato: devono includere una
serie di attività e interventi di natura trattamentale finalizzati al reinserimento sociale del
detenuto, che coincide con la maturazione della sua capacità di gestire correttamente i
ruoli sociali che gli competono e con la presa di responsabilità relativamente all’atto
commesso. Il presupposto per attuare questo trattamento rieducativo è l’osservazione
scientifica della personalità, compiuta all’inizio dell’esecuzione penale e proseguita nel
corso di essa, accompagnata dalla valutazione della condotta tenuta in carcere e di
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eventuali precedenti penali del condannato. Gli elementi del trattamento rieducativo
vengono individuati nell’istruzione, nel lavoro, nella religione, nelle attività culturali,
ricreative e sportive, nei rapporti con la famiglia e anche nei contatti col mondo esterno:
l’intervento trattamentale può essere extraistituzionale, distaccandosi sempre di più
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dall’istituzione carceraria per dispiegarsi sul territorio. Tutto ciò deve avvenire secondo
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M. Di Cara, A. Gervasoni, M. A. Steiner Riforma penitenziaria e intervento sociale La Nuova Italia
Scientifica Roma 1990
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Costituzione della Repubblica Italiana Articolo 27 - La responsabilità penale è personale. L’imputato
non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva. Le pene non possono consistere in trattamenti
contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Non è ammessa la pena di
morte, se non nei casi previsti dalle leggi militari di guerra.
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M. D’Onofrio, M. Sartori Le misure alternative alla detenzione Giuffrè Ed. Milano 2004
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A. Morrone Il trattamento penitenziario e le alternative alla detenzione Cedam Ed. Padova 2003