DALL’IDEA ALLA SCENEGGIATURA
Esistono giorni apparentemente anonimi, che paiono ideali per accompagnare
la visione di un film. È indubbio che le emozioni autentiche, quelle che portano la
firma di autori che non hanno bisogno di una “cornice” per valorizzare il proprio
lavoro, si fanno apprezzare ovunque e in qualsiasi momento. Esse colpiscono
improvvisamente e non si dimenticano più. Ma è anche vero che un insieme di
dettagli ben amalgamati possiede la magia di creare un‟atmosfera. La visione di
un dipinto intravisto sulla pagina di un libro sfogliato casualmente in una libreria,
non vale quanto la visione dello stesso all‟interno di una galleria solitaria,
ovattata, ammorbidita da una consona illuminazione.
In anni di fretta e di superficialità come quelli attuali, secondo me pochi
hanno la sensibilità (o il privilegio) di “organizzare” una visione filmica. Ci si
accontenta del film iniziato in anticipo, di cui si è perso l‟inizio, inframezzato
dalla pubblicità, magari mentre si mangia qualcosa o mentre si risponde al
telefono. Ma… se si scegliesse? Se si vedesse un horror gotico in un‟invernale
notte di temporale?, o un esotico film d‟avventura in un lungo pomeriggio
primaverile?, o un film comico in compagnia di amici?, o una storia sentimentale
insieme a una persona cui si vuole bene?, o una “tragedia balneare” in una calda
sera d‟estate? Non si avrebbe in questi casi la sensazione di vivere maggiormente
le storie cui si fa da spettatore? Non ci si lascerebbe maggiormente
suggestionare?, e non sorgerebbero emozioni, se non uguali, perlomeno simili a
quelle che appaiono sullo schermo?
Considerando quest‟ottica si scopre come esistano momenti adatti ad ospitare
determinate atmosfere. Vivendoli appieno, nella memoria, non rimane soltanto il
film in sé, non rimane soltanto quello che si è visto, ma anche l‟ambiente e il
momento circostanti. Che divengono parte di un unicum che va oltre la storia del
film, che ne rende il ricordo strettamente personale. Un ricordo che scavalca le
immagini impresse sulla pellicola, che abbraccia una molteplicità di aspetti che, se
in apparenza costituivano solo la cornice, ora permeano il quadro, lo cristallizzano
e lo accompagnano nella memoria.
Il momento, o meglio la stagione che più mi ha suggestionato, che mi ha
accompagnato nella visione di certi film, è l‟estate, stagione “d‟oscuramenti e di
crisi”. Crisi silenziose. Non solo le albe sono “senza rumore”, ma anche i
sentimenti nascosti, improvvisi, che ci si ritrova inaspettatamente a gestire.
Sentimenti violenti, suggeriti da un quadro “di densi climi”, di luce accecante, di
risveglio d‟animalità. Le pulsioni sorgono e sorprendono. Al termine di lunghi
3
giorni che paiono di guerra ci si ritrova prostrati in “riposi enormi”, laddove
l‟oblio sembra avere un peso, sembra intaccare e impigrire. Si chiudono gli occhi
vicino al mare e ci si addormenta.
Fin quando da bambini, intorno ai primi di settembre, al pensiero della fine
delle vacanze, si rimpiangeva la piena libertà dell‟inizio dell‟estate, che allora
sembrava dovesse essere infinita, la malinconia ancora c‟insegue. L‟effetto del
primo freddo sulla pelle ha sempre un sapore amaro, straniante. Qualcosa
d‟irreale, d‟ingiusto. L‟abbandono del luogo dei giochi, l‟ingrigirsi del cielo,
l‟acqua del mare sempre più fredda… Ma vivo dentro, anche negli invernali
giorni di pioggia, il ricordo delle forti emozioni dei giorni di calore, delle piccole
violente scoperte, di giorni di libertà onirica.
Fanno male i traumi. Fa male l‟estate. Fa male il ricordo. Fa male la
nostalgia. Ma è bella. E il cinema la rende ancor più bella.
Esistono poi certi film che anche vedendoli una volta all‟anno o più, si ha
comunque un‟indefinibile sensazione di inafferrabilità, come se ogni volta durante
la visione ci si lasciasse sfuggire particolari importanti senza i quali è impossibile
farsi un‟idea precisa della storia. Se ne coglie giusto l‟atmosfera, ma mai il fulcro,
il cuore, la ragione d‟essere.
Mi capitò, in un pomeriggio d‟estate, chiacchierando, di fare per caso
riferimento a un film che avevo visto tempo addietro, di provare a raccontarne
brevemente la storia. Ma di cosa trattava esattamente? C‟era sempre qualcosa che
non ricordavo. Mi mancava qualcosa. Così, tornato a casa, recuperata la vecchia
vhs, ho voluto rivederlo. Durante la visione ero sull‟isola dove si svolgeva la
vicenda insieme alle due protagoniste, percepivo insieme a loro stati d‟animo e
sensazioni. Ma una volta scomparsa dallo schermo la parola “fine”, tutto
sembrava esser svanito, come quando pochi minuti dopo il risveglio si cerca di
ricordare il sogno e si scopre di averlo dimenticato. Resta solo una vaga
atmosfera, non i dettagli. Però dettagli intriganti. Ho capito che c‟era qualcosa di
strano, che andava al di là del contesto cinematografico. Non si trattava più
soltanto di ragionare sul fatto se il film mi fosse piaciuto o meno, ma piuttosto sul
perché la visione, nonostante il senso di vaghezza che mi lasciava, incideva a tal
punto sulle mie sensazioni. Il film era L’isola delle svedesi, diretto da Silvio
Amadio nel 1969. Ed è chiaramente, sul piano artistico, un approssimativo
tentativo di intellettualizzazione da parte del cinema di genere. Là dove le
protagoniste di Antonioni mormoravano con lo sguardo perso -Mi fanno male i
12
capelli.-, o sgretolavano per inerzia con le dita cancelli di ferro arrugginito, qui
le protagoniste Manuela ed Eleonora, per esprimere il disagio, si accendono una
1
Monica Vitti in Il deserto rosso, Michelangelo Antonioni, 1964.
2
Jeanne Moreau in La notte, Michelangelo Antonioni, 1961.
4
sigaretta dopo l‟altra o si versano in continuazione del whisky dalla solita bottiglia
di J&B sempre ben in vista.
Le domande che mi ponevo erano dunque, perché un film brutto mi attrae e
mi affascina così tanto? E perché, anche rivedendolo più volte cercando di
memorizzarlo, mi sembra di afferrare il vuoto?
È strano ma risaputo come sovente non sia l‟oggettiva qualità di un prodotto
artistico a determinarne il gradimento nei singoli spettatori, ma piuttosto certi
particolari. Ogni individuo, al cospetto di una medesima immagine, percepisce
impressioni diverse. Chi ne rimane meravigliato, chi invece ne resta indifferente.
Esistono casi in cui il gradimento è favorito da particolari involontari, che l‟artista
non aveva previsto in fase di ideazione. Perciò chissà cosa, esattamente, desta i
nostri singoli interessi…
Film come questo sono poco conosciuti, difficili da reperire, con master
rovinati, incompleti, che spesso non rispettano i corretti formati di pellicola. Forse
quando mi accorgevo di un taglio o della mancanza di una sequenza restavo
sospeso con la curiosità di sapere cosa era accaduto nei misteriosi fotogrammi
mancanti? Forse vedendo una pellicola di formato 2.35:1 espansa a 4:3 restavo
con l‟amarezza di non vedere cosa comprendessero i suoi estremi? Forse la
consapevolezza di star vedendo un film incompleto me ne condizionava il
ricordo? Forse colmavo le parti mancanti con la mia immaginazione, con le mie
suggestioni? Forse mi riconoscevo nell‟atmosfera della sua storia, o forse
addirittura, di visione in visione, esplorandolo, in quelle lacune cercavo me
stesso?
Molto probabilmente queste erano le cause della mia attrazione.
Spinto dal desiderio e dalla curiosità di incontrare altrove una simile
esperienza, magari in qualche altra isola, mi sono messo alla ricerca di film
similari. Per alcuni di essi è bastato rispolverarli dalla memoria e riscoprirli, per
altri è stata un‟avventura in un mondo di infinite sorprese, al pari di un bambino
che entra in un‟inesplorata stanza dei giochi. Mi sono imbattuto in titoli con frasi
bellissime che da soli valgono l‟intero film. Sovente si trattava però di film
irreperibili. Ho scovato sequenze con suggestive fotografie uccise da pellicole
sbiadite e graffiate. Di certi film è stato difficile stabilire quale fosse la versione
originale integrale tra quelle in circolazione. Ho ascoltato colonne sonore capaci
da sole di rendere un‟intera atmosfera. Cipriani, Umiliani, Morricone, Savina,
Ortolani, Piccioni, Rustichelli, Pisano, Nicolai, per citare i maggiori. Anche se
estrapolati dai rispettivi contesti, i loro brani musicali non perderebbero valore. In
alcuni casi potrebbero anzi acquisirne. Ho fatto da spettatore a storie tanto
azzardate o assurde che si finisce per lodare soltanto per il coraggio che hanno
dimostrato venendo alla luce. La mia vista è stata trascinata e stravolta da violenti
zoom, grandangoli, veloci cambi di fuoco tramite doppie lenti, bruschi passaggi
5
da primissimi piani a campi lunghi, ripetizioni, inquadrature inclinate o
rovesciate, colori invertiti, sovrapposizioni, e quant‟altro può incantare lo
sguardo, distrarlo dalla narrazione e far ricordare il film non tanto per la storia
quanto per la messa in scena.
Ma tra le tante, quattro sono state le pellicole più rappresentative della mia
ricerca. Quattro film, come quattro sono i mesi che comprendono l‟estate. Quattro
film di genere indefinito che hanno in comune la medesima atmosfera. Quattro
isole e quattro altrettanti misteri. L’isola delle svedesi di Silvio Amadio, Top
sensation di Ottavio Alessi, Interrabang di Giuliano Biagetti e La stagione dei
sensi di Massimo Franciosa. Tutti curiosamente datati 1969. Tutti
d‟ambientazione estiva. Non importa più di tanto se questi film siano ben fatti o
meno. Quello che importa è la loro particolare atmosfera. I personaggi che vi
compaiono, chi per scelta e chi per costrizione, si sono trovati ad evadere dalla
realtà, per immergersi, anzi per tuffarsi in situazioni assolutamente non
convenzionali. Situazioni a tratti allucinanti, a tratti violente, a tratti oniriche, a
tratti sensuali… Forse essi hanno inconsciamente avvertito il desiderio di
“staccare” dall‟ordinario per ritornare allo stato naturale, brado, là dove all‟interno
del contesto occorre soltanto seguire l‟istinto per essere credibili. Contesti
selvaggi. Isole. Piccoli mondi a parte, specchi di sogni o di desideri interiori… In
queste isole i personaggi si sono spogliati sia fisicamente che metaforicamente.
Hanno dato sfogo alla loro bestialità. Ha imperato il ritorno al selvaggio, la
simbiosi con la natura, l‟abbandono alla lascivia, la facilità con cui si decide della
vita e della morte del prossimo, la violenza repressa che trova pretesto per
manifestarsi, il paesaggio che si fa specchio di turbamenti interiori,
incrementandoli. Quasi sempre l‟epilogo ha rappresentato una tragedia. Forse gli
autori, in un‟epoca in cui le alienanti scoperte scientifiche e tecnologiche
iniziavano a susseguirsi a un ritmo vertiginoso, hanno teorizzato, chi più
ingenuamente e chi meno, la conseguente follia umana, rappresentandola
attraverso situazioni abiette ed estreme per richiamare un pubblico provinciale,
condendola con un po‟ di sesso per riuscire a vendere il prodotto, e imbastendola
di velata politica “rivoluzionaria” per concedersi un po‟ di contestazione.
Antonioni, Fellini e Visconti, ovvero il cinema “costituzionale”, come lo
definiva Fulci, ha pudicamente raccontato la corruzione borghese. Il cinema di
genere l‟ha esaltata.
L’isola delle svedesi, con una statica fotografia di un Aristide Massaccesi pre-
Joe D‟Amato, è una storia in cui di svedesi non c‟è traccia. È la storia di
un‟evasione che una giovane donna si concede dopo una negativa esperienza
sentimentale. Fuggita in automobile, giunta davanti a un bivio (Nord/Sud),
afferma tra sé: -Tutto sommato, un po‟ di mare non può farmi male, no?-.
Constatazione che gli sceneggiatori le mettono in bocca con ironico sadismo, e
6
che lascia già supporre allo spettatore smaliziato che il prosieguo non prometterà
affatto niente di buono. Dunque la donna raggiunge un‟amica su di un‟isola.
Spensieratamente faranno il bagno nude, giocheranno a truccarsi a vicenda sulle
musiche di Roberto Pregadio, si divertiranno a vestirsi elegantemente e ad
ascoltare musica, come comanda il pop. Una leggenda vuole che ascoltino Non
credere di Mina, ma nel master in circolazione della canzone non v‟è traccia.
Nella loro solitudine s‟instaura un rapporto ambiguo, decisamente saffico, ma
velato, con remore, favorito dall‟immersione, dalla comunione panica con una
natura aspra, brulla, angosciante. In una sequenza una delle donne spara ai
gabbiani con un fucile, senza motivo. Lo stesso fucile mieterà in seguito vittime
umane. Il film si conclude con un cadavere steso a terra con le formiche che gli
camminano sul volto. Quale maggiore immersione/ritorno alla natura?
Roberto Natale, co-sceneggiatore, raccontava che il film ebbe noie con la
censura (come quasi tutti i film dell‟epoca). Il problema riguardava gli accenni
saffici tra le due protagoniste. Sempre Natale raccontava che una rumorosa
manifestazione operaia che sfilava in strada sotto l‟ufficio del giudice,
distraendolo, lo spinse alla decisione di assolvere la pellicola, considerati i ben più
gravi problemi che l‟Italia si trovava ad affrontare.
Interrabang è in bilico tra il thriller e il giallo brillante. Fotografo e modelle
raggiungono con uno yacht un‟isola deserta per realizzare un servizio fotografico.
Non c‟è più benzina per tornare indietro, così il fotografo si fa dare un passaggio
da un‟imbarcazione di passaggio per andare a recuperarne un po‟. Le modelle
rimangono sole sull‟isola. Una di loro porta al collo un medaglione che
rappresenta sia un punto interrogativo che uno esclamativo. È Interrabang,
spiegherà, “il segno nuovo del dubbio, dell‟incertezza di noi tutti, incertezza di
questa nostra epoca, incertezza del mondo…”. Pare che sull‟isola si trovi un evaso
condannato per omicidio. Che naturalmente incontrerà le donne, e che
naturalmente le sedurrà. La violenza psicologica e l‟animalità s‟incontrano in quel
che egli dice a una di loro: -Lo so che è difficile, ma io devo ucciderti. Io voglio
ucciderti, io posso ucciderti, io devo ucciderti.- Tutto quel che segue è una serie di
colpi di scena, di ribaltamenti di situazione nei quali la vittima si rivela carnefice e
viceversa, seguendo l‟impianto del grande complotto tipico dei gialli europei del
periodo. Questo è il film che ha meno contatti con il mondo civilizzato. Non
appaiono mai né abitazioni né automobili, solo mare, due o tre imbarcazioni,
scogli e spoglie costiere. È anche il film meno tragico, con un approccio
all‟omicidio come se fosse un gioco. La visione vale soltanto per la presenza della
“collezionista” Haydée Politoff. Che non esita, con la sua indifferenza, a sorridere
persino alla morte. Musiche di Berto Pisano.
Top sensation. Il titolo parla da sé, e ci presenta la storia più cruda e lasciva.
Una ricchissima donna non più giovane, madre di un ventenne mentalmente
7
ritardato e perciò vergine, organizza un‟uscita in mare sul proprio yacht, portando
con sé, oltre al figlio, una coppia di amici e una ragazza facile, con l‟intento di
“svegliare” il ragazzo. Le intenzioni della coppia sono tutt‟altro che caritatevoli
nei riguardi del giovane. Si prestano all‟aiuto con la speranza di ottenere in
cambio dalla madre una concessione petrolifera. Lo yacht s‟incaglia nei pressi di
un‟isola, anche questa brulla e selvaggia. L‟astenia da calore e il muto paesaggio
dionisiaco fanno sì che i cinque si lascino andare alle azioni più abiette. Si scopre
che la ricca madre ha tendenze saffiche. Una giovanissima Edwige Fenech si
lascia avvicinare e leccare da una capretta, prima che un‟inesorabile taglio
censorio interrompa la sequenza, lasciando avvolti nel mistero i circa 9 minuti di
film mancanti, e favorendo la circolazione di diverse leggende su cosa si veda
nella famosa “scena della capra”, che pare non abbia mai visto nessuno. Anche su
quest‟isola s‟imbraccia il fucile e si spara. Si spara proprio alle capre. Laddove
l‟uomo civile è portatore interno di violenza repressa, laddove uccidere è uno
sfogo liberatorio. Ancora inibiti, prima ci si limita a colpire bestie indifese.
Successivamente, quando l‟esasperazione si fa incontenibile, i bersagli divengono
umani. Nel frattempo il ragazzo ritardato è approdato di nascosto sull‟isola e ha
incontrato un‟umile e giovanissima contadina, l‟unica donna che finalmente
sembra stimolargli interesse. Le confessa: -Li odio tutti!-. Quando si scopre la loro
amicizia, la contadina viene immediatamente condotta sullo yacht per essere
“emancipata”, truccata e vestita sensualmente, affinché il ragazzo si decida a
consumare. Ma al ragazzo, così, gli appare irrimediabilmente contaminata, e la
uccide. L‟audio della copia italiana in circolazione è ovattato, a tratti metallico.
Quest‟involontaria deformazione incrementa un senso di perdizione. La pellicola
è molto rovinata. Nelle prime sequenze non c‟è un solo fotogramma senza graffi.
La musica è di Sante Maria Romitelli. Rappresenta l‟unica prova ufficiale di regia
del bravo sceneggiatore Ottavio Alessi, se si esclude il comico Che fine ha fatto
Totò baby?, che pare sia stato in realtà diretto da Paolo Heusch.
La stagione dei sensi è l‟opera più gradevole sul piano visivo, frutto di una
regia curata e di scene pop coreografate da Franco Bottari. Ma è anche l‟opera più
intellettuale e fors‟anche ambiziosa. Alla sceneggiatura collaborano Barbara
Alberti e un Dario Argento non ancora regista. La sequenza iniziale dei titoli di
testa, che vede dei ragazzi ballare spensieratamente su di una spiaggia di notte, è
accompagnata da Gloria, cantata da Patrick Samson. Sul finire dell‟estate, quattro
ragazze e rispettivi compagni stanno tornando a casa a bordo di un piccolo yacht.
Finisce la benzina (ancora!), e sono costrette a chiedere alloggio ad un solitario ed
ambiguo giovane che vive in una grande villa su di un‟isola. A differenza dei
maschi, le ragazze decidono di restare, iniziando a competere tra loro per la
conquista del giovane, assolutamente disinteressato. Egli, avvolto da
un‟affascinante aura di mistero e d‟inspiegabile misoginia, desidera infatti vivere
8