INTRODUZIONE
Fin dai primordiali tentativi delle individualità e dei gruppi primitivi, l’uomo
ha attinto a strumenti propri del proprio bagaglio capacitivo. Risoluzioni di
problemi più o meno complessi compiuti con strumenti propri e naturali
dell’intelletto umano, capaci di dare origine alle conoscenze spaziali, ad attività
mediante risposte più o meno volontarie agli stimoli esterni, capacità
d’interazione con il mondo e le possibilità di interpretazione del vissuto
individuale e relazionale.
Una moltitudine di possibilità che a un’attenta analisi ha sollevato, nel corso
del lento e inesorabile disincanto umano, una altrettanto vasta serie di domande
e problematiche, prese ad argomento, tra gli altri interrogativi del tempo, dai
primi filosofi e matematici greci, i quali posero le prime parziali risposte a
studi condotti sugli interrogativi inerenti alle capacità umane naturali.
Dalla geometria proiettiva di Euclide, la teorizzazione della natura della luce di
Newton, le funzioni ottiche dell’occhio di Keplero, la contrapposizione
Aristotelica tra azione e passione, alla concettualizzazione in ambito letterario
romantico di Goethe, che nel “Faust” proclamava:
“In Principio era l’azione” (Johann Wolfgang von Goethe, 1831).
Queste prime parziali intuizioni di astrazione filosofica hanno, a seconda del
tempo e nella contestualizzazione dell’epifania riportato paradossalmente
questi concetti di percezione e azione, idealizzati a strumenti umani sfuggevoli
e fumosi, nel mondo del sovrannaturale e dell’incanto.
Mentre Johann Gottlieb Ficht, fondatore della filosofia idealistica, ipotizzava
nella sua “Dottrina della Scienza” un atto di primo principio dell’Io
dell’individuo, una sorta di “nascita” dell’Io dell’uomo, possibile grazie ad
un’azione, in contrapposizione a un Non-Io, lo stesso Baruch Spinoza nel XVII
secolo concettualizzava lo stesso Dio come un’“Essenza Attuosa”, entità che si
sostanza solo nell’agire.
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La percezione è anch’essa un concetto complesso adottato dai filosofi nel
contesto di studio dei problemi sulla conoscenza.
Empedocle di Agrigento già 400 anni prima della nascita di Cristo, risolveva il
dilemma della percezione come una qualità dell’Anima di riconoscere ciò che è
composto dagli stessi principi; una sorta di cerchio in cui “il simile percepisce
il simile”.
Nella Fenomenologia di Husserl il concetto di percezione perde di complessità
relegato a un riconoscimento oggettivo di stimoli non arricchibili dall’intelletto
umano, quindi slegati dalla psicologia umana.
Solo durante gli ultimi anni del secolo diciannovesimo la filosofia unisce i
concetti di Azione e Percezione, dove Ralph Waldo Emerson, filosofo
statunitense, interpreta l’atto come la nascita di un pensiero, determinato a sua
volta dal “vivere il mondo”:
“Ogni pensiero sorge nella mente, nel suo sorgere mira a passar fuori della
mente, nell’atto; proprio come ogni pianta, germinando, cerca di salire alla
luce”. (Ralph Waldo Emerson, “Condotta di Vita”, 1860)
Gli studi scientifici della percezione e della pianificazione dell’azione sono, ad
oggi, un’area interdisciplinare molto estesa, in cui lo sviluppo della psicologia
cognitiva e delle neuroscienze si è rivelato particolarmente produttivo. Quest’
area di studio ha trovato un motivo di convergenza negli ultimi due secoli,
durante i quali, le diverse teorie, hanno visto nello studio dei processi attentivi,
un ruolo fondamentale giocato dalla percezione.
Precedentemente a questo movimento di tipo centripeto l’azione, sempre
distinta dai processi percettivi, è stata studiata, nel XIX secolo, secondo due
principali prospettive: una che vedeva l’azione come una reazione a stimoli
provenienti dall’ambiente esterno e l’altra che, invece, la vedeva come un
mezzo per ottenere i risultati desiderati.
L’inizio del nuovo secolo ha segnato invece una nuova tendenza del
movimento scientifico interessato: una nuova teoria derivante dalla fusione di
precedenti idee riguardo alla percezione e alla pianificazione dell’azione. È
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stata definita “Teoria dell’Event Coding” (TEC) da Hommel, Müsseler,
Aschersleben e Prinz nel 2001.
Una nuova prospettiva cognitiva dove la percezione e l’azione sono codificate
ed immagazzinate insieme in un unico dominio rappresentazionale e questo ha
implicato la presa in considerazione delle strutture responsabili, della
percezione degli stimoli e della pianificazione della risposta, non
completamente differenti e, soprattutto, non devono sempre essere esaminate in
modo separato.
Questo studio è finalizzato ad un excursus riguardo alle teorie percettive e della
pianificazione dell’azione.
Successivamente è stata descritta la Teoria dell’Event Coding e il tentativo, da
parte di Hommel, di rendere questa teoria astratta in un modello
computazionale, l’HiTEC, cioè in un modello in cui sono simulati i processi di
percezione e di programmazione dell’azione come facenti parte di un unico
sistema.
Infine sono state riportate alcune evidenze empiriche affinché dimostrassero la
validità di questa nuova interpretazione cognitiva della percezione e
dell’azione.
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1 Teorie sull’elaborazione dell’informazione e sull’azione
1.1 La metodologia di Donders e la revisione di Sternberg
Per lo sviluppo della psicologia sperimentale e per le neuroscienze cognitive è
stato importante l’approccio di Franciscus Donders (1868).
Donders era un oculista che dedicò la sua vita, oltre che allo studio della
fisiologia e dei movimenti oculari, della visione dei colori e della cecità a essi,
anche alla fisiologia generale, all’evoluzione e ai processi mentali. In
particolare si interessò allo studio della velocità dei processi mentali.
Egli aveva sviluppato una prima rudimentale tecnica sottrattiva che avrebbe
permesso di isolare le differenti operazioni compiute da un soggetto nel corso
di una determinata attività cognitiva.
Donders sosteneva che le operazioni mentali avvenissero in successione e che
ciascuna richiedesse un tempo misurabile.
Si consideri, ad esempio, il caso di un soggetto sottoposto alla presentazione
casuale di due diversi stimoli luminosi e istruito a reagire premendo un
pulsante solo al presentarsi di uno di essi: l’intuizione di Donders (1868) fu
quella di ipotizzare che, sottraendo dal tempo totale impiegato per riconoscere
lo stimolo e premere il pulsante, si sarebbe potuta isolare la durata
dell’operazione mentale corrispondente alla “discriminazione” dei due stimoli
luminosi. Analogamente, istruendo il soggetto a reagire attraverso due
differenti pulsanti ai due stimoli, Donders riteneva di poter isolare per via
sottrattiva la durata dell’operazione riguardante la “selezione fra due risposte
alternative”, e così via dicendo.
Alla base di questo approccio l’azione è una conseguenza dell’elaborazione
sensoriale e lo stimolo è il più importante fattore predittivo (Hommel, 2009).
In seguito il metodo di Donders fu ripreso e perfezionato da Sternberg (1969).
L’idea di Donders, pur nella sua apparente efficacia, dipendeva da
un’assunzione molto costosa sul piano metodologico e già aspramente criticata
dai suoi contemporanei: l’idea che le operazioni svolte dal soggetto si
succedessero le une alle altre in modo strettamente seriale.
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Sternberg propose un perfezionamento del metodo sottrattivo, denominato
“metodo dei fattori additivi”. Questa modifica si basa su un’assunzione meno
forte, ma non meno problematica di quella della serialità: il presupposto
dell’additività.
Sternberg riuscì a mostrare che determinate manipolazioni delle variabili in
gioco in un esperimento di classificazione di stimoli visivi alteravano in modo
sistematico i tempi di reazione del soggetto.
Si consideri l’esempio di un soggetto istruito a reagire al presentarsi su uno
schermo di una lettera appartenente ad una sequenza in precedenza
memorizzata. Sternberg potè dimostrare che i tempi di reazione relativi a
questo compito rimanevano invariati a seguito di determinate manipolazioni
degli stimoli e che variavano invece sistematicamente a seguito di altre
manipolazioni. Ad esempio, manipolazioni dell’aspetto visivo dello stimolo,
come il deterioramento dei contorni o la deformazione della lettera, non
influenzano altro che le operazioni di decodifica visiva lasciando inalterati i
tempi che si riferiscono alle altre operazioni coinvolte, come per esempio il
confronto mentale dello stimolo con la sequenza precedentemente
memorizzata. Viceversa, manipolazioni della lunghezza della sequenza da
memorizzare producono un rallentamento dei tempi di confronto mnemonico,
senza influenzare quelli di decodifica visiva.
Ricapitolando, la principale difficoltà che si incontra con il metodo della
sottrazione (Donders, 1868) è quella di definire la natura dell’operazione
mentale, della quale si intende stimare la durata. Inoltre è difficile trovare due
compiti che differiscano solo per una determinata operazione mentale, che è
poi quella che interessa. Per ovviare a queste difficoltà, Sternberg elaborò il
metodo dei fattori additivi.
La tecnica revisionata da Sternberg che, quindi, consiste nell’utilizzare i tempi
di reazione per segmentare i flussi delle informazioni elaborate in fasi, è stata
ampiamente utilizzata in diversi settori di ricerca.
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1.2 Le teorie attentive
L’influenza dell’attenzione sulla percezione in questi ultimi decenni è stata un
argomento molto dibattuto nella letteratura. Questo perché per raggiungere la
percezione è necessaria l’attenzione che non si ottiene se non esiste un minimo
di interesse per quanto è presentato. Per questo motivo ho esposto diverse
teorie riguardanti questo complesso processo, qual è l’attenzione, per
comprendere come si verifica durante la percezione di oggetti o eventi da parte
del soggetto. Essa è stata considerata come una forma altamente concentrata
della percezione.
L’attenzione è un processo cognitivo che permette di scegliere e considerare
solo quegli stimoli che assumono una particolare rilevanza, ignorando gli altri.
A partire dagli anni ’60, molti autori hanno incontrato diverse difficoltà ad
elaborare delle teorie e delle metafore che spiegassero il funzionamento di
questo costrutto multidimensionale caratterizzato da svariate e complesse
sfaccettature.
Tra le diverse metafore assumono importanza quella del filtro o collo di
bottiglia (Broadbent, 1958; Deutsch & Deutsch, 1963; Treisman, 1960), quella
del serbatoio (Kahneman, 1973) e del fascio di luce (spotlight) (M. I. Posner &
Petersen, 1990). Esponendo tali metafore si toccherà un altro argomento
importante relativo all’attenzione, cioè il concetto di selezione.
Lo studio della selezione dell’attenzione prende l’avvio dagli studi negli anni
’50 che portarono alla scoperta dell’effetto Cocktail Party, così come lo aveva
definito Cherry (1953). Questo effetto consiste nella capacità di focalizzare
l’attenzione su specifici stimoli verbali anche in presenza di altre conversazioni
o rumori di fondo.
Cherry per studiare questo fenomeno utilizzò la “tecnica di ascolto dicotico” ed
il compito di selective shadowing che prevede la presentazione di due diversi
messaggi verbali contemporanei, uno per ciascun orecchio. Il compito
dell’ascoltatore consiste nel dirigere l’attenzione su un orecchio e ripetere a
voce alta il messaggio udito. Successivamente al soggetto è richiesto di
rispondere a domande relative al messaggio presentato all’orecchio al quale
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