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P R E S E N T A Z I O N E
A conclusione del mio ciclo di studi in Scienze dell'Educazione, ho pensato
ad una tesi di laurea che rispecchiasse in maniera molto forte i miei studi ed i
miei interessi nel campo dell'Educazione. L'argomento scelto è l'Educazione alla
Pace.
La realizzazione della pace è uno dei più grandi problemi umani.
L'educazione può aiutare i giovani a comprendere e desiderare la pace, a lottare
per ottenerla nelle maniere più opportune.
È importante che l'ambito scolastico e le strutture educative incoraggino,
alimentino e sostengano valori e comportamenti positivi, rispettando le differenze
e le affinità individuali e di gruppo.
La pace che noi come educatori vogliamo promuovere è essenzialmente la pratica
dell'armonia sociale, del dialogo, della cooperazione, della tolleranza e del
rispetto reciproco.
Siamo convinti che l'educazione costituisca l'elemento determinante per realizzare
una convivenza sociale basata sul rispetto, sul dialogo, sulla giustizia e sulla
pace.
Per educare alla pace non è certamente sufficiente concentrare i propri sforzi
solo nell'ambito scolastico. L'educazione per la pace dovrebbe raggiungere i
giovani tramite le agenzie educative, coinvolgendo in questo sforzo tutta la
società.
Chi educa alla pace è un pioniere disposto ad imboccare sentieri nuovi, difficili,
sconosciuti, inesplorati, affrontando con determinazione difficoltà di ogni tipo.
La scelta della pace richiede coraggio e una fede forte nei valori dell’uomo.
Il sogno di ogni uomo, in qualsiasi parte della terra, è quello di vivere in pace.
È un sogno fattibile perché è fondato sulla fiducia nell'uomo, nella sua capacità
di cambiare.
Anche questo modesto lavoro è un piccolo tassello che si aggiunge a tanti altri, al
lavoro silenzioso di tanta gente sconosciuta, che desidera costruire un mondo
migliore.
Dobbiamo essere sufficientemente modesti da riconoscere che molto difficilmente
le nostre idee attuali sulla pace e sulla guerra possono pretendere il marchio
dell’originalità. Secoli di pensiero occidentale le hanno, infatti, forgiate. I
precursori della cultura di pace, siano essi i fondatori delle religioni più
importanti o i filosofi dei secoli passati o gli utopisti e i sognatori che hanno
tracciato la traiettoria verso nuove possibilità, hanno tutti trasmesso dei validi
messaggi. Ciò che i vari contributi hanno in comune è di introdurre sensibilità e
prospettive nuove nella riflessione sulla guerra e sulla pace.
La cultura della pace deve basarsi su questa convinzione: ciascuno di noi deve
interiorizzare i problemi, le assurdità e le contraddizioni di quanto accade attorno
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a sé e contribuire al cambiamento in meglio. In tal senso, la migliore garanzia per
una pacifica convivenza, non solo a livello locale e nazionale, ma anche
mondiale, è il fatto che tutti dobbiamo essere, in una certa misura, “ribelli”, ma
“ribelli” con giuste motivazioni.
Dall'ascolto e dallo scambio di idee può nascere la proposta di alcune linee per
un progetto di educazione alla pace, con l'unico desiderio di contribuire
all'elaborazione di un itinerario educativo che si mostri condivisibile e vivibile.
La pace può nascere solo con l'opera convergente di tutti.
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BISOGNO DI PACE
La causa della pace è stata sempre presente negli uomini di massima
levatura nella storia civile, ma non è mai stata urgente e drammaticamente
impegnativa come oggi, proprio quando ci eravamo illusi, con la caduta del muro
di Berlino, che saremmo andati verso un futuro migliore. Oggi essa si pone in
termini molto più complessi rispetto anche a un vicino passato: c’è una varietà di
focolai di crudeltà e terrore in Europa e in varie parti del mondo. Nel panorama
odierno trova posto la guerra tradizionale, di liberazione, il terrorismo organizzato
militarmente, la guerriglia controrivoluzionaria. La fine del mondo bipolare ha
significato anche la nascita di conflitti intestini e inter – religiosi nell’ex
Jugoslavia, ex Unione Sovietica e Somalia. In Israele e Palestina la spirale di
attentati e ritorsioni prosegue senza fine. In Iraq la resistenza islamica rischia di
far rivivere agli Statunitensi un nuovo Vietnam. In Afghanistan, i Taliban si sono
riorganizzati e stanno conducendo una guerriglia sempre più minacciosa. In tutti i
Paesi arabi, dal Marocco all’Arabia Saudita, dall’Algeria allo Yemen, ora anche in
Turchia, gli integralisti islamici combattono contro governi ritenuti troppo
moderati e filo-occidentali, usando l'arma che hanno a disposizione: il terrore. Del
terrorismo islamico e della 'guerra globale', veniamo informati tutti i giorni, anche
se spesso in modo propagandistico e parziale. Ma nessuno parla delle altre decine
di conflitti che si combattono nelle periferie più povere del villaggio globale, là
dove gli obiettivi dell’informazione globalizzata non vanno a guardare. In
Cecenia, in Indonesia, nelle Filippine, in Nepal, in India, in Kashmir, nello Sri
Lanka, in Uganda, in Burundi, in Sudan, in Somalia, in Costa d’Avorio, in Congo,
oggi si combattono guerre che durano da anni e che hanno provocato centinaia di
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migliaia di morti, milioni di profughi, mutilati, orfani e vedove
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. Accanto a queste
realtà convivono attività diplomatiche, scambi, trattative, mediazioni
internazionali; così le politiche di pace ostentate e praticate da alcuni governi si
trovano a lottare con realtà dove gli arsenali nucleari sono un dato di fatto. Alcuni
scontri rimandano alla volontà di controllare risorse energetiche, altri chiamano in
causa soddisfazioni di natura psicologica, quali l’orgoglio di appartenere ad un
gruppo, il successo, il prestigio sociale, il potere. Paradossalmente vi sono guerre
animate da un irrefrenabile desiderio di pace, e modelli di pace diversi , in aperto
conflitto.
Con il progresso civile e culturale, con l’affermarsi in molte nazioni dei metodi e
dei valori democratici e con la diffusione dell’istruzione diventa sempre più
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Dopo la tragedia della seconda guerra mondiale, costata circa 50 milioni di vittime fu avvertita
con urgenza la necessità di costruire più efficaci forme di collaborazione internazionale, che
assicurassero la pace e la giustizia nel mondo. A tale scopo, su iniziativa delle potenze vincitrici
del conflitto, fu creato l'O.N.U le cui finalità primarie erano e sono quelle di ridurre le controversie
internazionali evitando il ricorso alla guerra, di restituire dignità ai popoli di ogni razza e cultura,
di promuovere ovunque lo sviluppo economico e il progresso sociale.Purtroppo l'Organizzazione
delle Nazioni Unite ha ben presto rivelato i suoi limiti, infatti nel 1998 erano ben 27 i conflitti
armati nel mondo, di essi pochi sono terminati mentre altri sono ancora aperti. Il crollo del muro di
Berlino e la fine della guerra fredda non hanno portato a quell'epoca di pace che le opinioni
pubbliche occidentali si attendevano. Anzi, in molti casi hanno portato al riaccendersi di scontri
etnici come è avvenuto nella ex-Jugoslavia.Il primato delle guerre dimenticate spetta all’Africa
dove i conflitti sono dovuti più alla povertà che alle diversità ideologiche. Mai come oggi il
termine pace rimane solo suono di parole, specia1mente di fronte a tanti conflitti noti come quello
tra Ebrei e Palestinesi e ai tanti purtroppo dimenticati. In Asia orientale e Oceania permangono
diverse guerre.In Kashmir l’eterno conflitto tra India e Pakistan continua dall'indipendenza del
1947. A Timor Est la guerra infinita tra Fretilin e governo indonesiano, continua con alterne
vicende. Nello Sri Lanka si combatte contro il Tamil e quest'ultimo chiede l'autonomia della Jaffna
per la sua minoranza etnica. Nelle Filippine il governo e il National Democratic hanno iniziato a
cercare un accordo per porre fine al conflitto interno al paese. Bougainville chiede l'autonomia e le
Forze di Resistenza dovrebbero porre fine al conflitto. Nell 'America centro-meridionale i conflitti,
più gravi sono in Colombia, Perù e Guatemala. La Colombia da molti anni è dominata dalla
doppia piaga della guerriglia di sinistra e dei vari gruppi mafiosi che controllano il traffico della
droga. Anche in Perù ci sono guerriglie di sinistra tra cui quelle di Sentiero Luminoso e Tupac
Amaru che contrastano il regime autoritario.. Non c’è pace neanche tra le ex repubbliche
sovietiche. In Tagikistan è in corso una guerriglia sin dall'indipendenza del ‘91 contro il governo
"laico" affiancato dalle truppe russe. Il 17 giugno 1998 migliaia di bande armate della Cecenia
invadono la regione Russa del Daghestan causando centinaia di morti e dando inizio allo scontro
di confine più grave. L'ex repubblica della Georgia ha dovuto affrontare la rivolta degli abkhazi. Il
conflitto tra le ex repubbliche sovietiche dell'Armenia e dell'Azerbaijan è per il controllo della
regione del Nagorno-Karabakh. Il primato delle guerre dimenticate spetta all'Africa. Il conflitto tra
Etiopia ed Eritrea sembra destinato a non finire mai. L'Angola, dal giorno della sua indipendenza,
non ha mai conosciuto un giorno di pace per lo scontro del partito di governo e il movimento di
liberazione unita. Una guerra civile è anche quella nell'ex-Zaire dove c'è opposizione contro il
regime di Kabila. Nel conflitto sono coinvolti anche Ruanda,Uganda, Angola, Zimbabwe e
Namibia. Guerra civile anche nella Sierra Leone tra il governo e il fronte rivoluzionario unito.
Fazioni rivali lottano in Somalia per il potere. Le due ex colonie belghe Ruanda e Burundi sono
teatro di ripetuti massacri tra le etnie tutsi e hutu. A gennaio del 1998 è ripresa la guerra civile
anche nel Congo-Brazzaville. Nel Senegal da 16 anni c'è conflitto tra l' esercito e gli
indipendentisti di Casamance. La sanguinosa guerra civile in Algeria dura dal 1992. Esistono
scontri anche in Guinea Bissau e in Sudan. Questo quadro degli attuali conflitti nel mondo è
preoccupante soprattutto se si pensa che non si lavora abbastanza per la pace. ( Cfr.
www.peacereporter.it).
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difficile, se non impossibile, concepire una guerra sui presupposti
dell’abbrutimento fisico, morale, psicologico che caratterizzavano le guerre del
passato. Questa constatazione, purtroppo, non elimina in assoluto, come sarebbe
auspicabile, l’ipotesi stessa della guerra, semplicemente la rende più evoluta; tale
evoluzione, portata alle sue estreme conseguenze, prefigura l’ipotesi di
distruzione totale pilotata attraverso tastiere e display, si evita così di guardare in
faccia al nemico, una guerra completamente spersonalizzata, tecnologica, di
brevissima durata e in grado di provocare distruzione totale. Oggi il grado di
distruttività aumenta in modo direttamente proporzionale al grado di neutralità del
gesto. Ogni paragone con le guerre passate diviene impossibile per il vertiginoso
salto di qualità imposto dallo sviluppo scientifico e tecnologico in campo militare.
Non si può certo parlare di un pianeta pacificato e uniformato dalle maglie
avvolgenti di reti informatiche. La guerra sfrutta, infatti, imponenti apparati di
propaganda e informazione; fisici, biologi e ingegneri, che creano nuovi e più
efficaci ordigni; psicologi, sociologi e antropologi che mettono a punto raffinate
tecniche di guerra psicologica. I conflitti che minano la società non sono solo
quelli armati, internazionali, interni ad un paese, tra gruppi politici, classi sociali,
ma anche e soprattutto quelli più piccoli, meno visibili ma ugualmente laceranti,
che riguardano i rapporti fra le singole persone (tra coniugi, tra generazioni
diverse, tra fratelli...). La pace sarà nel mondo quando tutti avremo imparato a
risolvere i conflitti, sia quelli più piccoli all’interno della famiglia o dell’ambiente
di vita, sia quelli mondiali tra le nazioni. Dire che viviamo in un mondo senza
valori è un’affermazione vuota, generica e priva di significato. I mali che la
società di oggi presenta sono i mali di sempre, tanto da poterli considerare residuo
del passato. Le
drammatiche vicende della guerra in Iraq (e di tutte le numerose guerre
dimenticate) hanno risvegliato nel mondo e, in modo particolare in Occidente,
un’acuta domanda di pace e spesso aspri dibattiti. Della bandiera della pace si
sono appropriati un po’ tutti: è un bel simbolo di corale attenzione. «Pace» diventa
una parola «passepartout»: tutti ne parlano e ciascuno le dà il significato che
vuole. Anche i cristiani, specialmente i giovani cristiani, stanno dimostrando una
vivace sensibilità per questa emergenza mondiale: mobilitazioni, marce,
2 R. Boudon, Il senso dei valori, Bologna, Il Mulino, 2000.
3 La bandiera della pace è stata introdotta in Italia, nel 1961, dal filosofo pacifista Aldo Capitini
Il drappo arcobaleno fece la sua prima comparsa proprio alla Marcia del '61, ispirata alla bandiera
dei pacifisti anglosassoni che nel 1959, alla guida di Bertrand Russell, marciarono ad
Almdermaston in una protesta antinucleare. Due anni dopo Capitini fece cucire da alcune amiche
perugine delle strisce colorate quale simbolo di pace da portare in marcia. Il vessillo originale è
attualmente conservato a Collevalenza, vicino a Todi (Pg), dal dott. Lanfranco Mencaroni, amico,
compagno di carcere e collaboratore di Aldo Capitini.Nella bandiera originale il colore rosso è
posto in alto. I colori dell'originale (solo cinque) appaiono anche nella "bandiera delle razze"
dell'associazione per i diritti civili fondata dal leader democratico nero Jesse Jackson.
La bandiera arcobaleno è stata usata diffusamente a partire dagli anni '80 nelle marce per la pace e
in tutte le manifestazioni italiane, nonché nelle iniziative di pace di volontari italiani all'estero
(Sarajevo, Iraq, Kosovo, Repubblica Democratica del Congo).Cfr. www.peacelink.it.
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preghiere, veglie. Ma quando si entra nel merito dei problemi il discorso è
difficile e impegnativo. Bisogna capire, distinguere, interpretare. Una volta si
parlava di guerra giusta, oggi si dice che non c’è più guerra giusta benché da più
parti si sostenga che è sia diritto che dovere resistere all’aggressione.
Bisogna dare contorni più netti al concetto di pace e concretezza operativa ad un
ideale che rifiuta ogni lettura emotivamente incontrollata e non si lascia chiudere
in slogan. Non si ha la pace solo in assenza della guerra, ma anche in presenza di
condizioni sociali, economiche e politiche che favoriscono la crescita dei popoli,
lo sviluppo armonico della persona e la sua piena realizzazione. In definitiva non
si tratta di fermarsi in atteggiamenti e considerazioni d’impotenza, vedendo nella
guerra solo l’effetto dei tempi ed una necessità delle circostanze: la guerra, come
la pace, è opera degli uomini. La pace non è uno stato debole, un intervallo tra due
guerre, è uno stato che domanda agli individui il massimo sforzo, impegno e
rischio
5
, il problema della pace è un problema diplomatico, morale, economico e
sociale, la pace si raggiunge con la ragione oltre che con l’impegno sociale e
civile.
Quello appena trascorso è stato l’anno di tragici eventi, ma anche del più grande
movimento globale per la pace degli ultimi decenni. E’ doveroso da parte di tutti
impegnarsi per diffondere la cultura della pace e della nonviolenza, dando, così,
esecuzione sostanziale alla delibera dell'Assemblea Generale dell'Onu che ha
dichiarato il periodo 2000-2010 "Decennio internazionale per la cultura della
pace”.
La pace è, da sempre, la grande aspirazione dell’uomo, mai come oggi sentita,
dato che “diviene sempre più reale il pericolo di una guerra che non lascerebbe
sulla terra nè vincitori nè vinti”
6
. La crisi internazionale del presente decennio ha
provocato la prima grande reazione di massa al rischio d’una guerra atomica, tale
da poter provocare la fine della civiltà umana. Nessun paragone è possibile con
l’impatto dei precedenti eventi. Dai bombardamenti di Hiroshima e Nagasaki fino
alla fine degli anni ’70, lo sviluppo di movimenti pacifisti fu animato da una
coscienza ancora parziale dei caratteri della nuova èra atomica. Del resto, la
crescita degli armamenti atomici raggiunse la capacità del completo sterminio
presumibilmente nel corso degli anni ’60, e la successiva fase negoziale tra le
Superpotenze suscitò qualche speranza illusoria, rimanendo in ogni caso inscritta
4
N. Bobbio, Il problema della guerra e le vie della pace, Bologna, Il Mulino, 1979.
55
L. Beccegato, Bisogno di valori, Brescia, La Scuola, 1991.
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“Non è il piacere o il dolore che ti detta quello che devi fare, devi vedere quanto è necessario
nella società, e poi non importa se tu lasci la vita.[...]Per riuscire a costruire un nuovo mondo di
pace, occorre il coraggio, lo slancio di mettersi col nuovo, per scomodo e pericoloso che possa
essere, o sembrare, il buttarsi in imprese più grandi di noi”. Il “mondo nuovo” di Danilo Dolci si è
realizzato nelle battaglie nonviolente contro mafia e disoccupazione, a favore dei diritti, del lavoro
e della dignità. “La Pace deve essere costruita a ogni livello della realtà umana: livello economico,
sociale, politico, culturale e religioso”. D. Dolci, Inventare il futuro, Bari, Laterza, 1972.
7
nella logica del terrore”. Nei primi anni ’80 la ‘dottrina’ del controllo degli
armamenti non solo non ha impedito processi di riarmo, ma si è dimostrata impari
rispetto ai più pericolosi sviluppi militari e politici. L’ingresso nel "decennio più
pericoloso della storia" (1980 – 1990) – come è stato definito nell’appello lanciato
dall’European Nuclear Disarmament – ha così suscitato un’ondata di rifiuto che si
rivolgeva alla totalità di un modello di relazioni internazionali potenzialmente
apocalittico, e gli contrapponeva il principio del disarmo come asse di un nuovo
paradigma politico generale
7
. È dunque in relazione alla "coscienza atomica" e
alla consapevolezza della possibilità dell’autodistruzione del genere umano che ha
avuto luogo un movimento pacifista di massa. Il processo distensivo va salutato
con sollievo e risolutamente appoggiato, ma, in assenza di una continua e
crescente pressione dal basso, rischia di rimanere confinato nell’andamento
ciclico dei rapporti tra Stati e blocchi militari contrapposti. Rapporti nei quali esso
deve invece incidere nel senso di una profonda trasformazione sociale della
politica e delle grandi scelte, non solo militari e strategiche, che l’umanità si trova
a dover affrontare. E’ necessario che il processo distensivo aumenti di forza e di
coscienza, di fronte ad un complesso di rischi e di potenzialità apocalittiche che è
rimasto sostanzialmente immutato rispetto alla fase più acuta della crisi
8
.
Negli studi e nei dibattiti interni al pacifismo è venuta affermandosi un’autocritica
che indica nella carenza di adeguate basi scientifico–politiche una causa
fondamentale delle debolezze riscontrate. Non vi sono stati né un consistente
coinvolgimento di intellettuali e studiosi né una sufficiente crescita culturale del
movimento nel suo complesso. Ciò vale particolarmente per l’Italia, paese a
rischio data la sua posizione di frontiera verso l’Est e il Sud. Realizzare un grande
progetto di pace è un fine ambizioso, non per presunzione di successo ma per la
terribile complessità ed ambiguità. Mai l’umanità si è trovata in un’impasse
altrettanto tragica come in questi ultimi anni, nei quali le paure escatologiche di
passati lontani dal nostro contesto sociale e culturale sembrano concretarsi nel
rischio dell’umanicidio per opera dell’uomo. E mai, del resto, un secolo s’era
bagnato di sangue come l’ultimo che è passato dai massacri dell’imperialismo
all’inutile strage della prima guerra mondiale e all’eccidio e genocidio sistematico
della seconda, con i campi di sterminio, i bombardamenti a tappeto delle città, i
funghi atomici dell’agosto 1945; e che nei decenni successivi, mentre tra le
Superpotenze si stabiliva ‘l’equilibrio del terrore’, ha visto svolgersi decine di
guerre ‘convenzionali’, con un numero di morti largamente superiore a quello del
1914–18 e un numero ancora più alto di vittime per cause direttamente o
indirettamente collegate ai conflitti armati o ai rapporti economici e politici
perversi. Questo crescendo di tragedie collettive verso una guerra generale
annunciata, per la quale è mancata l’occasione fatale, ma non sfugge l’accumulo
di elementi di rischio, chiama, dunque, in causa altre analisi da quelle strategico–
77
M Kaldor, La nuova guerra, la violenza organizzata nell’era globale, Bari, Laterza, 1999.
88
F. Romeo Guzzetta, Le guerre del dopoguerra, Catania, Società Storica Catanese, 1986.
8
militari, altri strumenti da quelli bellici, altre culture e pratiche rispetto a quelle di
dominio e di alienazione della politica; ma anche altri studi da quelli accademici,
con la loro disarmante compartimentazione e altre ipotesi e vie di sviluppo della
storia. La necessaria interdisciplinarità
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va intesa come tendenziale unificazione,
anche nel singolo o nel piccolo gruppo di studiosi, di conoscenze, esperienze e
metodologie; la cerniera dell’unificazione va trovata in una nuova eticità di
respiro globale, la stessa nella quale sono venuti realizzandosi anche in Italia –
dapprima su base locale e territoriale, poi in istituzioni nazionali e in iniziative
pacifiste interessanti scuole e università – i primi tentativi di collaborazione tra
fisici e storici, medici e sociologi, psicologi e filosofi; la stessa che ha condotto
fisici a scrivere da storici, psicoanalisti ad occuparsi di problemi socio–politici,
uomini di religione ad operare per la salvezza laica dell’uomo.
L’impegno alla ricerca che intendiamo promuovere da educatori non è infatti fine
a se stesso, ma mira a ricercare e approfondire un rapporto organico con le varie
componenti del movimento per la pace, che valga anche ad incoraggiare quei
collegamenti organizzativi che già stanno prendendo forma tra gruppi militanti
locali e nazionali, attraversando anche le formazioni politico parlamentari e
perseguendo proprie capacità di proposta. Non si deve denunciare solamente,
vanno anche e soprattutto cercate alternative.
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“La pace non può limitarsi a desideri di genti che hanno differenti opinioni, o ad un periodo di
sosta tra due guerre[...]. La pace deve convertirsi in una scienza; in qualche cosa di positivo
analizzato in tutti i suoi fattori: e studiato in ciascuno di essi con cura e previsione”. M.
Montessori, Educazione e pace, Milano, Garzanti, 1959. Cit p.141.