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PREFAZIONE
Eppure era stata prevista… Paul Krugman nel 1999 aveva raccontato le crisi che
avevano devastato diverse economie in Asia e America Latina, avvertendo una
possibile, imminente e nuova Grande Depressione. “Ma, come i batteri diventano
resistenti agli antibiotici, anche la moderna finanza è diventata immune ai rimedi
escogitati dopo la crisi del 1929”1. I primi anni del nuovo millennio, con il boom di
Wall Street e il trionfo della finanza allegra, sembravano smentire questa previsione.
Poi è arrivato il grande crac nel settembre 2008 e nelle stesse settimane Krugman
ricevette il Premio Nobel per l’Economia. La “deregulation” e le dinamiche di un
sistema finanziario svincolato da ogni controllo hanno prodotto la peggiore crisi dagli
anni Trenta. Alla fine degli anni Novanta, un gruppo di economie asiatiche che
producevano un quarto dell’output mondiale e che contavano circa 600 milioni di
abitanti, visse una crisi che ricordava sinistramente la Great Depression: oggi come
allora la crisi iniziò in un cielo azzurro e sereno dove gli esperti erano convinti che il
boom potesse continuare all’infinito. Si è forse perso l’insegnamento della storia?
Nessuna persona di buon senso pensava che i problemi in economia fossero risolti,
ma eravamo sicuri che i nuovi problemi fossero differenti da quelli degli anni Trenta.
Non mi interesserò di ciò che è successo, ma del perché, oscuro a molti,
concentrandomi dapprima sulla crisi di alcune economie degli anni Novanta.
Ho scelto tale argomento per la mia tesi perché bisognerebbe isolarsi, ragionare e
cercare di capire cosa sta succedendo e perché siamo coinvolti in questa situazione:
questa tematica interessa tutti noi, in futuro non potrà essere tutto come prima della
crisi, ma bisognerà cambiare drasticamente registro.
1
P. Krugman, “Il ritorno dell’economia della depressione e la crisi del 2008”, Milano, Editore:
Garzanti
5
INTRODUZIONE
Non si può non considerare l’evento politico fondamentale degli anni Novanta: il
collasso del socialismo, che ebbe inizio in Cina grazie a Xiao Ping che si avviò al
capitalismo, lasciandosi alle spalle il marxismo. Nel 1991 si sfaldò l’Urss: iniziò la
marcia al capitalismo dei Paesi dell’Est, ma il passaggio non fu immediato, perché la
transizione in molti casi non fu indolore. La transizione dal socialismo al capitalismo
non è stata facile per nessuno, ma per la Russia è stata ancora più difficile: la sua
economia inizialmente non riceveva più alcuna guida da parte del centro.
Conseguenza, infatti, della caduta del regime sovietico fu che i governi che nel
passato si erano affidati alla sua generosità, dovevano fare affidamento solo su se
stessi; è il caso della Corea del Nord o di Cuba, movimenti estremisti quali le Br in
Italia non potevano più beneficiare degli aiuti sovietici e scomparvero. Ma aveva una
freccia al suo arco, disponendo di un grande arsenale nucleare; non minacciò di
venderlo al migliore offerente, ma il rischio che prima o poi potesse succedere ha
condizionato non poco la politica occidentale.
La Germania orientale è ancora oggi considerata da quella occidentale al pari del
Mezzogiorno italiano, cioè una zona depressa e fonte di problemi sociali e fiscali. Al
secondo conflitto mondiale seguì un periodo di ripresa e di elevata crescita, durante il
quale le recessioni furono brevi e non particolarmente gravi, tanto da far pensare
molti economisti che il ciclo economico fosse un concetto obsoleto. Tuttavia gli anni
Settanta furono segnati dalla stagflazione e dalle due grandi crisi energetiche. Ma
come nasce una recessione? L’offerta è maggiore della domanda, si assiste a una
mancanza di domanda effettiva e bisogna trovare un modo per gestirla e superarla, ad
esempio attraverso l’emissione di nuova moneta da parte delle Banche centrali, che
hanno il compito di mantenere in equilibrio un’economia. A questo punto è legittimo
chiedersi per quale motivo esistono collassi economici se il problema può essere
superato stampando nuova moneta. Per molti economisti, tra cui Schumpeter, la
Great Depression era da considerarsi come un processo salutare ai precedenti eccessi
dell’economia; questo fatalismo scomparve dopo il secondo conflitto mondiale. Se la
Banca Centrale emette troppa moneta si crea inflazione, e una volta radicata nelle
aspettative delle persone, può essere estirpata solo attraverso un periodo di elevata
disoccupazione. Nel 1987 il mercato azionario statunitense collassò per un solo
giorno, ma la Fed rifornì di contanti il sistema e il Dow Jones riprese presto quota:
sembrava aver trovato la medicina. “Nonostante ci siano multinazionali senza
scrupoli, le condizioni di vita dei Paesi sottosviluppati sono migliorate: si pensi al
salario medio orario della Corea del Nord nel 1975 pari al 5% di quello americano e
nel 2006 pari al 62% il medesimo. Questi miglioramenti vi furono senza aiuti
concreti dagli occidentali o politiche attuate dai governi nazionali, bensì frutto del
capitalismo, che comunque crea ovunque enormi disuguaglianze, anche negli stessi
Usa”2.
2
P. Krugman, op.cit.
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1 DALLA FINE DELLA PRIMA GUERRA MONDIALE ALLA
GLOBALIZZAZIONE
1.1 Dalla lezione keynesiana al Piano Marshall e ai tentativi di
integrazione europea
La storia dimostra quale importanza rivestano le politiche economiche per la coesione
del tessuto sociale: dopo la prima guerra mondiale il trattato di Versailles addossò
alla Germania riparazioni punitive ben al di sopra delle sue possibilità di ripagarle.
John Keynes si dimise per protesta dalla delegazione britannica a Versailles e nel
1919 scrisse “Le conseguenze economiche della pace”, dove previde l’esito
disastroso del trattato. Il suo monito fu ignorato, il trattato rimase in vigore e la
Germania non riuscì a pagare le riparazioni imposte: il disastro preannunciato da
Keynes si manifestò con un intenso risentimento e con l’esplosione del secondo
conflitto mondiale. Nel dicembre del 1930, quando fu chiaro che la recessione in atto
non era ordinaria, John Keynes spiegò che c’erano dei “problemi al motorino
economico di avviamento”3 che non sarebbe ripartito da solo senza una spinta del
Governo. Oggi ci attendiamo dai suoi suggerimenti, che una recessione possa essere
combattuta diminuendo le tasse, i tassi d’interesse e aumentando la spesa. Le
politiche con cui i Paesi asiatici gestirono la loro crisi furono opposte, e dettate da
Washington.
Oggi preoccupazioni analoghe ci ossessionano: molti non sono in grado di rimborsare
debiti eccessivi e sono incalzati dai creditori, vedono crollare intorno a loro istituzioni
di cui un tempo avevano fiducia e di nuovo sentono di essere stati ingannati.
“Una volta presa in seria considerazione l’eventualità di una crisi che si autoalimenta,
la psicologia del mercato diventa un elemento cruciale, perché credere in qualcosa
equivale a renderla reale”4. Il principale obiettivo degli economisti di Washington era
ammorbidire il giudizio del mercato, dato che un Paese che chiede aiuto agli Usa o al
Fmi, ha già avuto problemi valutari o ha corso rischi simili. Ecco come la sintesi
keynesiana ha fatto una brutta fine: oggi la politica economica internazionale ha poco
a che fare con l’economia. La politica non è riuscita a contrastare il devastante circolo
vizioso che ha fatto crollare un’economia dietro l’altra perché ci si concentrò sulla
fiducia del mercato e anziché contrastare le politiche economiche che avevano
aggravato i problemi, le assecondò. Il Fmi è per i governi nazionali il prestatore di
ultima istanza e chiede riforme strutturali come conditio sine qua non per la
concessione di prestiti ai Paesi in difficoltà.
Keynes denunciò gli errori più gravi del Trattato di Pace di Versailles: la richiesta di
riparazioni esose alla Germania che miravano alla distruzione della sua economia, la
3
F. Fauri, “L’economia e l’integrazione economica europea”, Bologna, Editore: il Mulino
4
Da Paul Krugman, op.cit.
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questione dei debiti di guerra tra gli alleati, che dovevano essere cancellati per evitare
il groviglio di tributi che i Paesi europei dovevano pagare l’un l’altro. Inoltre accusò
gli stati vincitori di aver fissato i nuovi confini sulla base del nazionalismo e interesse
privato e raccomandò agli americani di evitare l’isolazionismo. Tutte queste
raccomandazioni non furono seguite. Dal momento che gli Stati Uniti era l’unico
paese creditore, tutti gli altri chiesero alla Germania il pagamento delle riparazioni
per poi ripagare i debiti di guerra agli Usa. Già nel trattato di Versailles, erano
contenuti i germi che condurranno poi allo scoppio del secondo conflitto mondiale.
Questo fallimento della diplomazia internazionale, uno dei più vergognosi atti di
crudeltà del vincitore che la storia della civiltà ricordi, non si registrò nel secondo
dopoguerra. Nel marzo 1941 fu approvata una legge, il lend-lease che consentiva
trasferimenti gratuiti di risorse americane a quei Paesi che contribuivano alla difesa
degli Usa; inoltre gli Usa intervennero con un programma di aiuti materiali per
risollevare i paesi europei distrutti dalla guerra. Ciò che si concretizzò a Bretton
Woods fu la nascita di due istituzioni: il Fondo Monetario Internazionale e la Banca
Internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo. La prima doveva mantenere la
stabilità dei cambi e risolvere i problemi collegati alla bilancia dei pagamenti, la
seconda incoraggiare gli investimenti internazionali di lungo periodo. Nel 1943 le
Nazioni Unite approvarono un programma di aiuti per i Paesi devastati dal conflitto,
l’Unrra, con la partecipazione di 44 paesi(tra cui Italia, Repubblica Ceca, Austria,
Ucraina, Cina, Polonia), ma la vera arma della vittoria furono gli aiuti lend- case per
il rilevante importo. La lentezza della ripresa italiana era dovuta alla penuria di
materie prime e carburante e verso la fine del 1946 la situazione produttiva italiana
iniziò a dare i primi segni di ripresa soprattutto nel settore tessile, grazie alle
importazioni Unrra di cotone e lana. Le assegnazioni dell’Unrra evitarono il completo
collasso economico, monetario e sociale italiano, gettando le prime basi per la
ricostruzione. Ma si stimava già allora che solo questi aiuti non avrebbero soddisfatto
il fabbisogno italiano di importazioni. Gli Usa intendevano far cessare gli aiuti entro
il 1947, ma la situazione era grave in molti paesi europei come l’Italia che
presentavano deficit crescenti della bilancia dei pagamenti per l’aumento delle
importazioni a cui non corrispondeva una parallela crescita delle esportazioni, questi
deficit raddoppiarono per l’inflazione che colpì gli Usa dal 1946 che rendeva
complicato ripagare le importazioni americane per il dollar gap. Lo schema di aiuti
statunitensi fu pronunciato dal segretario di Stato George Marshall il 5 giugno 1947
in cui si metteva l’accento sulla natura finanziaria della crisi: egli sostenne che gli
Stati europei dovevano accordarsi per definire le richieste di aiuti. La proposta fu
recepita immediatamente e iniziarono le consultazioni tra i diversi stati sulla richiesta
di dollari necessari per la ricostruzione europea. Alla fine vennero richiesti poco più
di 19 miliardi di dollari e ci si impegnò a istituire un’Organizzazione europea per la
cooperazione economica per gestire il piano di aiuti(Oece). L’European Recovery
Program, meglio noto come piano Marshall, approvato il 3 aprile 1948, prevedeva
un piano quadriennale di aiuti e fini molteplici: gli Usa volevano promuovere la
stabilità sociale contro il pericolo comunista e a favore degli interessi strategici
americani in Europa, prevenire il crollo del commercio e dei pagamenti
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internazionali, reintegrare la Germania nel contesto europeo e incoraggiare
l’integrazione militare e politica europea. L’idea fondamentale era che la ripresa
economica europea fosse essenziale per gli interessi a lungo termine degli Usa. I
paesi europei dovevano assumere gli Usa come modello di riferimento sul piano
dell’organizzazione di un unico mercato europeo. Il meccanismo di funzionamento
dell’Erp ricalcava quello dell’Unrra: gli aiuti erano suddivisi in merci cedute
gratuitamente e prestiti per l’acquisto di attrezzature industriali. Il ricavato dei primi
confluiva nelle casse di ogni Stato e rappresentava una fonte importantissima di
valuta nazionale, ma, diversamente dall’Unrra, gli Usa imposero il controllo
sull’utilizzo di questi fondi. Francia e Germania li investirono nel settore energetico,
l’Italia nei trasporti e nelle comunicazioni, Gran Bretagna e Norvegia per ridurre il
loro debito pubblico. Nel Piano rientrarono le attività di difesa che si svilupparono
sotto l’egida della Nato e grazie a questi aiuti i consumatori europei beneficiarono di
una minor pressione fiscale e maggiore sicurezza nazionale. Inoltre nel 1948
l’amministrazione dell’Erp lanciò un nuovo programma con lo scopo di introdurre in
Europa i metodi di lavoro, modelli di relazione intra- industriale e tecniche
manageriali americane: tra il 1948 e il 1958 migliaia di missioni provenienti
dall’Oece visitarono gli Usa per carpire il segreto della migliore performance
dell’economia americana. Contemporaneamente diversi esperti e consulenti
americani girarono per le fabbriche europee per individuare la ragione del divario di
produttività. Per tutte le economie europee non fu solo importante la grandezza del
Piano Marshall, ma anche la continuità e la flessibilità: tra il 1948 e il 1951 furono
inviati all’Europa beni per 12 miliardi di dollari consistenti in prodotti alimentari,
materie prime, carburante e moderne attrezzature. Il piano non va giudicato
solamente per gli effetti di breve periodo, ma anche per quelli di crescita successiva.
Una delle prime e poche aziende italiane a cogliere le opportunità di rinnovamento
offerte dal piano fu la Fiat, che si equipaggiò della migliore tecnologia americana. Al
termine del secondo conflitto mondiale, l’Oece si occupò di distribuire gli aiuti
americani, ma istituì anche l’Unione europea dei pagamenti per uscire dal vicolo
cieco degli accordi di pagamento bilaterali e cercò di abolire le restrizioni
quantitative; i dazi invece rimasero oggetto di successivi negoziati sotto l’egida del
Gatt(General Agreement on Tariffs and trade) e della politica economica di ogni
governo. Alla fine del conflitto la maggior parte delle valute europee non era
convertibile e il commercio regredì a forme di baratto bilaterali. Due erano i problemi
principali inerenti le transazioni bilaterali: le difficoltà di bilanciare gli scambi tra due
paesi e l’impossibilità di utilizzo del surplus di valuta estera sul mercato di un terzo
paese. La soluzione sembrò essere un accordo di compensazione multilaterale che si
tradusse nell’accordo di clearing firmato inizialmente da Francia, Italia e Benelux nel
settembre 1947, ma non risolse i problemi. L’accordo che sanciva la nascita dell’Uep
fu firmato nel 1950 dopo lunghi negoziati: si passò a un sistema di compensazioni
multilaterali che riguardava tutti i Paesi europei assicurandone la piena convertibilità
delle valute. Oltre al problema dell’inconvertibilità, l’Europa nel post-guerra aveva
altri due problemi: i contingentamenti e i dazi; i dazi tendono ad alzare il prezzo dei
prodotti importati, i contingentamenti limitano le importazioni di un certo prodotto a
9
un livello predeterminato. Solo nel 1951 l’Oece constatò qualche progresso nella
rimozione dei contingentamenti su tre quarti del commercio europeo: l’Italia divenne
il Paese meno coperto da contingentamenti decidendone la rimozione sul 99.7% delle
importazioni. Maggiore è il numero di contingentamenti aboliti, maggiore è la
difficoltà di eliminare i rimanenti. L’Italia, in parte per reazione alla precedente
politica autarchica del fascismo, accettò totalmente la politica di liberalizzazione
dell’Oece, ma fece più fatica a discostarsi dalla protezione tariffaria, le cui riduzioni
erano oggetto di negoziati o round sotto l’egida del Gatt, istituito a Ginevra nel 1947,
che si basava sulla clausola della nazione più favorita come si evince dall’articolo
1: “Tutti i vantaggi, favori, privilegi e immunità accordati da una parte contraente a
un prodotto originario da, o destinato a, qualsiasi altro Paese saranno estesi
immediatamente e senza condizioni a ogni prodotto similare originario dal , o
destinato al, territorio di tutte le altre parti contraenti”. I dazi andavano riaffermando
la loro importanza quali barriere al commercio intraeuropeo: i paesi membri
dell’Oece sapevano di poter contarci per compensare la perduta protezione dei
contingentamenti e in alcuni casi i dazi erano fissati a livelli artificialmente alti per
aumentare i margini di negoziazione nei forum internazionali e poterli ridurre con più
tranquillità. Per l’Italia un dazio elevato avrebbe dovuto tutelare la debolezza del
sistema produttivo rispetto ai concorrenti europei. Grazie all’Uep le valute erano
tornate convertibili, i contingentamenti fortemente ridotti e i round del Gatt avevano
cominciato a smantellare le protezioni daziarie: a fronte di ciò le esportazioni della
maggior parte di Paesi industrializzati crebbero a una velocità senza precedenti. Si
pensi che il tasso di crescita del Pil in Italia fu del 6% medio annuo e le esportazioni
italiane verso l’Europa crebbero dal 46% al 62%. L’esistenza di una evidente
correlazione tra gli alti tassi di crescita dei sistemi economici e gli alti tassi di
incremento delle esportazioni portò alla formulazione della teoria della crescita
trainata dalle esportazioni di Beckerman: se le esportazioni crescono rapidamente, ciò
risolverà i problemi legati alla crisi della bilancia dei pagamenti e produrrà effetti
benefici su investimenti, produttività, competitività, che migliorando non potranno
che fornire un ulteriore stimolo alle esportazioni. Perciò in un modello di crescita
trainato dalle esportazioni, il successo sui mercati esteri porterà a una crescita
virtuosa di tutto il potenziale economico; in Paesi con esportazioni poco competitive
non potrà che verificarsi un circolo vizioso di crescita. Una crescita export-led
permette una simultanea crescita di altre componenti della domanda, senza che il
sistema economico sia turbato da difficoltà legate alla bilancia dei pagamenti.
Tuttavia questa teoria non spiega perché in alcuni Paesi le esportazioni sono cresciute
più in fretta che in altri. Inoltre dagli studi di Belassa emerge che bisogna esportare
prodotti competitivi, che abbiano un notevole impatto sull’economia, per i quali la
domanda internazionale è in rapida crescita: la crescita dipende dalla necessità di
esportare le merci giuste, cioè quelle per cui la domanda internazionale è in continua
ascesa, verso i Paesi giusti e ad un prezzo competitivo internazionale. I paesi
esportatori che hanno avuto maggiore successo sono quelli che hanno saputo adattare
costantemente la produzione alla domanda mondiale in continua evoluzione. Oggi si
può considerare che la crescita fu il risultato di tanti fattori concomitanti: tutte le