4
Introduzione
“Ancora un altro discorso sull’alterità”: è questo quello che, più
volte, mi sono sentita ripetere nel corso delle ricerche per la stesura di
questa tesi. E si tratta, in effetti, di un argomento più volte scandagliato
secondo i diversi punti di vista di vari filoni teorici. Ciò deriva
probabilmente dal fatto che, in ogni tempo, in ogni luogo e in ogni cultura,
non manca mai la presenza di una dimensione che può essere confinata in
quelli che possiamo definire i ‘territori’ dell'alterità. La produzione
dell'altro, infatti, è essenziale innanzitutto per la ‘costruzione’ della nostra
stessa identità e, conseguentemente, per il mantenimento di quelle società,
come la nostra, che si reggono su rigidi meccanismi di inclusione ed
esclusione dell’altro e sulle gerarchie che ne conseguono. E’ necessario,
però, a mio parere, soffermarsi sui modi in cui questo discorso è stato
costruito, seguendo quelle “retoriche dell’alterità” che, mentre cercano di
assimilarne i confini all’interno dei propri orizzonti di significato, non
fanno altro che perderne di vista i reali contenuti. Seguendo le parole di
Pier Paolo Rovatti, infatti, possiamo dire che “la modernità ha prodotto, per
tamponare il buco dell’altro”, una serie di strategie discorsive attorno
all’idea della ‘buona’ o della ‘cattiva’ alterità che, nella “genealogia
dettagliata dei modi di essere della diversità”, non fanno altro che ascrivere
l’altro ad una “geografia del medesimo”
1
. Non si tratta, invece, di acquisire
un sapere sull’altro ma, al contrario, di spostarci “dal posto sicuro del
soggetto della conoscenza e della coscienza, dalle certezze della nostra
1
P. A. Rovatti, Abitare la distanza: per un’etica del linguaggio, Feltrinelli, Milano 1994, p. 146
5
identità e del nostro sapere”
2
, per lasciarci invadere da quell’altro che, oltre
ad essere una presenza costante dinanzi a noi, è anche quello che ci ‘abita’.
Ogni essere umano, infatti, fin dal primo momento di vita, insegue e ricerca
instancabilmente un’immagine di sé nella quale potersi riconoscere. Tale
immagine, però, non può fare a meno della compresenza di un’estraneità, la
sola che possa permettere al proprio io di percepirsi come dall’esterno, a
partire da un “là” che rinvia a se stessi
3
. Ma come può l’identità
fronteggiare la molteplicità senza mettere a repentaglio la propria
coerenza? L’unico modo è quello di ridurre drasticamente le alternative,
l’alterità. Secondo Remotti si tratta, infatti, di “decidere l’identità”
4
:
stabilirne i confini per sottrarla al flusso indeterminato che la sottende,
determinandola in rapporto alle infinite alternative che la circondano e che,
per il fatto stesso di essere ‘tagliate fuori’ vanno a determinare tutto ciò che
da quel momento in poi si pone ad essere come alterità. Da una parte il
mutamento, le possibilità inesplorate, le connessioni, dall’altra la
costruzione di strutture che tentano di tagliare, separare, e specificare, nel
tentativo di creare dei confini stabili e duraturi. In questo percorso di
differenziazione, che comporta in qualche modo l’esercizio di una violenza,
decidere l’identità è, quindi, recidere le connessioni e ridurre le alternative,
a scapito dell’alterità.
Ma, raggiunto un certo, e necessario, grado di coesione interno, l’identità
dovrebbe riconoscere l’alterità come una possibilità informativa, in grado
di rendere l’identità stessa, non un processo definitivo e conclusivo, ma una
successione continua di pluralità di cui l’alterità fa parte integrante.
2
G. Berto, Ama il prossimo tuo, in P. A. Rovatti (a cura di), Scenari dell’alterità, Studi Bompiani, Milano
2004, p. 69
3
R. Kirchmayr, La violenza di uno sguardo, ivi, p. 23
4
F. Remotti, Contro l’identità, Laterza, Roma-Bari 2003, p. 10
6
L'alternativa alle divisioni causate da ciò che nel processo di costruzione
identitaria viene negato, quindi, non consiste nel sostenere irrealisticamente
che siamo tutti uguali, ma nel sottolineare, come spiega Amartya Sen, "la
pluralità delle nostre identità"
5
, che come “fonte di ricchezza e calore”, ma
anche di “violenza e terrore”
6
, vanno a intrecciarsi le une con le altre.
Non si tratta, allora, di andare “contro l’identità” semplicemente
rifiutandola, lavando via dalla sua superficie ogni ‘peccato originale’ che
essa porta con sé. Né si tratta di accettare l’alterità in blocco, senza
discussioni, utilizzando quella “retorica dell’alterità” come ‘risarcimento
danni’ per l’originaria negazione compiuta su di essa; perché l’altro non è
necessariamente ‘buono’, l’alter-ego può anche essere il nemico e, anzi,
nella realtà quotidiana è spesso proprio da lì che parte il confronto. Ciò che
qui si vuole proporre è, in effetti, molto più semplice e forse, proprio per
questo, perché possibile da realizzare, molto più difficile: accettare
quell’alterità che ci abita, la distanza dal sapere che abbiamo di noi e da
quel “segreto” che di noi gli altri, invece, detengono, attraverso un
discorso, da dover ‘esercitare’ costantemente, che ci consenta di accogliere
il carattere di incontrastabile apertura e indeterminatezza della nostra
identità, i cui confini non possono essere modellati se non intorno ad ogni
tipo di relazione con l’altro, che ne fa da pernio.
Il vero sforzo, dunque, non sta nel riempire la distanza tra noi e l’altro, che
è incolmabile, ma nell’accogliere questa mancanza che ci costituisce;
perché, se accettata, e non più negata, può renderci, finalmente, davvero
ospitali. Con noi stessi, prima di tutto, e poi, di pari passo, con gli altri.
5
A. Sen, Identità e violenza, Laterza, Roma-Bari 2006, p. 19
6
Ivi, p.5
7
Un’ultima precisazione, che credo sia utile fare, riguarda il modo in
cui ho deciso di strutturare quella che è una tematica che, sin dall’inizio, mi
è apparsa nella sua vastità. Ogni capitolo, infatti, è preceduto da alcune
pagine introduttive che, nel riassumere in una serie di punti la dimensione
del discorso verso cui si sta per rivolgere l’attenzione, fanno anche da guida
utile per evitare di perdersi nelle innumerevoli sfaccettature che esso porta
con sé. E’ possibile, perciò, seguire il filo rosso segnato dalle tre note
introduttive ai tre capitoli, per ottenere un quadro generale degli obiettivi di
questo studio. Questo perché, a mio parere, un singolo lavoro introduttivo
che abbracciasse l’intero discorso, sarebbe stato riduttivo e forse, anche,
dispersivo.
Per quanto riguarda, poi, più nel dettaglio, le tematiche affrontate da
ogni capitolo, basta dire, sommariamente, che il primo capitolo, intitolato
Identità e riconoscimento, punterà sullo studio dei modi in cui l’identità
viene a formarsi, costruendosi intorno al suo rapporto con l’altro, e
arrivando, poi, a perdere quella sua dimensione relazionale nel nome di una
‘presunta’ unità e indipendenza che, nascondendone l’illusorietà, fa sì che
essa venga ad essere addirittura ‘recitata’ nella vita di ogni giorno. Nel
secondo capitolo, Lo sguardo dell’altro, l’attenzione è, invece, puntata a
illuminare i motivi da cui scaturisce la dimensione conflittuale che lega
ogni forma identitaria all’incontro con l’altro: lo sguardo dell’altro, infatti,
svela la precarietà delle nostre ‘costruzioni’, nella facoltà che egli ha di
detenere il ‘segreto’ del nostro essere, quel ‘segreto’ a noi sempre negato e
impossibile da cogliere, anche nell’illusione di quell’immagine di noi stessi
che lo specchio ci rimanda. L’ultimo capitolo, poi, volge, al contrario, Lo
sguardo sull’altro, sottolineando le difficoltà che sorgono nel momento in
8
cui si tenta di farne oggetto di un discorso, nell’impossibilità di afferrare
quel ‘segreto’ che, qui, invece, appartiene proprio al suo essere altro,
portatore di un’alterità che nel momento in cui viene nominata mostra il
suo carattere artefatto.
I testi letterari che accompagnano il viaggio attraverso le teorie dei
vari autori, infine, sono serviti come bussola per riportare il discorso,
seppure attraverso la penna di due scrittori, dal cielo della teoria al
momento dell’incontro reale con l’altro o con se stessi: nello sgomento che
provoca la sua stessa esistenza o nella scoperta di quel ‘fantasma’ riflesso
nella propria immagine, che smaschera la ‘finzione’ dei propri confini
identitari.
9
CAPITOLO I
IDENTITA’ E RICONOSCIMENTO
Come il corpo si forma originariamente nel seno materno,
così anche la coscienza dell’uomo
si sveglia avviluppata dalla coscienza altrui.
Michail Bachtin
Quando qualcuno esprime il desiderio di voler ‘trovare se stesso’ o,
meglio ancora, di voler ‘essere se stesso’, si riferisce ad un oggetto che tutti
noi immaginiamo caratterizzato da stabilità, unità e concretezza: l’identità.
Quello che, però, la nostra immaginazione e il nostro senso comune non ci
permettono di cogliere, è che, quando parliamo d’identità, non possiamo
riferirci ad una materia sostanziale, a un qualcosa di connaturato e di già
dato alla nascita per ognuno di noi, ma è, invece, fortemente necessario
sottolineare il carattere processuale e sociale che è alla base della sua
formazione/costruzione. L’identità, quindi, non va colta come un’unità
monolitica innata, ma come un diamante dalle infinite sfaccettature, che
riflette un mutevole sistema di relazioni e rappresentazioni sociali. Come
vedremo, infatti, la dimensione intersoggettiva è alla base della formazione
dell’identità e del suo successivo sviluppo: la possibilità di costruire la
propria identità è legata alla compresenza dell’altro, in un gioco di
reciproco e indispensabile riconoscimento. E’ solo attraverso il modo in cui
l’io si riflette nell’immagine che l’altro gli attribuisce che è possibile
costruire dei confini identitari che sono, quindi, innanzitutto, riflessi
d’alterità: l’altro è indispensabile per il fondamento stesso dell’identità
perché essa non può essere se non attraverso la presenza di una differenza,
che essa stessa, però, contribuisce a creare.
10
Nel cuore dell’identità, infatti, è insito un processo di definizione e di
circoscrizione dello spazio, di creazione di un limite oltre il quale si situa il
‘non-io’ e, quindi, tutto ciò che, da quel momento in poi, diviene ‘altro’.
Dobbiamo allora escludere l’esistenza di un’identità che si costituisca
attraverso lo sviluppo di una potenzialità programmata, esistente a priori e
autofondatasi, perché essa è, invece, fondata e interamente attraversata
dall’altro, dal cui riconoscimento dipende nel suo essere. Identità e alterità
sono l’una nel cuore dell’altra, in un rapporto di perenne dialettica in cui
vanno inevitabilmente a determinarsi reciprocamente: l’alterità nasce in
maniera speculare nel momento in cui viene definita l’identità, in un
processo che coinvolge il modo in cui è pensato l’altro e che, allo stesso
tempo, come abbiamo detto, decide anche della percezione e della
formazione della nostra identità.
Se, perciò, consideriamo il carattere sociale e di continua
negoziazione che sottende alla formazione dei confini identitari, appare
chiaro quanto sia necessario abbandonare ogni visione essenzialistica
dell’identità, che si soffermi a considerarne il carattere pre-esistente e a-
sociale, garantito dall’organizzazione ontologica della realtà, per adottarne
una di tipo convenzionalistico, che metta in luce l’arbitrarietà del suo
processo costitutivo. L’identità, infatti, non inerisce all’essenza di un
oggetto, ma scaturisce principalmente dalla logica classificatoria tipica
dell’umano “intelletto tabellesco” di cui parlava Hegel, derivando da
procedure di “tagli” e “separazioni” per un verso e di “accostamenti” e
“connessioni” per un altro
7
, che, come fili, si dipanano all’interno di una
determinata cornice culturale, a partire dal confronto intersoggettivo. Essa
7
F. Remotti, Contro l’identità, op. cit., p. 8
11
è, quindi, prodotto di uno sforzo di costruzione, che implica un
procedimento di differenziazione che si esercita nei confronti dell’alterità e
delle alterazioni. Ha carattere artefatto, contingente e arbitrario, che viene
però, al contrario, manifestato come essenziale e connaturato, in un
processo di “occultamento” delle operazioni che la pongono in essere
8
che
segue i meccanismi della reificazione, per cui ciò che è prodotto
dell’umana fattura s’innalza ad essere ‘deificato’: eterno e autofondato.
Alla “finzione” originaria, costitutiva dell’identità, si aggiungono allora
“finzioni” secondarie, con lo scopo di salvaguardarne l’integrità e di
sottrarla all’arbitrarietà, precaria e destabilizzante, da cui prende origine.
Il paradosso della logica identitaria, che coinvolge tutti noi, è, allora, quello
che deriva dalla rimozione e negazione di tale forma socialmente artefatta
di cui consta l’identità, che viene, invece, attribuita “a soggetti entificati”, il
sé, la nazione o l’etnia, “i quali sono sempre posti al di là e al riparo dalle
negoziazioni e dagli affari sociali. Sulla base di queste entità l’identità
assume carattere potenzialmente perenne(…); può vantare inoltre caratteri
di unità, di coerenza, di indiscutibilità”
9
.
Lo scopo delle discipline interessate allo studio di questo largo
ambito di significati, e in particolare quello dell’analisi sociologica, deve
essere soprattutto quello di far “esplodere ciò che convenzionalmente si
definisce identità in una molteplicità di elementi”
10
, operando quella che
Claude Lévi-Strauss chiama “una critica dell’identità” che non sta “tanto
nel fatto di postularla o nel fatto di affermarla quanto nel fatto di rifarla, di
ricostruirla”
11
intendendola come “una sorta di fuoco virtuale”, un “limite”
8
Ivi, p. 97
9
Ivi, p. 98
10
Ivi, p. 99
11
C. Lévi-Strauss (a cura di), L’identità, Sellerio, Palermo 1996, p. 309
12
a cui ci si può riferire nella teoria “cui non corrisponde in realtà nessuna
esperienza”
12
.
E’ interessante notare quale e quanto sia stato, soprattutto negli
ultimi decenni e nei più diversi ambiti disciplinari, l’uso e l’abuso del
concetto d’identità e dell’iscindibile relativo concetto di alterità. Terreno
scivoloso e privo di argini definiti a cui poter fare riferimento, esso mette in
luce angolature diverse al variare delle prospettive (filosofiche,
sociologiche, antropologiche, psicologiche) da cui si decide di partire per
scandagliarne gli angoli più remoti. Non potendo prendere in
considerazione i molteplici apporti dati dagli esponenti delle diverse
discipline, nel corso di questo lavoro, e soprattutto in questo capitolo, ho
deciso di focalizzare l’attenzione su due, tra i principali filoni teorici più
importanti in sociologia, a cui si deve l’esplorazione della tematica
dell’identità: la corrente del pensiero psico-sociologico americano che va
sotto il nome di interazionismo simbolico, e che ha affrontato il tema
dell’identità sottolineando i processi sociali di formazione del self
nell’ambito di un’analisi micro-sociologica dell’interazione quotidiana; e la
fenomenologia sociale, in particolare di autori come Berger e Luckmann,
per evidenziare quelli che sono i processi di costruzione e conservazione di
una cornice identitaria.
Nella seconda parte di questo capitolo, in particolare, ho voluto
rivolgere l’attenzione verso i modi in cui l’identità, costruita e definita
socialmente, viene ‘recitata’ nella vita di ogni giorno. Per far questo, ho
seguito il lavoro di Erwing Goffman, sociologo fuori dal comune, spesso
totalmente collocato sotto l’ala dell’interazionismo simbolico ma, in realtà,
12
Ivi, pp. 310-311