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1. IL LAVORO NELLA SOCIETÀ
POST-INDUSTRIALE
1. RIGIDITÀ E FLESSIBILITÀ: DUE MODELLI A CONFRONTO
Il futuro assetto della società post-industriale è stato oggetto di numerose riflessioni da
parte di sociologi, storici e filosofi, che ne hanno tracciato possibili scenari, discusso carat-
teristiche e delineato dinamiche evolutive.
Tra le possibili chiavi di lettura, significativa ai fini del presente lavoro è l’alternativa,
delineata dagli studiosi della sociologia evoluzionista, tra i concetti di rigidità e flessibilità,
o più precisamente, tra i modelli della società rigida e della società flessibile.
Elemento fondamentale di questa teoria è l’osservazione che ogni società umana pre-
senta al suo interno sia elementi di rigidità che elementi di flessibilità, quale che sia il setto-
re preso in considerazione: lavoro, istituzioni, rapporti interpersonali, modelli culturali,
tempo libero. Con l’espressione società rigida/società flessibile si vogliono però indicare
due contrapposti modelli teorici puri, non riscontrabili nella realtà, ciascuno con caratteristi-
che peculiari. Rigidità e flessibilità convivono pertanto in ogni formazione sociale, non po-
tendo esistere nella realtà una società interamente «rigida» o interamente «flessibile». Si è
cioè di fronte a quello che è stato definito dalla sociologia “un continuum rigidi-
tà/flessibilità, lungo il quale è possibile collocare le formazioni sociali storicamente esistite
o prevedibili per il prossimo futuro.
1
L’analisi di questi caratteri sarà utile per una più chiara comprensione dei significati
del dualismo rigidità/flessibilità allorché tale modello sarà utilizzato per accennare ai mu-
tamenti in atto del significato dei valori e delle forme del lavoro nella nostra società.
La società rigida si connota per essere caratterizzata da alcuni elementi-chiave: rigida
segmentazione della vita umana in periodi di formazione, periodi di lavoro e periodi di ripo-
so; elevata burocratizzazione della società; assolutizzazione del lavoro come valore fonda-
mentale dell’esistenza umana; forte compressione della discrezionalità e della libertà indivi-
duale.
1
Cfr. Cesareo Vincenzo, La società flessibile, Ed. Franco Angeli, Milano, 1987, pag. 8
8
Aspetti, questi, che si contrappongono a quello che è stato definito il «polo opposto»
della rigidità, ovvero la società flessibile. Caratterizzata al contrario da un sempre più ridot-
to tempo di lavoro individuale con conseguente espansione dei periodi di tempo libero
(all’interno dei quali il fenomeno del volontariato troverebbe sempre più occasioni per rea-
lizzarsi); sviluppo crescente delle interrelazioni umane; relativizzazione del valore del lavo-
ro; aumento di istanze di soggettività individuale; spazi sempre più ampi di autonomia deci-
sionale e lavorativa.
Benché i due scenari proposti in base al dualismo rigidità/flessibilità conoscano en-
trambi numerosi sostenitori, è comunque il secondo ad essere affermato con sempre più en-
fasi dalla sociologia. Secondo l’opinione prevalente l’evoluzione della società attuale par-
rebbe infatti muoversi nella direzione della flessibilità: come osserva in proposito A. Accor-
nero, “l’irrigidimento non si può escludere, ma bisogna riconoscere che la realtà non ha
smentito le previsioni: in tutti i sistemi sociali vi è stata davvero una tendenza verso minori
rigidità e maggiori flessibilità, [anche se] questa tendenza non si evolve con regolarità, né
con linearità, […] perché accade sempre che vi siano dei momenti nei quali i sistemi e i
soggetti si irrigidiscono: nel mondo del lavoro, ad esempio, la fase taylor-fordista ha accre-
sciuto tutte le rigidità rispetto al passato, mentre ora queste si stanno riducendo.”
2
2. IL SENSO DEL LAVORO: VERSO UNA NUOVA DIMENSIONE
DI VALORI
In base a quanto sopra accennato, una fondamentale caratteristica del modello della
società flessibile è dunque il fatto di mettere in discussione il significato che è stato attribui-
to al lavoro nella società industriale.
Se ripercorriamo le diverse connotazioni che l’idea di lavoro ha assunto lungo l’arco
della modernità, notiamo una progressiva evoluzione del significato dello stesso, che, nel
progredire della storia, è stato visto sempre più come il valore centrale dell’esistenza
dell’individuo. Se Locke considerava il lavoro come l’attività fondamentale «per strappare
le cose dallo stato in cui la natura le ha prodotte e lasciate» al fine di dotarle di utilità per
l’uso e per lo scambio, Hegel scopre nel lavoro una capacità di dominare «l’intera essenza
2
Accornero Aris, Ancora il lavoro: conversazione con Patrizio Di Nicola, Ed. Diesse, Roma, 1995,
pag. 37
9
oggettiva», e vede in esso «ciò che certifica la padronanza dell’essere umano». Ma è a parti-
re da Marx, che descrive il lavoro come fondamento antropologico e come veicolo di libera-
zione storica, che il lavoro diviene la «chiave di volta» della partecipazione di ciascun indi-
viduo alla storia del genere umano, valore centrale dell’esistenza: si teorizza, in altre parole,
l’acquisizione dell’identità individuale attraverso l’acquisizione della competenza lavorativa
e professionale.
“Il progresso attribuito alla rivoluzione industriale rispetto all’assetto sociale preceden-
te è stato legato strettamente a questa funzione di sicurezza individuale e collettiva adempiu-
ta dal lavoro. Quest’ultimo è diventato il veicolo principale della realizzazione personale e
dell’inserimento a pieno titolo nel circuito della cittadinanza. Il diritto al lavoro ha spianato
la via a ogni altro diritto; se si è lavoratori, si possiedono i requisiti essenziali per accedere
alla distribuzione dei beni e delle risorse anche al di fuori della sfera del lavoro. La Costitu-
zione italiana ha recepito solennemente il carattere fondativo assunto dal lavoro quando,
nell’articolo 1, ha dichiarato appunto che l’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro (e, si
badi, solo nell’articolo 3 viene alla ribalta la nozione di «pieno sviluppo della persona uma-
na», che è senza dubbio più ricca e comprensiva della nozione di «lavoratore»). Il lavoro è
stato allora, almeno in linea di principio, l’oggetto della tutela prima e basilare verso cui
l’ordinamento sociale e politico si è impegnato, entro una cornice di promozione solidale
codificata a chiare lettere.”
3
Sul lavoro pertanto, nel corso della modernità e fino ai nostri giorni, “è stata con-
vogliata la domanda di realizzazione dell’umano e si sono riversate le attese di riscatto
dall’alienazione storica; [ma] a sua volta esso è diventato fonte di problemi che derivano per
un verso dalla sua organizzazione e per altro verso dal posto che esso ha assunto
nell’esistenza di ciascuno. Il lavoro, al quale la richiesta di liberazione dall’alienazione si è
rivolta, può insomma creare alienazione a propria volta. [Ed infatti], lungo l’arco del Nove-
cento forte e costante è stato il filone della critica dell’alienazione che si verifica nel lavoro
a causa del fatto che nell’organizzazione capitalistica della produzione il momento del fine
viene sottratto al controllo consapevole dei soggetti o degli attori del lavoro stesso”.
4
Le in-
3
Totaro Francesco, Non di solo lavoro, Ed. Vita e Pensiero, 1998, pag. 316
4
Totaro Francesco, op. cit., pag. 146
10
tenzioni delle impostazioni teoriche di Taylor
5
e di quelle applicative di Ford
6
, nel loro di-
segno “erano di maggiore efficienza dell’apparato produttivo e, insieme, di alleggerimento
dei carichi soggettivi grazie appunto alla loro semplificazione; ma proprio questa imposta-
zione a suo modo filantropica non evitò la diminuzione dei coefficienti di autonomia, crea-
tività e qualità della prestazione lavorativa.”
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Ma oltre ad una alienazione nel lavoro, è possibile parlare di una alienazione da lavo-
ro: il riferimento è alla denuncia del rischio di stravolgimento antropologico legato ad una
affermazione incondizionata e totale del valore del lavoro, dell’immagine che l’intero oriz-
zonte dell’agire e dell’essere coincida con l’operatività tecnico-scientifica, con il lavoro co-
me dimensione in sé completa.
Nell’epoca attuale, i progressi della scienza e della tecnica stanno di fatto inaugurando
l’era della diminuzione quantitativa del lavoro e spalancano le porte del tempo libero da es-
so. Tale riduzione del tempo di lavoro -già in atto nel contesto europeo- dovrà però scongiu-
rare il rischio che lo spazio «liberato» dal ritrarsi del lavoro non si trasformi in un vuoto.
Osserva in proposito F. Totaro: “Dichiarare la relatività del lavoro […] mette in crisi soprat-
tutto chi ha visto in esso il motore centrale del cambiamento storico. Il lavoro è stato l’asse
portante delle speranze dei soggetti subordinati e il metro principale dell’emancipazione
umana. Niente, oggi, appare comparabile alla potenza propulsiva del lavoro in ordine alla
realizzazione efficace degli ideali etici della liberazione dal bisogno, della giustizia, della
solidarietà e dell’eguaglianza. Le stesse organizzazioni del movimento operaio si sentono
orfane del primato assoluto del lavoro e sanno di non poter esibire un succedaneo o simula-
cro equivalente. La centralità del lavoro ci lascia un patrimonio di valori universalistici in-
torno ai quali ha ruotato la vicenda storica nell’epoca in cui il traguardo dell’umanizzazione
è sembrato uscire dalla nebulosa della pura idealità e incarnarsi in una effettiva materiali-
5
Frederick W. Taylor (1856-1915) ingegnere americano, dal 1878 si dedica all’organizzazione scienti-
fica del lavoro: effettua cronometraggi che consentono di definire la durata ideale di una operazione
del ciclo di produzione. Questi metodi contribuiscono ad aumentare la produttività. Le sue teorie,
chiamate taylorismo, tengono in gran conto della psicologia operaia.
6 Henry Ford (1836-1947) industriale americano, pioniere della fabbricazione delle automobili. Istituì,
primo fra tutti in campo industriale fin dal 1908, la “catena di montaggio” per la costruzione in serie
delle automobili (il famoso modello “T”) al fine di realizzare una politica sociale caratterizzata da un
minor numero di ore lavorative ad alti salari. La retribuzione minima di un operaio delle industrie
Ford nel 1914 era pertanto di 5 dollari per otto ore di lavoro contro i 2,5 dollari delle altre industrie.
Ciò nonostante Ford riuscì a diminuire progressivamente il prezzo della “T”.
7
Ibidem, pag. 147
11
tà.”
8
Se dunque è facile riconoscere i meriti di questa immagine, è però doveroso rilevare
che l’assolutizzazione del lavoro ha prodotto un appiattimento della pienezza dell’essere e
dell’agire sui connotati del lavoro, che la critica del c.d. «lavorismo» ha giustamente sottoli-
neato.
Nell’ottica della flessibilità -verso cui, come sopra visto, parrebbe tendere l’evoluzione
della società- occorre quindi ripensare il senso dell’attività lavorativa per la persona: vedere
il lavoro non semplicemente in funzione di sé stesso e della logica dell’accrescimento pro-
duttivo bensì secondo criteri antropologici più comprensivi, facendo riapparire l’orizzonte
nel quale lavoro e tecnica possano realizzare la loro autentica valenza strumentale. “Accanto
al lavoro, che si è oggettivato in strutture organizzate per il perseguimento di scopi già dati,
si affianca quindi lo spazio della «interazione», nel quale i «partecipanti» ad «atti comunica-
tivi» articolano nel linguaggio il confronto e la discussione in vista dell’intesa sui princìpi e
le procedure della convivenza.”
9
Nell’evoluzione verso il modello della flessibilità il lavoro non è più la dimensione e-
sistenziale prevalente a scapito delle altre (c.d. monocentrismo esistenziale), valore e model-
lo dell’identità dell’uomo, ma diventa solo uno degli aspetti principali e gratificanti della vi-
ta, accompagnato da altre dimensioni quali la famiglia, il tempo libero, l’autorealizzazione:
quello cioè che è stato definito come policentrismo esistenziale: una prospettiva di ridefini-
zione dell’equilibrio tra tempo di lavoro e tempo di riposo, accompagnato da un profondo
mutamento del significato stesso del lavoro. Occorrerà in altre parole, prendere atto del “su-
peramento del lavoro e della produzione come misura antropologica e ontologica tenden-
zialmente esclusiva e sicuramente egemone: dal lavoro misurante, insomma, al lavoro misu-
rato.”
10
Peraltro, sebbene numerosi siano gli indizi di una evoluzione della società verso un
modello di lavoro più «a misura d’uomo» (nel senso visto sopra), occorrerà evitare di cadere
in facili semplificazioni. Non siamo, infatti, alla c.d. «fine della società del lavoro», come
profetizzano alcuni sociologi ed esperti di gestione delle risorse umane. Al contrario, ancora
8
Totaro Francesco, op. cit., pag. 125
9
Ibidem, pag. 151
10
Ibidem, pag. 111
12
nella nostra epoca “il sistema dei valori sociali resta (saldamente) connesso al lavoro. Ruolo
occupazionale e collocazione professionale restano fonti insostituibili di valutazione oltre
che di posizione e di autostima sociale”.
11
La trasformazione in atto sembra essere piuttosto
nel senso di un passaggio “da una società «del Lavoro» a una società «dei lavori», per usare
un’altra immagine (notare il passaggio dal maiuscolo al minuscolo…) […] cioè verso for-
me, rapporti e statuti di lavoro con tutela e durata plurime, in questo senso «atipici» rispetto
all’esperienza uniformante ed omologante del lavoro industriale. Lavori che cambieranno le
proporzioni tra durata indeterminata e durata determinata, fra tempo pieno e tempo parziale.
La stabilità del lavoro e la sicurezza del posto poggeranno assai meno su quella prestazione
temporalmente definita e su quel rapporto temporalmente indefinito, che avevamo fino a ie-
ri. Crescerà invece, rispetto a ieri, la diffusione del lavoro con la sua dispersione spaziale,
territoriale.”
12
Già dagli anni Ottanta si assiste al superamento del modello di lavoro dipen-
dente a tempo indeterminato, stabile e di lunga durata, esclusivo e a tempo pieno, capace di
contenere nel suo involucro una carriera progressiva e lineare. “Specializzazione flessibile,
nuovi concetti di produzione, nuove tecnologie e mutamenti organizzativi che richiamano le
metafore dell’organismo o dell’organizzazione «intelligente», da un lato, e l’emergere di i-
nedite figure professionali dall’altro rappresentano le nuove frontiere dell’organizzazione
industriale e, di conseguenza, fattori di rottura dell’uniformità della fattispecie, oltre che di
crisi dei tradizionali criteri distintivi tra lavoro autonomo e lavoro subordinato.”
13
Venuta meno l’enfasi del lavoro di matrice ottocentesca, “si vive sempre di più secon-
do la duplice scansione della produzione e del consumo, in una realtà nella quale il tempo
dedicato alla seconda dimensione si è certamente dilatato rispetto al passato e andrà ulte-
riormente dilatandosi, almeno nelle aspirazioni e nella scala prevalente dei valori.
Questo spostamento della vita sul primato delle capacità acquisitive tende a trascinare
il lavoro nella funzione di prestazione individuale strumentale ai consumi. Nella maggior
parte dei casi il lavoro si impone a livelli sempre più intensivi non perché viene ricercato in
sé, ma piuttosto come necessità in vista delle quantità crescenti di beni ritenuti irrinunciabili
11
Accornero Aris, Ancora il lavoro: conversazione con Patrizio Di Nicola, Ed. Diesse, Roma, 1995,
pag. 84
12
Ibidem, pag. 85
13
Perulli Adalberto, Diritto del lavoro e flessibilità. Linee di ricerca, in Lavoro e Diritto, Anno III, n.
3, 1989, pag. 404
13
per il tenore di vita. Il fenomeno riguarda anzitutto la mentalità diffusa. Sia che ci si accani-
sca nello svolgimento del secondo e del terzo impiego, sia che ci si affanni nella ricerca del
primo, il lavoro diviene per lo più la base strumentale di una visione della vita intrappolata
nel circuito implacabile della produzione e del consumo, al quale resta subordinata l’intera
dimensione dell’essere e dell’agire.
La metamorfosi strumentale del lavoro, quando assurge a scelta sistematica e univoca,
è perciò conferma ulteriore e paradossale di uno squilibrio antropologico da cui si è incapaci
di uscire.”
14
Una volta acquisita la relatività del lavoro, cioè la sua valenza relativa e non più
totalizzante, “il lavoro va dunque correlato con le dimensioni che lo trascendono ma che, al
tempo stesso, sono in grado di completarlo. Archiviata insomma la concezione tolemaica di
un lavoro intorno al quale tutto ruota, bisognerà finalmente rimotivarne una centralità non
esclusiva bensì in concorso con gli altri cespiti dell’umano”
15
, per raggiungere una dimen-
sione del lavoro che possa soddisfare per ogni persona “una triplice relazione: con il proprio
mondo interiore, con il mondo degli oggetti prodotti e con il mondo degli altri soggetti.”
16
3. TECNOLOGIA, LAVORO E FLESSIBILITÀ
Strettamente connessa ai cambiamenti del significato del lavoro è la nozione di flessi-
bilità riferita al lavoro, termine ormai entrato nel linguaggio comune in quanto sempre più
utilizzato nei pronunciamenti imprenditoriali indirizzati alle istituzioni e altresì per indicare
i cambiamenti in atto nei processi produttivi.
Il processo della flessibilità investe nei modi più vistosi il lavoro industriale, ma anche
altri settori ne sono interessati. Come ha sottolineato F. Totaro, “dovunque si ha a che fare
con una domanda di beni e di servizi che si diversifica sempre più rapidamente e sembra
doversi tradurre in risposte altrettanto diversificate e articolate in ordine al tipo di domanda.
S’impone così l’imperativo di una flessibilità che potremmo chiamare sistemica. Essa giun-
ge a pervadere sia le strutture oggettive sia le identità soggettive. Le prime perdono la rigidi-
tà dei loro contorni verso l’esterno e, al loro interno, non riescono più a darsi codici fissi di
14
Totaro Francesco, Non di solo lavoro, Ed. Vita e Pensiero, 1998, pag. 145
15
Ibidem, pag. 156
16
Ibidem, pag. 157-158
14
organizzazione: i punti di riferimento dipendono dal risultato di transazioni e adattamenti
continui piuttosto che essere il prolungamento automatico di linee già tracciate. Le seconde
sono immerse in un campo di tensioni che obbligano a revisioni incessanti, a correzioni e
cambiamenti di rotta. […] Ruoli, mansioni, profili professionali, relazioni, piani di vita su-
biscono rallentamenti o accelerazioni imprevedibili e perdono, o comunque attenuano, il ri-
ferimento a ritmi sicuri e costanti.
Il lavoro è forse al centro di questa torsione epocale. […] Oggi siamo alle prese pro-
prio con un depotenziamento del lavoro inteso come colonna vertebrale della persona e del
cittadino (André Gorz ha parlato in proposito di un «lavoro debole»). Molteplici sono le
cause di tale depotenziamento. Quelle di ordine negativo rinviano ovviamente all’esperienza
di esclusione, emarginazione o espulsione dal mercato del lavoro, specialmente nelle aree
geografiche e nelle fasce d’età in cui il fenomeno ha raggiunto proporzioni gravi e connota-
zioni patologiche. In questi casi, il ridimensionamento del lavoro nell’orizzonte vitale dei
soggetti è il risvolto drammatico di una sconfitta e di una rinuncia imposta. Sarebbe infatti
errato, oltre che cinico, confondere la lontananza forzata dal lavoro con una scelta cosciente
e positiva di un nuovo rapporto con esso improntato a flessibilità. Esistono però anche ra-
gioni positive nell’immagine depotenziata del lavoro o, piuttosto, di un tipo di lavoro visto
come occupazione rigida e come risoluzione una volta per tutte del proprio profilo personale
e sociale. Esse risiedono nel perseguimento di una realizzazione esistenziale che non nega
l’importanza del lavoro, ai fini della costruzione del percorso di vita, ma non vi si riduce.
Inoltre, in questa nuova visione, più che su una modalità lavorativa specifica si viene a far
perno su un’acquisizione di professionalità che è sganciata dalla permanenza necessaria nel-
lo stesso « mestiere» e attraversa diversi mestieri possibili, in una continuità che non è più
oggettiva bensì viene tessuta dalle capacità «imprenditive» del soggetto e dalla versatilità
del loro impiego. Un siffatto depotenziamento positivo del lavoro ha alle spalle, più o meno
consapevolmente, una duplice rivoluzione culturale. La prima coinvolge, come già si accen-
nava, il piano dell’esistenza o la concezione della vita. A essa si viene a guardare secondo
prospettive più ricche e non incentrate esclusivamente su ciò che Hanna Arendt chiamava
l’homo laborans (magari svilito a mero animal laborans). Al laborare, ma anche alla più
progredita dimensione dell’homo faber con la varietà delle opere cui egli mette capo, si ag-
giungono la dimensione dell’«agire», nella crescita del proprio sé in relazione con gli altri, e
del «contemplare» (ciò che forse la Arendt non apprezzava adeguatamente) come via della
15
ricerca del «senso». In questo contesto di valori che lo integrano e lo trascendono, il lavoro
diviene per un verso momento parziale e tale da non esaurire la totalità del vivere; per altro
verso può essere investito da attese di soddisfazione relazionale e contemplativa che fanno
da filtro selettivo delle opportunità offerte e stimolano al cambiamento di attività. In sostan-
za, il lavoro può diventare parte più limitata del piano di vita individuale e, al contempo,
oggetto di esigenze più qualificate. Qui entrano in gioco coordinate di realizzazione antro-
pologica che, proprio perché non assolutizzano il lavoro, lo rendono forse disponibile a una
logica di condivisione e quindi di più equa distribuzione.
La seconda rivoluzione culturale, collegabile a un depotenziamento positivo del lavo-
ro, rinvia alle innovazioni introdotte dalla tecnologia e all’esonero dalle prestazioni umane
di tipo materiale che ne conseguono. Certo per il momento, non volendo abbassare la guar-
dia critica, noi siamo inclini a sottolineare gli aspetti concorrenziali dell’incremento delle
tecnologie rispetto all’impiego delle risorse umane, più di quanto non ne apprezziamo gli ef-
fetti di emancipazione. L’aumento della produttività grazie alle tecnologie non è stato anco-
ra ben metabolizzato in una visione culturale positiva e tale da volgerne adeguatamente gli
effetti a vantaggio dei soggetti del lavoro. La questione della produttività rimane prevalen-
temente una questione di calcolo oggettivo, nella quale il lavoro è assunto come una funzio-
ne della quantità di beni ottenibili in una determinata unità di tempo. In tale ottica, ogni au-
mento di produttività entra inevitabilmente in conflitto con la prestazione lavorativa umana
e si traduce in una sottrazione di opportunità per i soggetti. Si tratta invece di rovesciare
questa logica oggettivante e di ricondurre gli incrementi di produttività (consentiti dalle in-
novazioni tecnologiche) entro un orizzonte di disponibilità soprattutto per i soggetti del la-
voro, per i quali la flessibilità può così diventare finalmente e concretamente un oggetto di
scelta entro un quadro di competenze tra di loro fungibili e collocabili lungo un continuum
di mansioni. La rivoluzione tecnologica, nei suoi aspetti da valorizzare più attentamente sul
piano delle conseguenze governabili dai soggetti, è perciò alla base di una flessibilità che si
presta a essere vissuta e praticata in termini di pluralità delle esperienze lavorative possibili.
L’universo tecnologico, pervasivo di ogni modalità produttiva di beni e di servizi, si presen-
ta come tale da permettere quella elasticità di funzioni e di competenze che rende praticabile
la flessibilità e la mobilità dei ruoli, senza lesioni irreparabili dell’identità lavorativa dei sin-
goli e senza declassamenti di dignità.
Ovviamente, si tratta di piste da esplorare con prudenza oltre che con entusiasmo;
16
dev’essere chiaro però che nella prospettiva sopra indicata non c’è vena alcuna di luddismo,
ma piuttosto la convinzione che l’evoluzione delle tecnologie sarà riportata alle finalità sog-
gettive quanto più procederà senza il pesante condizionamento dei modelli produttivi eredi-
tari dal passato. E tale condizionamento deriva soprattutto dall’approccio al lavoro secondo
una logica di penuria, per cui ci si ostina a considerare il lavoro come bene scarso e tale da
comportare l’esclusione degli altri da parte di chi riesce a procurarselo con un atto possessi-
vo. Ora, l’aumento della produttività consentito dall’applicazione delle tecnologie viene a
rompere proprio con la necessità di permanere nella logica della penuria. Così, anche se-
guendo questo percorso, si arriva a prefigurare una condizione nella quale flessibilità e con-
divisione del lavoro siano conciliabili. […]
Alle condizioni che si sono delineate è quindi possibile dare credito alla flessibilità. La
strada da percorrere è però irta di difficoltà ed esige una grande intelligenza sociale in grado
di coniugarsi con un’azione tenace e paziente, collegata ad un sistema di formazione e ri-
formazione delle competenze, incentrato innanzitutto sulla scuola e sull’università, del quale
si fruisca non solo a livello iniziale bensì anche in modo ricorrente. Diversamente, la flessi-
bilità del lavoro può rotolare lungo la china disastrosa dell’arbitrio e dell’accentuazione del-
le disuguaglianze. Accanto alla pratica della flessibilità occorre perciò la capacità di indivi-
duare regole che ne esaltino le potenzialità positive e ne attenuino le valenze negative. La
flessibilità non può allora chiudersi nel perimetro ristretto dell’intraprendenza individuale.
In questione è piuttosto il destino di una civile razionalità sociale da cui dipende anche il
buon esito delle storie individuali.”
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4. FLESSIBILITÀ E MERCATO DEL LAVORO
La flessibilità riferita al mercato del lavoro può essere analizzata secondo due diverse
(e speculari) dimensioni: dal lato della domanda delle imprese (flessibilità domandata dalle
imprese) e dal lato dell’offerta del lavoro (flessibilità domandata dai lavoratori).
Riguardo al primo aspetto la flessibilità aziendale può essere definita come la capacità
dell’impresa di riorganizzarsi in breve tempo per far fronte ai mutamenti dell’ambiente cir-
costante. E’ essenzialmente a partire dalla fine degli anni Sessanta che nel mondo produttivo
17
Totaro Francesco, Non di solo lavoro, Ed. Vita e Pensiero, 1998, pag. 315-320
17
si comincia a sottolineare la necessità per l’impresa di adattarsi alle mutate -e mutevoli-
condizioni dei mercati. La crisi del modello produttivo basato sulla grande impresa produt-
trice di beni standard (c.d. fordismo) che utilizza una divisione del lavoro in mansioni sem-
plici e ripetitive (c.d. taylorismo), l’aumentato tenore di vita dei consumatori e l’accresciuto
potere di acquisto, uniti ad una crescente sofisticazione nei gusti costringe sempre più le
imprese ad adottare diverse modalità di produzione e nuovi modelli organizzativi. Si affer-
ma così la necessità di personalizzare il prodotto per assecondare il bisogno del consumato-
re di distinguersi e puntare sulla qualità e sull’innovazione, in un contesto che vede sempre
più il prezzo del bene quale indicatore principale di prestigio sociale. Tutto ciò determina la
necessità di adottare modelli produttivi e organizzativi che consentano di attuare rapide va-
riazioni della quantità e delle caratteristiche dei prodotti.
All’interno dell’impresa la flessibilità si è tradotta in più dimensioni. Anzitutto come
flessibilità retributiva, strutturale (intesa come possibilità di diversificare i salari in base ai
livelli di produttività) o congiunturale (adeguamento dei salari alle fluttuazioni
dell’economia generale o dei risultati della singola impresa, come ad es. quegli accordi a-
ziendali che prevedono una ripartizione tra i lavoratori di una quota degli utili oppure la
concessione di emolumenti derivanti da miglioramenti nella quantità e qualità dei prodotti).
Un secondo aspetto è quello della cosiddetta flessibilità temporale delle prestazioni o
flessibilità contrattuale. In questo caso ci si riferisce sia alle variazioni di durata della setti-
mana lavorativa in base alle esigenze della produzione (lavoro straordinario e stagionale) sia
ai cosiddetti orari atipici (orari notturni o festivi per lavorazioni a ciclo continuo, part-time,
job sharing).
Una terza accezione di flessibilità è la c.d. flessibilità numerica o quantitativa o flessi-
bilità esterna. Rientrano in questo aspetto tutti quegli schemi normativi, contrattuali o con-
venzionali che regolano l’assunzione e il licenziamento, il subappalto, il lavoro a domicilio:
modalità che riguardano cioè la possibilità per l’impresa di mutare il numero e la professio-
nalità dei lavoratori per adeguarsi rapidamente all’andamento della produzione, ai mutamen-
ti tecnologici e alla fluttuazione del proprio mercato e della propria domanda di beni e servi-
zi (lavoro a tempo determinato, lavoro interinale, riduzione delle dimensioni aziendali, sub-
fornitura).
Quarta nozione di flessibilità riferita all’impresa è quella c.d. funzionale o interna ov-
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vero la capacità dell’organizzazione imprenditoriale di ottenere i migliori risultati dagli oc-
cupati attraverso la diretta partecipazione degli occupati stessi alle decisioni di produzione,
attraverso innovazioni nei modelli produttivi quali la rotazione delle mansioni, la delega
delle responsabilità a livello individuale o di gruppo, la c.d. consultazione face-to-face, il
lavoro di gruppo. Questo tipo di flessibilità si traduce nella possibilità di effettuare sposta-
menti di lavoratori all’interno dell’impresa o di modificare il contenuto della loro prestazio-
ne per far fronte alla variabilità e all’incertezza dei mercati. E’ ovvio che tutto questo pre-
suppone una elevata collaborazione da parte dei lavoratori, ottenibile solamente attraverso la
garanzia della stabilità occupazionale e retributiva. In tal modo si ottiene una sorta di «fedel-
tà assoluta» da parte del dipendente, disposto alla massima flessibilità funzionale per il suc-
cesso dell’impresa nella quale si identifica (emblematico al riguardo è il caso delle imprese
giapponesi). Per queste ragioni la flessibilità interna si contrappone alla flessibilità esterna,
anche se un’impresa potrà adottare entrambe le modalità suddette, affiancando ad un nucleo
di fedeli e flessibili lavoratori permanenti (i c.d. core-employees delle imprese anglosassoni)
una componente variabile di lavoratori occasionali, adottando in altri termini una strategia
che identifica una ulteriore dimensione di flessibilità che è stata definita dualistica.
Si parla infine di flessibilità del processo produttivo, per indicare quella particolare
forma di duttilità che deriva dall’introduzione di nuove tecnologie attraverso soprattutto
l’innovazione di prodotto, le tecnologie dell’informazione, l’automazione della produzione
e l’introduzione di nuovi impianti.
L’adozione di una o più di queste forme dipenderà sia dal contesto entro il quale si
trova l’impresa, (grado di variabilità dei mercati, caratteristiche dei lavoratori) sia dalle ca-
ratteristiche peculiari della stessa (dimensione, impiego di tecnologia), ma in ogni caso si
tradurrà in un mix equilibrato di flessibilità e rigidità.
Ai cambiamenti nel lato della domanda di lavoro –che diviene sempre più elastica in
ragione dei cambiamenti che intervengono nel sistema delle imprese- fanno poi riscontro
mutamenti dal lato dell’offerta di lavoro. A questo riguardo si parla di flessibilità come au-
tonomia individuale nel differenziare le condizioni di occupazione, i tempi della prestazione
ed i redditi da lavoro, dipendente o autonomo: una flessibilità indotta dai mutamenti nello
stile di vita, nell’istruzione e nella scala dei valori, ai quali si è accennato nei paragrafi pre-
cedenti. Sempre più giovani e donne manifestano l’esigenza di conciliare tempi di lavoro e
tempi di studio o di vita familiare; una manodopera più istruita e con più elevate aspirazioni
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retributive e professionali ricerca attività più gratificanti, meno omologanti, che consentano
sempre maggiori capacità e libertà di agire. Segno evidente di questi mutamenti è il supera-
mento, oramai accertato, dell’organizzazione tayloristica del lavoro e del fordismo, modelli
che erano caratterizzati da una capillare frammentazione del tempo delle operazioni, separa-
ti da ogni istanza di comprensione complessiva e di intenzionalità teleologica, rivolte solo ai
fini dell’incremento quantitativo della produttività.
Riguardo alla flessibilità dell’offerta di lavoro, possono dunque distinguersi almeno tre
tipi di flessibilità riferiti al lavoro: un’attività caratterizzata da forte autonomia in quanto
poco soggetta a vincoli esterni ad essa; il passaggio non occasionale da un lavoro ad un al-
tro; e infine lo svolgimento contemporaneo di più attività lavorative diverse.
«Flessibilità» dunque, sembra essere diventata la «parola d’ordine» del mondo econo-
mico -in Europa e anche nelle realtà industriali extraeuropee- per mantenere o recuperare
crescita economica. E, secondo il premio Nobel per l’economia Franco Modigliani, non bi-
sogna dimenticare che in futuro la flessibilità sia in entrata che in uscita sarà sempre più ne-
cessaria: come ha sottolineato con un efficace slogan, bisogna tenere presente che «per le
aziende il posto fisso è un costo fisso».
5. L’EVOLUZIONE DELLE RELAZIONI DI LAVORO E IL RUOLO
DELLA MICRO-IMPRESA.
L’attuale assetto delle relazioni di lavoro è frutto di un’evoluzione che si è determinata
a partire dagli anni Ottanta e che ha visto nella riscoperta delle risorse umane nell’impresa
uno dei suoi cardini fondamentali. L’innalzamento del livello di istruzione del personale te-
stimonia la volontà di una maggiore valorizzazione della «risorsa sapere», considerata come
un investimento e non più come semplice costo, in un’ottica di gestione strategica delle ri-
sorse umane (la c.d. H.R.M., Human Resources Management anglosassone). Accanto ad es-
sa deve essere altresì considerata l’attenzione alle cosiddette «relazioni interne», ossia ai
rapporti diretti con il personale, visti sempre più in una dimensione autonoma rispetto al
rapporto sindacale. E poi lo sviluppo di forme di partecipazione diretta dei lavoratori ai pro-
cessi tecnico-produttivi, durante o al di fuori dell’orario di lavoro, con finalità consultive o
di proposta di soluzioni ad eventuali problemi.
Anche la formazione, e in modo particolare l’aggiornamento e la riconversione profes-
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sionale ha al riguardo una funzione non trascurabile. “E’ evidente che più si riesce a colma-
re l’attuale deficit formativo, più il profilo professionale dei soggetti interessati diviene arti-
colato e flessibile, consentendo loro di entrare con maggiore successo nei meccanismi della
mobilità. Una difesa della professionalità che postula una prospettiva di formazione alla
flessibilità: una strategia di investimento che dovrebbe vedere una significativa convergenza
fra le necessità economiche dell’impresa e le attese dei salariati rappresentando un interesse
comune.”
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Senza dubbio, poi “la formazione e l’educazione sono momenti di gestione delle
risorse umane non solo prioritarie nelle fasi recessive […] ma conservano un ruolo strategi-
co anche nella definizione di politiche di gestione del mercato del lavoro di medio-lungo pe-
riodo di un sistema economico davvero intenzionato a rimanere competitivo.”
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In questo scenario evolutivo verso relazioni di lavoro più flessibili occorre anche con-
siderare il considerevole ruolo svolto dalle piccole imprese. Come risulta da studi economi-
ci, in Europa “la quota dell’occupazione nelle piccole imprese manifatturiere e terziarie, do-
po alcuni decenni di forte caduta, dagli anni Settanta prende ad aumentare […]. La sola ec-
cezione rilevante è costituita dalla Germania, ove cresce il peso delle grandi imprese. […]
L’Italia si conferma il Paese in cui è maggiore il peso delle microimprese sino a 19 addetti e
minore quello delle grandi oltre i 500.”
20
Dati recenti indicano come l’80% degli occupati italiani lavora in piccole e medie im-
prese, cioè in imprese con meno di 250 occupati. In particolare, il 55% del totale degli ad-
detti occupati nell’industria e nei servizi lavora in imprese individuali o con meno di 15 oc-
cupati.
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Il nostro Paese ha dunque modellato la sua struttura produttiva sulla piccola e media
impresa: studi economici dimostrano come la maggior parte dei nuovi posti di lavoro derivi
dal saldo attivo tra nascita e cessazione di piccole imprese.
18
Biagi Marco, Recessione e mercato del lavoro: la formazione alla flessibilità, in Diritto delle rela-
zioni industriali, 1993, n.1 pag. 263
19
Ibidem, pag. 271
20
Cfr. Reyneri Emilio, Sociologia del mercato del lavoro, Bologna, 1996, Il Mulino pag. 273
21
Vedi il DPEF (Documento di programmazione economico-finanziaria) – luglio/settembre ’99.