4
INTRODUZIONE
La pianificazione fiscale è quell’attività che ha come fine ultimo la minimizzazione e
l’ottimizzazione in maniera legale del carico fiscale gravante su un’impresa.
La pianificazione fiscale, così come viene attuata dalle imprese, si fonda
sull’individuazione da parte del contribuente di comportamenti che tendono ad evitare il
pagamento di tributi senza violare la legge, utilizzando strumentalmente le carenze
dell’ordinamento.
Ciò è reso possibile dalle imperfezioni e dalla mancata comprensività di tutti i
presupposti del tributo nella norma tributaria che crea, quindi, dei “vuoti” normativi
sfruttabili.
Negli ultimi anni questo fenomeno è risultato ancora più accentuato in ambito
internazionale, vuoi per la maggior possibilità di trovare vuoti legislativi quando più
ordinamenti si sovrappongono, vuoi per la globalizzazione che ha portato molte
imprese ad espandersi in Paesi diversi da quello di origine, diventando vere e proprie
multinazionali, vuoi per l’esistenza di Paesi caratterizzati da imposizione diretta
assente o scarsamente significativa, o di regimi favorevoli per certi tipi di reddito.
In questo contesto nascono le norme per contrastare il massiccio ricorso delle imprese
a società estere controllate in Paesi a bassa fiscalità, create per ottenere un risparmio
fiscale, chiamate appunto CFC (controlled foreign companies).
Questo sistema è un buon esempio di quanto avviene tipicamente in ambito di
normative fiscali: a seguito del comportamento dei contribuenti che individuano un
vuoto normativo, il legislatore interviene colmandolo; successivamente il legislatore
affina la norma, cercando di ricomprendere più fattispecie possibili e cercando di
vanificare i tentativi dei contribuenti di aggirare legalmente la norma, innestando un
processo dinamico che porta all’aggiornamento continuo delle leggi, che in ambito
tributario raggiunge una velocità che non trova pari in altri settori del diritto.
L’obiettivo di questa tesi è un’indagine approfondita di come può essere strutturata una
norma CFC; in particolare, verranno analizzati il sistema italiano e quello spagnolo per
mostrare come una stessa norma possa essere strutturata in maniera totalmente
differente.
Nel primo capitolo, dopo una definizione e un breve cenno storico, analizzeremo i
diversi modi in cui si può strutturare una norma CFC, le sue finalità e i problemi che si
5
pongono in relazione alle convenzioni OCSE, con particolare riferimento alla libertà di
stabilimento.
Nel secondo capitolo analizzeremo il sistema italiano anche alla luce delle nuove
modifiche apportate dal d.l. n. 78 del 1 luglio 2009.
Nel terzo capitolo verrà analizzato il sistema spagnolo.
Nel quarto ed ultimo capitolo affronteremo alcuni casi pratici riferiti sia a procedimenti
italiani sia spagnoli, e delineeremo le conclusioni di quest’analisi comparata.
6
1. AMBITO E CONTESTO DELL’ANALISI
1.1 DEFINIZIONE DI UN SISTEMA CFC
La disciplina CFC dispone regole di imputazione del reddito diverse da quelle che
valgono in via ordinaria.
Più precisamente, in assenza di un sistema CFC, i redditi dei soggetti controllati non
residenti sarebbero assoggettati ad imposizione in capo ai soggetti controllanti
solamente in occasione della loro distribuzione sotto forma di dividendi; la norma CFC
invece, prescinde dalla loro effettiva distribuzione, e,in deroga al principio di autonomia
giuridico-tributaria, attua l’imposizione di detti redditi in capo alla controllante, quando
ricorrono le circostanze per l’applicabilità della norma.
1
1.2 CENNI STORICI
Una prima bozza di norma CFC era stata approvata negli Stati Uniti nel 1937,
chiamata “Foreign Personal Holding Companies”, prevista per arginare i primi
fenomeni di spostamento all’estero di base imponibile; questa norma era in realtà
facilmente aggirabile ed inoltre rivolta solamente alle persone fisiche, quindi di portata
molto limitata.
2
La prima norma effettivamente rivolta a colpire le CFC fu approvata, sempre negli
USA, nel 1962, a causa della crescente internazionalizzazione delle imprese che
aumentava il diffondersi di fenomeni elusivi in ambito internazionale.
La norma era ancora lontana dalla struttura di quelle attuali, infatti prevedeva
l’attribuzione dei benefici non ripartiti solo al momento della vendita della
partecipazione, e la disapplicazione nel caso ogni anno almeno il 90% degli utili
fossero stati distribuiti.
3
Come possiamo notare, era una norma comunque lacunosa, dato che in caso di
1
BALLANCIN
A.,
Note
ricostruttive
sulla
ratio
sottesa
alla
disciplina
italiana
in
tema
di
controlled
foreign
companies,
in
“Rivista
di
diritto
tributario”,
2007.
2
DEPARTMENT
OF
THE
TREASURY,
The
deferral
of
income
earned
through
US
controlled
foreign
companies:
a
policy
study,
Washington
2000,
pagg.
4‐12.
3
GALIARDO
A.
M.,
ARRIETA
J.,
PISON
M.,
La
transparencia
fiscal
internacional
en
los
ordenamientos
americano
y
español
in
“Presente
y
futuro
de
la
imposicion
directa
en
España”,
Lex
Nova,
Valladolid,
1997,
pagg.
649‐663.
7
mantenimento della partecipazione non trovava applicazione; la norma sarebbe infatti
mutata molte volte in seguito, affinandosi sempre di più.
Negli anni successivi pochi altri Paesi adottarono questa regola: il Canada e la
Germania nel 1972, il Giappone nel 1978, la Francia nel 1980 e il Regno Unito nel
1984.
La vera diffusione si ebbe negli anni 90: nel 1988 solamente sette Paesi ne erano
dotati, e poco più di una decina di anni dopo, nel 2000, il numero era salito a 23,
comprendendo tutti gli Stati maggiormente sviluppati.
4
Un forte incentivo a dotarsi di questi sistemi è arrivato nel 1998 anche dalla OCSE, che
nel suo rapporto “Harmful tax competition: an emerging global issue”
5
raccomandò a
tutti i suoi Stati membri l’adozione di questo sistema per contrastare qualsiasi forma di
concorrenza fiscale dannosa.
6
In Spagna il sistema è stato introdotto nel 1995, in Italia nel 2001, col Decreto
ministeriale del 21 novembre 2001 n. 429, che attuava quanto previsto nel collegato
alla legge finanziaria del 2000.
Nel 2005 in Italia è stata inoltre aggiunta una norma che colpisce anche le società
estere semplicemente collegate.
1.3 GLI OBIETTIVI DI UNA NORMA CFC
A prima vista la normativa CFC potrebbe sembrare esclusivamente una norma
antielusiva.
In realtà, dopo un’attenta analisi, possiamo capire che la sua presenza in un
ordinamento può rispondere anche ad esigenze di politica economica.
Per meglio comprendere, dobbiamo introdurre il concetto di capital export neutrality
(CEN) e di capital import neutrality (CIN).
Per CEN si intende una strategia di politica fiscale internazionale che si traduce nell’
applicazione ai soggetti residenti che producono redditi all’estero di un trattamento
fiscale identico a quello previsto per i residenti che producono redditi solo all’interno
dello Stato. In questo modo alla scelta del contribuente di investire fuori dai confini
4
ALMUDI’
CID
J.
M.,
El
régimen
jurìdico
de
la
transparencia
fiscal
internacional,
Instituto
Estudios
Fiscales
Universidad
Complutense
de
Madrid,
Madrid,
pag.
12.
5
OCSE,
Harmful
tax
competition:
an
emerging
global
issue,
Parigi
1998.
6
GARUFFI
S.,
Controlled
Foreign
Companies
Legislation:
analisi
comparata
negli
stati
comunitari,
in
“Quaderni
della
scuola
di
alta
formazione
ODC”,
Milano
2008,
pag
9.
8
nazionali o all’interno sono estranee considerazioni relative alla convenienza fiscale
dell’investimento.
7
In termini pratici, per ottenere questa parità di trattamento, si ricorre tipicamente alla
concessione di un credito d’imposta a favore delle imprese residenti per i redditi
prodotti all’estero come metodo per l’eliminazione della doppia imposizione
internazionale.
In questo modo si disincentiva l’investimento estero, poiché l’aliquota marginale
effettiva sarà sempre quella del Paese di residenza.
8
La CIN consiste, invece, nell’accordare ai residenti che svolgono attività all’estero il
medesimo trattamento dei contribuenti residenti nello Stato estero. Il meccanismo per
evitare la doppia imposizione internazionale, in questo caso, è l’esenzione, e
applicando questo criterio si incentiva l’investimento all’estero.
9
In questo contesto un sistema CFC si pone come elemento a sostegno di una politica
fiscale basata sulla CEN.
E’ evidente infatti che, senza una norma CFC, coloro che investono all’estero possono
facilmente ottenere un trattamento fiscale privilegiato, nel caso possano rinviare
l’imposizione sui redditi grazie alla ritenzione degli stessi, vanificando l’obiettivo della
parità di trattamento tra contribuenti prevista dalla CEN.
Analizzando attentamente come la norma CFC di uno Stato è strutturata, si può
concludere se sia maggiormente improntata a una finalità antielusiva o di
raggiungimento della CEN; ad esempio, l’applicazione della norma limitata ad una lista
di Paesi considerati paradisi fiscali, piuttosto che l’applicazione a qualsiasi Paese, è un
chiaro indizio di intento antielusivo.
A prima vista la norma italiana, prevedendo questo sistema di black list, sembrerebbe
porsi in ottica antiabusiva; in realtà sono presenti altri aspetti che caratterizzano una
forte spinta al raggiungimento della CEN, che secondo alcuni autori sarebbero
addirittura preponderanti.
10
7
BALLANCIN
A.,
Note
ricostruttive
sulla
ratio
sottesa
alla
disciplina
italiana
in
tema
di
controlled
foreign
companies,
op.
cit.
8
VOGEL
K.,
On
double
taxation
convention,
The
Hague,
1999,
art.
23
par.
40.
9
BALLANCIN
A.,
Note
ricostruttive
sulla
ratio
sottesa
alla
disciplina
italiana
in
tema
di
controlled
foreign
companies,
op.
cit.
10
FRANZE’
R.,
Regime
di
imputazione
dei
redditi
dei
soggetti
partecipati
residenti
o
localizzati
in
paradisi
fiscali,
in
“Diritto
tributario
internazionale”,
Padova,
2005,
pag.
927
e
ss.;
LUPI
R.
Lo
spirito
della
legislazione
CFC
e
i
suoi
intrecci
con
la
deducibilità
dei
costi
verso
i
paradisi
fiscali,
in
“Dialoghi
tributari”,
2005,
pag.
1100
e
ss.
9
Il più forte elemento a sostegno di questa tesi è l’estensione del regime in questione
alle società estere collegate, introdotta dal d.lgs. 12/12/2003 n. 344: in questo caso
infatti, non potendo il socio controllare la distribuzione dei dividendi, viene meno
l’intento elusivo.
Esistono inoltre nell’ordinamento italiano una serie di norme volte a pareggiare il
prelievo impositivo nel caso di investimenti all’estero che ribadiscono l’importanza della
CEN per il legislatore: ad esempio le norme sulla participation exemption (PEX) e sui
dividendi che si trovano negli articoli 47,58,59,68,87,89 del T.U.I.R., che prevedono la
quasi totale esenzione (plusvalenze) o esclusione (dividendi) se i redditi hanno già
subito un adeguato prelievo impositivo nel Paese di provenienza.
Un ultimo elemento a favore di questa tesi è portato dalla risoluzione 63/E del
28/3/2009, che subordina l’accettazione da parte dell’Amministrazione Finanziaria della
seconda esimente per la disapplicazione della CFC, che analizzeremo in maniere
approfondita nel terzo capitolo, al carico fiscale effettivo sopportato dal gruppo,
rilevando una volta di più l’obiettivo di porre sullo stesso livello di imposizione
investimenti interni ed esterni.
11
Per la normativa spagnola, essendo applicabile a qualsiasi Stato estero che applichi
un’aliquota inferiore a quella spagnola, si può affermare senza ulteriori analisi che
abbia come scopo principale il raggiungimento della CEN.
12
1.4 LA COMPATIBILITA’ CON IL MODELLO OCSE
Estremamente interessante è la problematica riguardante il possibile conflitto tra la
normativa CFC e le convenzioni stipulate tra Paesi per eliminare la doppia imposizione
internazionale.
Materialmente questi accordi sono rappresentati dal “modello OCSE” che è un testo
standard predisposto dalla OCSE per rendere più agevole e conformare la disciplina
delle convenzioni.
L’articolo 7 del modello prevede che gli utili di un’impresa di uno Stato contraente siano
imponibili soltanto in detto Stato, a meno che l’impresa non svolga la sua attività
nell’altro Stato contraente per mezzo di una stabile organizzazione. Se l’attività è svolta
11
BALLANCIN
A.
Note
ricostruttive
sulla
ratio
sottesa
alla
disciplina
italiana
in
tema
di
controlled
foreign
companies,
op.
cit.
12
ALMUDI’
CID
J.
M.,
El
régimen
jurìdico
de
la
transparencia
fiscal
internacional,
op.
cit.
10
tramite stabile organizzazione si concede il diritto di prelievo anche allo Stato di
residenza, ma solamente per i redditi a questa riferibili, e concedendo un credito
d’imposta pari alle imposte assolte nello Stato che ospita la stabile organizzazione.
Risulta quindi chiaro che una norma CFC può porsi in contrasto con questo articolo:
dati due Stati A e B che hanno stipulato una convenzione OCSE, se una società sita in
A ne controlla una sita in B, ricorrendo le condizioni di applicabilità della CFC,
l’Amministrazione Finanziaria dello stato A estenderà il prelievo alla base imponibile
della società sita in B, che, pur essendo controllata dalla prima, è di fatto a tutti gli
effetti residente in B.
Questa potenziale incompatibilità è stata sollevata per la prima volta in Francia. Il caso
in questione è quello di una società francese che si è vista applicare la CFC per le sue
partecipazioni in una società svizzera e ha presentato ricorso per la presunta
violazione della convenzione contro la doppia imposizione stipulata tra Francia e
Svizzera nel 1966, sostenendo che debba prevalere quest’ultima in quanto norma di
rango più elevato.
13
In primo grado il ricorso è stato respinto
14
, mentre è stato accolto in appello
15
e
confermato in ultimo grado.
16
Questa sentenza ha provocato molte conseguenze in Francia: in primis in tutte le
convenzioni stipulate dalla Francia dopo questa decisione è stata inserita una clausola
che rende reciprocamente applicabili le norme CFC dei due Paesi firmatari.
17
La Francia ha inoltre modificato la sua norma CFC per renderla coerente col modello
OCSE, prevedendone l’applicazione solo per costruzioni artificiali ai soli fini fiscali, e
non allo svolgimento di effettiva attività economica.
18
I successivi sviluppi vanno nella direzione dell’incentivo dell’adozione di norme CFC,
ma che rispettino le convenzioni.
La stessa OCSE nel rapporto “Harmful tax competition: an emerging global issue” del
1998, suggerisce al punto n.1 l’adozione di questa norma al fine di limitare le pratiche
fiscali dannose.
13
VASAPOLLI
A.,
VASAPOLLI
G.
La
compatibilità
delle
CFC
con
il
modello
OCSE,
in
“Corriere
Tributario”,
n.
17,
2001,
pag.
1239.
14
Tribunale
Amministrativo
di
Parigi
21/11/1995
caso
n.
207093/1.
15
Tribunale
Amministrativo
di
Strasburgo
12/12/1996
caso
n.
9158.
16
Tribunale
Amministrativo
di
Poitiers
25/2/1999
caso
n.96684.
17
Ad
esempio
convenzione
Francia
–
Svizzera
del
22/7/1997.
18
VASAPOLLI
A.,
VASAPOLLI
G.,
La
compatibilità
delle
CFC
con
il
modello
OCSE,
op.
cit.
pag.
1240.