2
1. Introduzione
La decorazione delle cappelle laterali della Certosa di Pavia durante il Seicento è un
argomento complesso, il cui studio spesso risulta difficoltoso a causa dell‟assenza di
notizie sugli artisti, o dello stato lacunoso della documentazione conservata. L‟Archivio
della Certosa, infatti, ha subito numerosi saccheggi e mutilazioni nell‟arco di due
secoli, fino al quasi totale sventramento per mano di Napoleone, dopo il quale sono
sopravvissuti pochi manoscritti: una parte è talmente frammentaria da rendere difficile
la consultazione e una precisa ricostruzione1, mentre l‟altra è sì conservata ma,
purtroppo, è molto difficile riuscire a venirne in possesso. Su questi pochi documenti è
basato gran parte dello studio della storia cistercense.
Quello che ci si propone in questa sede è di fornire uno sguardo di insieme su quali e
quanti siano stati gli interventi, cercando di tener presente che il clima culturale in cui
si è operato è profondamente rigido, plasmato dalla controriforma e dal concilio di
Trento, da cui scaturiranno i dogmi che rimarranno saldi fino al Concilio Vaticano II.
In questo ambiente la committenza monastica2, essendo anche l‟amministratrice dei
fondi per il pagamento degli artisti, cercherà di mettere in pratica i propri principi
intervenendo in campo artistico, che diviene parte di una lotta politico – sociale in cui il
ruolo principale è detenuto dal contrasto tra la fede cattolica e la falsità dei costumi
contemporanei, considerati lascivi e peccaminosi. L‟intromissione nell‟arte non è solo
nella proposizione del nuovo, bensì la sua applicazione avviene da subito con la
sistematica eliminazione, come nel caso dell‟altar maggiore, di tutti quelle opere d‟arte
che non veicolano il messaggio ufficiale della Chiesa di Roma (verranno eliminati per
esempio tutti le opere che hanno come fonte i vangeli apocrifi), che vengono sostituiti
con la rappresentazione di storie di contrizione che aumentino la devozione del fedele e
il suo conseguente legame con Dio e la sua istituzione.
1
Questo è uno dei problemi espressi anche da BATTAGLIA in Le <<memorie>> della Certosa di Pavia, in
“Annali della Scuola Normale superiore di Pisa”, volume XXII,1, Pisa 1992, la cui opera scrupolosa è la
ricostruzione fedele dei manoscritti, fatto che permetterà di ricostruire la storiografia in questa tesi
2
Non si deve però dimenticare la presenza di una committenza vescovile che ha un ruolo di primo
piano, non solo nella scelta dei soggetti delle opere d’arte, ma a volte anche in quella degli artisti.
Questa tendenza non solo è diffusa, ma il vescovo è a volte il vero promotore degli spostamenti di un
artista da un cantiere all’altro. La ragione è da cercare nella subordinazione della chiesa pavese a quella
di Milano, che ne ha mantenuta la giurisdizione a lungo. Va da sé che gli artisti conosciuti in Duomo
siano facilmente reperibili anche in Certosa e viceversa.
3
Una prima parte del lavoro è stata svolta considerando gli interventi generali,
soffermandosi sia sulla pittura sia sulla scultura, che risultano legate ad un‟influenza
ricevuta dal clima culturale lombardo, da quello romano, ma anche da alcuni artisti
spagnoli, guardando a quali soluzioni iconografiche siano arrivati gli artisti per aderire
alle richieste della committenza. Questo percorso porta a riconoscere una continuità
nella realizzazione di soggetti sacri che vanno dall‟iconografia di Cristo e della
Vergine, fino ad arrivare a quella più strettamente certosina, nelle storie dei Santi
Fondatori dell‟Ordine, in un ambito di collaborazione e influenza tra i vari autori, che
da una parte mantengono la loro poetica, ma dall‟altra si uniformano allo stile
precedente del monastero, creando quello che verrà poi chiamato il “finto
quattrocentismo”, a causa del quale molti di questi protagonisti non saranno
immediatamente riconosciuti come seicenteschi. In questa sezione ci si proporrà anche
di dare un‟interpretazione cronologico – topografica della disposizione delle cappelle e
dei cambiamenti di intitolazione e soggetti, che si riveleranno sì di natura religiosa, ma
anche inevitabilmente politica.
La seconda parte è invece incentrata sulla scultura e sugli interventi che investirono sia
la costruzione ex novo degli altari, ma soprattutto i paliotti d‟altare, uno dei mezzi
maggiormente usati per la diffusione del messaggio cattolico insieme alle pale e agli
affreschi. Operanti in questo settore furono soprattutto tre scultori di cui sono
chiaramente individuabili le caratteristiche: Orsolino, Bussola e Giovan Battista de
Magistri detto il Volpino. Questi ultimi risultano in collaborazione costante durante
tutto il loro percorso artistico e personale; se è vero che in Certosa lavorano in cappelle
separate, lo è altresì il fatto che tra loro ci siano reciproci rimandi. Si tenterà inoltre di
proporre dei possibili precedenti iconografici, non soltanto relativi all‟ambiente delle
cappelle, per le opere di maggiore interesse che hanno condizionato in misura più
estesa l‟arte anche lombarda del periodo, per tentare di ricercarne similitudini,
differenze e condizionamenti, dovuti alla committenza. Si è detto di un problema della
documentazione: particolarmente ostica è risultata la ricerca relativa alla famiglia
Sacchi, la cui indagine si è più volte arenata infruttuosamente. A questo si è cercato di
porre rimedio attraverso la ricostruzione dello stile analizzando i tratti distintivi e i
parallelismi iconografici all‟interno del singolo percorso artistico o con rimandi ad
opere sicuramente conosciute dallo stesso.
4
In chiusura si è scelto di stendere un‟appendice che permetta di inserire i documenti più
interessanti per l‟approfondimento di alcuni argomenti trattati e un censimento che
potesse chiarire i rimandi e le attribuzioni.
5
2. Storia delle cappelle, problemi iconografici e interventi
generali
2.1 La novità del Concilio di Trento e il problema iconografico
Il Concilio di Trento si aprì, dopo diversi rinvii e difficoltà, il 13 dicembre 1545,
inserendosi in un‟epoca di profonde fratture politiche e religiose3. Le materie da trattare
avevano scatenato fin dal principio due tesi opposte, dogma o disciplina, che facevano
capo rispettivamente al papa e all‟imperatore, il quale auspicava la ricomposizione
dello scisma protestante. La presenza di Lutero, delle sue accuse di negligenza e di
decadenza nei confronti della Chiesa di Roma, aveva portato il papa alla volontà di
rivendicare la propria autorità approntando un piano di riforma sistematico, fino a quel
momento condotto in modo approssimativo, tanto da non sortire risultati. Fu così che
Tommaso Campeggio propose una transazione con il seguente testo:
“Non si può dire se i cattivi costumi provengono da una cattiva dottrina, o inversamente la
cattiva dottrina dai costumi corrotti, ma io attesto che rivedendo, dopo un intervallo di venti
anni, la Germania, non l’ho più riconosciuta a causa dello scadimento dei costumi conseguente
al pervertimento dei dogmi. Il mio parere sarebbe quindi che bisogna trattare pari passu del
dogma e degli abusi e della riforma dei costumi. […]. Aggiungiamo a ciò che i protestanti
chiamano abusi certe cose tanto strettamente legate alla fede e alla religione, che appena si
possono distinguere da essa, per esempio i digiuni, la scelta degli alimenti (astinenza), le ore
canoniche (breviario), le cerimonie, il celibato ecclesiastico, i voti monastici, le giurisdizioni
episcopali e molte altre cose che chiamano Adiaphora.”4
È una proposta di risposta dottrinale organica tout court sui sacramenti e sui principi
cattolici, che vogliono essere un tentativo di recupero controriformistico5 della
degenerazione dei costumi dei riformati, senza però intervenire nettamente nelle
questioni controverse tra i teologi cattolici, che passano in secondo piano, per lasciare
3
Per la storia preconciliare si rimanda all’ampia bibliografia tra cui LEON CRISTIANI, La Preistoria del
Concilio, in La chiesa all’epoca del concilio di Trento, in Storia della chiesa volume XVII, (a cura di
ALESSANDRO GALUZZI), S.A.I.E., Torino, 1977, pp. 325 e successive
4
F.SEVEROLI– A. MASSARELLI, Diari [I-IV], in “Concilium Tridentinum, Diariorum, actorum, epistolarum,
tractatuum nova collectio”, a cura della Gorres-Gesellsschaft, Freiburg, 1901
5
L’appellativo “Controriforma” entra nel vocabolario nel 1870 circa, mentre compare per la prima volta
nel 1762
6
spazio ad un intervento che si radichi profondamente nella cultura popolare, facendo
leva anche su un nuovo ruolo ora assegnato al sacerdote e al vescovo.
Come nota giustamente Cristiani ci fu infatti una diversa proposta di “operosità fattiva
nell‟interesse delle anime. Diventa indispensabile la residenza, la predicazione, le visite
pastorali, i sinodi, i concili. I vescovi sono quindi chiamati ad una novità di vita al loro
rientro nella diocesi”6. Questa novità non fu certamente priva di importanza: le vecchie
figure della chiesa si ritrovarono dopo il Concilio ad avere davanti a sé un nuovo
orizzonte operativo che permise anche una presa di coscienza in ambito artistico, in cui
le grandi opere e gli artisti stessi sarebbero stati il frutto delle decisioni delle autorità
locali (per quanto riguarda la Certosa, sia le figure dei priori sia quello dei vescovi,
come vedremo, saranno fondamentali).
La popolazione cattolica, dal canto suo, sentì il bisogno di un vero e proprio
cambiamento, che combattesse l‟incertezza e l‟inquietudine e che ristabilisse un nuovo
rapporto con Dio. L‟istituzione si trovò a dover accettare la condizione sopravvenuta e
a riconoscere i propri limiti, intervenendo sia dal punto di vista meramente religioso sia
nell‟orizzonte dell‟arte figurativa, che aveva sul fedele le maggiori possibilità di
coinvolgimento e quindi di condizionamento. Se dal punto di vista dogmatico nel
Cinquecento ciò portò a veri e propri episodi di intolleranza, giustificati dalla necessità
di comporre un rinato e più efficace sistema dottrinale, nel Seicento la Chiesa di Roma
non più impegnata nelle repressioni, “aveva rivolto il suo impegno […] soprattutto ad
una efficacissima azione di propaganda e diffusione dei principi su cui aveva poggiato
gran parte della sua ancora immensa autorità da anteporre alla stessa tradizionale
illustrazione di temi evangelici e di vicende miracolose”7, cioè affinché “<<il popolo di
Dio>> si rinnovasse in una nuova e più vissuta testimonianza di appartenenza alla
Chiesa, ed altre creature venissero invogliate a vivere la ricchezza misteriosa che
promana dalla liturgia di cui la Chiesa si vale nella celebrazione dei suoi riti e
sacramenti”8. Questa operazione doveva essere supportata stabilendo un contatto ora
6
LEON CRISTIANI, Storia della chiesa, Torino, 1977, p. 641
7NICOLA SPINOSA, Barocco e Propaganda in FEDERICO ZERI (a cura di), Cinquecento e Seicento, in Dal
cinquecento all’ottocento, in Storia dell’Arte Italiana, parte II: Dal Medioevo al Novecento, vol. VI, tomo
I, Einaudi, Torino, 1981, p. 291
8
ENRICO VILLA, L’arte sacra e la chiesa milanese dal concilio di Trento al concilio vaticano II, Grafiche P.
Boniardi, Milano, 1966, p. 252
7
ritrovato con il divino e con la natura, dove il primo era lo specchio dell‟ infinita bontà
e della misericordia dell‟onnipotente e la seconda era il riflesso della potenza dello
stesso, la “grandezza del disegno tracciato dalla divina Provvidenza”9. Il fedele tornava,
quindi, a provare profonda ammirazione per le manifestazioni del divino, dislocando il
vecchio concetto di homo faber, che misurava la natura in base a sé, a un timoroso
rispetto per il mondo circostante. L‟istituzione e la sua opera persuasiva non dovevano
però essere avulsi dall‟esperienza sensoriale dell‟individuo e della sua conseguente
reazione di emotività che consentiva di riconoscere la validità del contenuto proposto.
Ecco perché la committenza delle classi dominanti, e in particolare quella clericale,
non poteva ignorare il problema di un controllo delle immagini prodotte a fine
religioso, modificando l‟iconografia in modo che il credente si sentisse partecipe del
disegno divino, vedendosi attore nello stesso e conseguentemente celebrasse la chiesa
cattolica, che rendeva tutto questo possibile.
L‟immagine aveva il compito di tradursi in un‟esperienza sensoriale che potesse
sollecitare il sentimento della fede, e ciò che il credente vedeva diventasse specchio
dell‟amore di e per Dio, annullando qualsiasi dubbio per sottolineare gli elementi di
ordine e di equilibrio dell‟esperienza mistica. All‟iconografia era richiesto di suscitare
la necessità di pentimento e sacrificio, rilanciando il valore di una religione basata sulla
mortificazione e sulla glorificazione del martirio per l‟espiazione del peccato. Nacque
quindi una nuova ispirazione classica, un “ideale classico del Seicento” come diceva
giustamente Gnudi, che sbocciò “da un bisogno di approfondimento, di raccoglimento,
di interiore misura”10. I lavori furono svolti all‟interno di un orizzonte di aderenza e
continuità, cioè tentando di mantenere lo stile originario della Certosa, limitando molto
la creatività del singolo artista. Un tale atteggiamento creò ulteriori problemi nei casi in
cui la documentazione è lacunosa, soprattutto nell‟ambito scultoreo, poiché la richiesta
di tratti comuni che facessero presa sul senso religioso del fedele, senza che costui
fosse distratto dalla bellezza dell‟opera in sé, crea una sorta di appiattimento nella
realizzazione, creando difficoltà nelle datazioni certe e nell‟immediata e sicura
attribuzione a un determinato artista.
9
SPINOSA, op. cit. 1981 p. 291
10
CESARE GNUDI, L’ideale classico del Seicento in Italia e la pittura di paesaggio, saggio introduttivo alla V
mostra biennale d’arte antica, p. 14
8
I caratteri e le istanze su cui si mosse la nuova iconografia sono quindi “chiarezza,
verismo, capacità di toccare il sentimento delle persone cui l‟opera d‟arte è diretta”11.
Se fino a quel momento ci si era affidati a un paesaggio “inventato dalla mente per
evadere dalla realtà o comunque immaginarla distaccata dal tempo e dallo spazio”
adesso la ricerca invece verteva su “una nuova interpretazione della realtà stessa, di cui
l‟uomo è ancora una volta “misura” sebbene con significato diverso da quello
attribuitogli dall‟umanesimo”12. La realtà misurata sull‟uomo non per se stesso, ma in
quanto creatura di Dio, che è la sua realtà.
Se, come abbiamo precedentemente detto, una delle riforme fondamentali fu il
principio che le opere destinate alle chiese dovessero essere approvate dal vescovo
della diocesi, si può capire perché l‟azione di controllo fosse demandata a quest‟ultimo:
in nessuna chiesa si potevano collocare immagini riferite a temi biblici senza previa
approvazione.
Tra i padri del Concilio, chi più si occupò di iconografia e di simbologia dell‟arte
cristiana fu Gabriele Paleotti, il quale intervenne al concilio di Trento e
successivamente fu nominato vescovo di Bologna nel 1566 e poi primo arcivescovo
della stessa nel 1582. Nella sua opera, Discorso intorno alle immagini sacre e profane,
dello stesso anno, sviluppò ampiamente il tema dell‟allegoria sacra definendo il
simbolo in primo luogo e poi soffermandosi su emblemi esemplari da lodare. Se
“simbolo vorrà dire una o più figure insieme, o adunanza di varie altre cose, che oltre a
quella somiglianza esteriore che rappresenta, significa ancora un altro concetto più alto
e sensato, appartenente alla vita nostra”13, le immagini adeguate diventavano quelle che
“havessero seco la medolla, che è di giovare alla vita honesta: il che però non fosse
tanto oscuro e difficile che havesse bisogno di sottile interprete: ne manco tanto triviale
e volgare, che non apportasse ne meraviglia, ne novità, ne trattenimento alcuno
all‟intelletto: il quale tanto più suole eccitarsi e apprendere le cose, quanto più sono
11
SPINOSA, op. cit. 1981 p. 291
12
MARIA LUISA GATTI PERER, Le <<istruzioni>> di San Carlo e l’ispirazione classica nell’architettura religiosa
del Seicento in Lombardia, in Il Mito Del Classicismo nel Seicento, estratto dalla collana Biblioteca di
Cultura Contemporanea, vol. LXXXIV,, Messina Firenze, 1964, p. 101-102
13
GABRIELE PALEOTTI, Delle pitture de i Simboli, in Discorso sopra le immagini sacre e profane, in (a cura
di) PAOLA BAROCCHI, Trattati d'arte del Cinquecento fra manierismo e Controriforma, vol. II, Laterza, Bari,
1960-61, p. 248
9
state da lui apprezzate per la loro dignità”14. L‟immagine come la intendeva il Paleotti
non era obbligatoriamente innovativa, anzi il più delle volte la storia era conosciuta da
tutti, ma aveva il compito di suscitare nel fedele una sollecitazione intellettuale ed
emotiva che lo portasse ad avvicinarsi ai valori espressi dall‟immagine. Il tema per
eccellenza fu dunque il racconto di parabole evangeliche, simbolo della vita di Cristo
Salvatore, e del Vecchio e Nuovo Testamento.
Paleotti si espresse anche sulle tematiche adatte per la pittura, sull‟utilizzo e sulla
necessità di quest‟ultima dichiarando che: “è per via di queste pitture communemente
usa la santa Chiesa in tutti i luoghi della cristianità di soccorrere alla infermità loro,
perché, dichiarati che li siano almeno rozzamente gli articoli di fede, per mezzo poi
delle pitture più facilmente li capiscono e li conservano a memoria; altrimenti
resteriano prive del mezzo di godere dei santi sacramenti”. La pittura era quindi un
mezzo per imprimere delle storie non nuove nella mente, un sostegno valido alla
predicazione e alla preghiera, su cui si basava la nuova liturgia: “se è lecito di predicare
il misterio della Passione o la vita di un santo, perché non sarà permesso parimente il
poterla con figure rappresentare?”. Oltre alla vita Christi, sarà di nuovo grande
interesse l‟agiografia dei santi.
Il cardinale, però, sottolineava l‟errore di un aspetto troppo personalistico, sia per
quanto riguarda l‟interpretazione dell‟aspetto allegorico, sia sul piano delle scelte
stilistiche. Primariamente, l‟interpretazione allegorica delle immagini rischiava di
suscitare eccessivamente la vanità tra i committenti, fossero essi religiosi o laici. Dirà
nel suo trattato che “la maggior parte di esse paiono studiosamente fatte solo per
honorare le proprie persone, e innalzare se stessi”15: il fine soggettivo delle imprese
diminuisce la validità delle stesse immagini simboliche per esaltare le imprese del
singolo, trascurando l‟aspetto didascalico e rendendo l‟opera peccaminosa.
Secondariamente, le invenzioni stilistiche rischiano di corrompere il messaggio
moralizzante, esaltando la bravura dell‟artista ma muovendosi in un orizzonte di falsità
storica. Per evitare ciò, egli proponeva una mimesi della realtà, “essendo l‟officio del
pittore l‟imitare le cose nel naturale suo essere e puramente come si sono mostrate agli
occhi de‟ mortali”. Come anche i Borromeo, il bolognese sottendeva una critica alla
14
Ibidem
15
Ibi, pp. 249-251
10
società del suo tempo, accusata di sterilità e superficialità, i cui massimi esponenti
artistici riducevano l‟arte solamente alla mera glorificazione di sé.
Carlo Borromeo, figura predominante nella Lombardia postconciliare, arcivescovo di
Milano dal 1560 al 1584, che con il suo trattato Istrutiones fabricae et suppellectilis
ecclesiasticae del 1577 pubblicò delle precise norme destinate a tutti coloro che si
avvicinavano a creazione di soggetti sacri, che rimarranno modello rigoroso e
indiscutibile16 per tutta l‟arte del periodo seicentesco.
Nella sua opera, Carlo Borromeo si faceva promotore di un‟arte che trovasse un
linguaggio più adatto alla formazione e alla preservazione della fede delle masse
popolari, che suscitasse sentimenti devozionali nel fedele attraverso non solo una nuova
simbologia iconografica, ma anche per mezzo di disposizioni per la costruzione
dell‟edificio, che doveva subito trasmettere gli ideali cattolici: la saldezza delle forme
monumentali sono contenute da una rigorosa misura che le regola, i nuovi altari sono
innalzati da gradini ma si rivolgono verso il credente che partecipa alla messa, l‟arte è
interpretazione di un contenuto che affonda le radici nell‟animo umano, con soggetti
biblici che subiscono il martirio ma sono rappresentati compostamente in forme rigide.
La chiesa, in ogni sua parte, doveva essere sì la casa di Dio ma doveva soprattutto
ritornare a ospitare gli uomini, a essere la loro casa, costruendo un edificio di cui si
doveva curare il minimo dettaglio17, lo stesso che potremmo ritrovare nell‟abitazione di
ognuno, il cui unico interesse era la comune fruizione, per lo più indifferente
all‟estetica dove non ciò non toccasse la chiarezza liturgica18. Questo è ancor più vero
se si tiene conto che il trattato borromeiano è stato composto in collaborazione con un
istruttore religioso e un filologo, senza avvalersi dell‟opera di un architetto, né di altri
16
Nonostante il cardinale Federico Borromeo, nel 1624 nel suo trattato mostri un atteggiamento di
maggiore tolleranza, lo scritto non si distacca in molto dal volume di San Carlo, anzi il più delle volte ne
ripercorre le orme ampliandone i particolari. Anche questo trattato sarà da tenere in considerazione
per la considerazione generale della riforma iconografica. Per questi riferimenti ci si basa su FEDERICO
BORROMEO, De Pictura Sacra, (a cura di) CARLO CASTIGLIONI, Pasquale Carlo Camastro, Sora 1932
17
<<clavus ferreus, quo birretum sacerdotis celebrantis appendatur>>, cioè un posto dove il celebrante
possa appendere il berretto, CARLO BORROMEO, Instructiones Fabricae et Supellectilis Ecclesiasticae, in (a
cura di) PAOLA BAROCCHI Trattati d'arte del Cinquecento fra manierismo e Controriforma, La Terza, Bari
1960, vol. III, p.18
18
Per meglio chiarire, si propone l’esempio di misurazione dell’altar maggiore, dove Borromeo percorre
tutte le possibili misurazioni perché ci sia “spacii commodo” per la celebrazione della Messa, misure che
io credo probabilmente datagli dall’esperienza. Ricorre anche la formula “si opus sit”, che gli permette
di portare diverse casistiche