PREMESSA
Formano oggetto d‟analisi in questo mio studio alcune attività di difficile
classificazione logico-sistematica, per connotare le quali vengono adoperate, talora nella
letteratura giuspubblicistica, espressioni piuttosto generiche e poco precise, come
appunto un termine generalissimo qual è “la prassi”, si parla quasi d‟attività
paralegislative o metagiuridiche, per evidenziarne la loro vicinanza con le “altre regole
del nostro Parlamento”.
Tradizionalmente, queste attività si collocano in un‟area d‟ausiliarietà rispetto alle leggi
ed in particolare al Regolamento di ciascuna Camera, che però combinandosi con le
altre regole (soprattutto quelle politiche), riescono talvolta a superare la lettera del
Regolamento producendo così due effetti:
Il primo praeter Regolamento, la prassi è nel senso di un‟interpretazione estensiva di
quest‟ultimo;
Il secondo invece è contra Regolamento, nel senso che questo viene violato dalla prassi
in uso.
E‟ apparso opportuno dividere il lavoro in quattro parti, nella prima vengono esaminate
le varie teorie, e si è pure, provveduto a costruire una partizione della prassi,
distinguendo quella parlamentare da tutte le altre tentando di identificarne i caratteri
peculiari.
Nel secondo capitolo si sono affrontate le convenzioni o consuetudini costituzionali, che
in qualche modo direttamente o indirettamente ricadono sull‟Assemblea elettiva,
chiamandole: “Prassi di Cooperazione” in modo tale da poterle esaminare nell‟ambito
parlamentare.
Nei rimanenti due capitoli si entra in Aula e si affronta la prassi sull‟organizzazione
interna del Parlamento nei suoi due rami, ed in particolare nell‟ultimo capitolo si è
voluto affrontare la prassi che riguarda il procedimento legislativo, in quanto forse è
questo il suo momento di maggior forza, poiché molto spesso riesce a piegare non solo
il Regolamento delle due Camere, ma la stessa Costituzione.
Ho infine cercato di non appesantire troppo la trattazione, rinviando alle note i
riferimenti alle sedute e agli atti parlamentari.
G.Z.
3
Capitolo primo
La prassi, teoria, definizione, applicazioni…
SOMMARIO – 1. Il posizionamento della prassi, nei metodi di produzione
del diritto – 2. La prassi in generale, concetto ed elementi qualificanti, e il
reperimento delle fonti – 3. Le consuetudini e gli usi nel diritto
parlamentare – 4. La prassi parlamentare, e la sua tipologia – 5. Le risposte
alle nostre domande – 6. Perché studiare la prassi parlamentare.
I.1. IL POSIZIONAMENTO DELLA PRASSI, NEI METODI DELLA
PRODUZIONE DEL DIRITTO.
Il problema della prassi parlamentare, necessita di un posizionamento nei metodi
della produzione del diritto, per poi giungere ad una definizione concettuale, che sia in
grado di racchiuderne il maggior numero possibile, attribuendo corpo e misura ad essa.
Per ciò, occorre chiedersi:
1. Esiste una definizione di Prassi parlamentare?
2. La prassi parlamentare è una species di un più ampio genus?
3. I rapporti con la legge e la norma quali sono?
Tutte queste domande richiedono un breve prologo, sulla forma del diritto:
Il diritto nel suo movimento, nella sua autoproduzione continuamente si rinnova.
1
(teoria dinamica del diritto). Tecnicamente stiamo parlando delle “Fonti del diritto”
cioè quei fatti o quegli atti a cui un determinato ordinamento giuridico attribuisce
l‟idoneità e la capacità di produrre norme giuridiche. Dove per atti o fatti s‟intendono a
seconda che gli eventi cui il diritto si riferisce son avvenimenti nei cui riguardi si
prescinde dalla considerazione dell‟elemento soggettivo – coscienza e volontà – proprio
dell‟agire umano, o sono comportamenti umani che ricomprendono tal elemento
soggettivo, con riferimento ai fatti parliamo d‟idoneità, con riferimento agli atti
parliamo di capacità. La dottrina giuridica individua due categorie di norme
qualificandole rispettivamente come regole di comportamento e come regole di struttura
2
o d‟organizzazione ed‟è di quest‟ultime che ci dobbiamo occupare all‟interno della
quale dobbiamo muovere il nostro lavoro.
Particolare importanza nel processo storico che porta al predominio della legge sulle
altre fonti del diritto ha la posizione teorica e pratica della consuetudine. Tre sono le
principali categorie elaborate dal pensiero giuridico per spiegare il fondamento della
giuridicità delle norme consuetudinarie:
1. La romano-canonista- riduce la consuetudine alla legge.
2. La dottrina moderna, che si fa risalire all‟Austin, individua il fondamento della
validità delle norme consuetudinarie nel potere del giudice che tali norme
accoglie per risolvere una controversia. A questa tesi il Lambert, nel suo studio
“la donction du droit civil comparé” (Parigi 1903), obbietta: se, infatti, si adotta
1
H. KELSEN, lineamenti di dottrina pura del diritto, Torino,1967, 131
2
H. KELSEN, op. ult. cit., 164
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il criterio del loro accoglimento da parte dei tribunali per distinguere le
consuetudini giuridiche dalle semplici usanze sociali, non è più possibile
spiegare l‟esistenza di consuetudini nel diritto pubblico (specie in quello
nazionale) ove non esistono giudici che accolgono e facciano valere le norme
consuetudinarie, ma Lambert scrive nel 1903, oggi noi abbiamo quel “giudice”
o quei “giudici” in grado di sindacare la stessa costituzione.
3. La tesi della scuola storica (Savigny, e in particolare Puchta) trova la sua
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legittimazione in se stessa, sull‟innato sentimento di giustizia del popolo.
Sembra, quindi, riprendere vigore la tesi dell‟Austin, essendo l‟unica che permette di
qualificarla come “norma d’imperium”, cioè con capacità coattiva d‟applicazione reale,
però in un sistema di diritto positivo dove sono ammessi solamente gli usi secundum
legem e praetem legem, sembrano non trovare ospitalità nell‟ordinamento gli usi
contram legem almeno in un ambito di diritto privato, la situazione cambia
radicalmente nel diritto pubblico, infatti, sebbene sia inclusa nell‟elenco delle fonti
dell‟art. 1 delle preleggi, la sua efficacia “nelle materie regolate dalle leggi e dai
regolamenti” è limitata alle ipotesi in cui essa sia oggetto di specifico rinvio (art. 8 disp.
Prel. Al c.c.). di modo che, la consuetudine possiederebbe un‟autonoma forza normativa
4
solo fuori delle materie disciplinate dal diritto scritto.
Il problema che si pone è quello di sapere quando una materia possa dirsi regolata
“dalle leggi e dai regolamenti”, ovvero è sufficiente qualche parte lacunosa per
autorizzare l‟intervento integrativo della consuetudine (che è la principale, se non unica
fonte-atto del nostro ordinamento); ovvero è necessario che si sia alla presenza di una
vera e propria “anomia” legislativa?
Il problema si ripercuote sensibilmente nell‟ambito del diritto Costituzionale, e non di
poco conto, perché seguendo la prima soluzione, si aprirebbero rilevanti spazi al suo
utilizzo; contra nella seconda ipotesi si disciplina solo materie non regolate dal diritto
scritto.
La Corte Costituzionale sembra aver seguito la prima ipostazione ,infatti, nella
sentenza numero 129 del 1981, in cui era chiamata a risolvere un conflitto tra il
Presidente della Repubblica, la Camera, il Senato, da una parte e la Corte dei Conti,
dall‟altra. Riassumendo per grandi linee, la sentenza 129/1981 verte sul potere della
Corte dei Conti di esercitare la giurisdizione contabile sulle gestioni interne dei tre
organi costituzionali, argomentando la sua pronuncia negativa, tra l‟altro, dall‟esistenza
di una consuetudine in tal senso, risalente allo Statuto Albertino e poi confermata,
d‟esonero dalla giurisdizione contabile. Questa consuetudine sembrerebbe fondarsi, per
un verso, sull‟esclusione della capacità espansiva dell‟art. 103 cost. “a situazioni non
espressamente regolate in modo specifico” e, per un altro verso, sul carattere non
compiuto ne dettagliato delle norme costituzionali scritte e relative all‟organizzazione e
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al funzionamento degli apparati serventi degli organi costituzionali. Ciò in contrasto
con un‟interpretazione esegetica del combinato disposto degl‟articoli 8 e 12 secondo
comma delle preleggi, che sembrerebbe sostenere la seconda ipotesi. Per due ragioni, la
prima non vi sarebbe nessun motivo per impedire che la consuetudine non operi in
settori non disciplinati da norme scritte, la seconda è che nella realtà storica e in quella
di tutti i giorni, la consuetudine nelle sue varie forme tende ad occupare i vuoti di
sistema del diritto scritto.
3
H. KELSEN, op. ult. cit. 170
4
F.SORRENTINO, Le fonti del diritto, II, Genova, 1997, 149
5
F.SORRENTINO, op. ult. cit. , 150; PURE V.G. ZAGREBELSKY, Sulla consuetudine costituzionale
nella teoria delle fonti del diritto,1970, 155 SS.
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Le lacune del diritto scritto possono essere colmate attraverso il ricorso alla
consuetudine prima del riferimento all‟analogia o ai principi generali dell‟ordinamento
giuridico e così molto spesso le consuetudini integrative sono, allo stesso modo di
quelle contra legem, capaci d‟imporsi e di operare nell‟ordinamento per forza propria, al
di là ed anche contro le disposizioni che prevedono. In quest‟ultima prospettiva
troverebbe conferma la nota tesi dell‟Esposito, secondo la quale il fenomeno
consuetudinario avrebbe tra l‟altro la funzione di asseverare o di smentire la validità
delle disposizioni sulle fonti: la circostanza che consuetudini integrative di disposizioni
di legge e consuetudini contra legem si affermino in fatto e ricevano osservanza
proverebbe, infatti, che il diritto può sorgere non solo in conformità delle norme sulla
produzione, ma anche o al di fuori di esse.
Questa ricostruzione del fenomeno consuetudinario come capace d‟imporre la sua
osservanza nonostante il tentativo del legislatore di limitarne la portata, si collega alla
problematica dell‟effettività come condizione d‟esistenza di un ordinamento giuridico, e
6
in alcuni casi di validità e d‟efficacia d‟alcune sue norme o categorie di norme.
In conclusione la consuetudine, se si mantiene nel ristretto ambito assegnatole dall‟art.
8 delle preleggi, occupa una posizione subordinata al diritto scritto, se invece eccede da
quest‟ambito occuperà la posizione che la sua forza normativa le consentirà di
occupare, non potendosi escludere, come accennato, una sua valenza sullo stesso diritto
scritto, anche se di grado costituzionale.
I.2. LA PRASSI IN GENERALE, CONCETTO ED ELEMENTI
QUALIFICANTI, E IL REPERIMENTO DELLE FONTI.
Dalla parola greca: “πραξξις”, ossia prassi-azione, o “πρασσω” il fare, ed invece in
latino “actio”, il termine Francese “usages de service”, quello spagnolo “rutina”, in
tedesco “Verwaltungspraxis”, in inglese “office ruotine”, per poi arrivare all‟italiana
“prassi”.
La prassi, intesa come costante ripetizione di procedimenti e di comportamenti, ha
una rilevanza relativamente marginale come istituto giuridico in senso stretto. C‟è chi
considera il fenomeno della prassi dal punto di vista dell‟ordinamento, cioè della sua
disciplina formale, incontra, infatti, notevoli difficoltà a ricondurre la prassi in generale
a regole giuridiche di diritto positivo. Così pure chi è abituato a valutare la giuridicità
dei fatti e delle attività in relazione ai processi di produzione giuridica è per lo più
indotto a pensare che la prassi, almeno dal punto di vista dei modi tipici di formazione
del diritto, non abbia una sua specifica individualità e in definitiva debba essere
considerata in connessione con la consuetudine. Nessuno tuttavia dubita del valore
dell‟efficacia della prassi nel concreto e nell‟ambito di un ordinamento costituito da
norme poste nelle varie forme d‟esercizio del potere normativo tanto più che il diritto
si esprime sempre più in forme nuove, se si considera che il valore della prassi sta nel
continuo ripetersi del comportamento, e nell‟autorità del fatto; la sua forza è da ricercare
nella natura delle cose e nella diffusa consapevolezza della dipendenza di questo
comportamento da una regola operativa tacita e non da un formale precetto legislativo.
6
F.SORRENTINO, op. ult. cit., 151.
6
Il comportamento di fatto tenuto ha perciò una sua logica, una ratio non
necessariamente coincidente con quella della legge o delle norme regolamentari
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vigenti.
L‟argomento della prassi non può essere assorbito, cioè risolto, nel più ampio
contesto di un discorso sulle fonti tradizionali del diritto non scritto; e ciò sia perché la
prassi, non si presta ad analisi condotte dell‟angolo visuale proprio dei processi di
produzione giuridica di Legge, Regolamenti, e Consuetudini, sia perché la sostanza
della prassi sta nel ripetersi, in modo generalmente costante, di un comportamento in un
dato ambiente e non già nel fatto che il comportamento esprima una volontà come
accade per gli atti e per i negozi giuridici.
Alla base del concetto stesso della prassi sta il fatto che “cosi sia stato ed è” e non
che “così debba essere”, inoltre ai fini della formazione dei una prassi e del suo stesso
accertamento non interessa quello che la legge o la coscienza sociale o le varie
componenti delle comunità vogliono (cosiddetta voluntas populi) né che coloro quali
seguono la prassi siano consapevoli della doverosità del loro comportamento (opinio
iuris et necessitatis). E‟ sufficiente che, in fatto il comportamento sia coerente e
generalmente ripetuto. Se mai, si può supporre che in altra sede si sia stabilito che
l‟attività debba seguire certe regole e che i comportamenti tenuti anch‟essi introdotti
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informalmente, siano seguiti cioè praticati.
Vi sono, infatti, alla base del processo formativo della prassi oltre a valutazioni di
legalità e di possibilità giuridica di una decisione, di un comportamento, di un‟attività,
anche considerazioni o rilievi disutilità generale, d‟opportunità, criteri di convenienza
economica, regole tecniche, esigenze d‟equità, se non addirittura necessità pratiche o
doveri oggettivamente imposti cui sarebbe altrimenti impossibile o assai difficile
adempiere. E sebbene tutte queste motivazioni siano irrilevanti ai fini
dell‟individuazione del valore della prassi (anche se in qualche misura possono incidere
sulla determinazione in concreto dell‟ambito d‟operatività anche ai fini dei controlli
esterni ed interni di legittimità), nondimeno ad esse è utile riferirsi per intendere com‟è
perché avvenga in fatto che la prassi svolga una fondamentale funzione ordinatrice e
regolatrice dell‟organizzazione dell‟azione del pubblico potere.
La prassi si esprime con sua forza intrinseca e naturale, che è quella legata ai suoi
contenuti reali e perciò al valore precettivo, come tale del precedente un profilo questo
che è stato esaltato per lo sviluppo del diritto pubblico in generale, occorre pure
ricordare ove rappresenti un‟evoluzione, può assumere pure un ruolo di limite e vincolo
dell‟organizzazione e funzione pubblica.
Riassumendo sulla prassi in generale, si può affermare che la prassi è divenuta cosi,
per un verso in fatto espressiva di un processo di formazione e di sviluppo delle
istituzioni e dei procedimenti. Per altro verso la prassi ha consentito di sperimentare e
sovente di controllare, fino a rendere impossibile, talune forme discutibili d‟esercizio
del potere. In questo senso, essa ha talvolta impedito abusi o ha reso impossibile la
formazione di volontà che avrebbero prodotto disfunzioni gravi. Altre volte la
ripetizione di comportamenti ha invece consentito l‟affermarsi in fatto di pratiche, se
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non illecite, certamente illegittime.
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F. PIGA, prassi amministrativa, in Enciclopedia del diritto, XXXV, 842
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F. PIGA, op. ult. cit., 843
9
F. PIGA, op. ult. cit.,847, riporta la seguente bibliografia: BETTI, Interpretazione della
legge e degli atti giuridici, 1949, 225 ss, Consuetudine (teoria generale) in enciclopedia del
diritto, IX, 426 ss, CARULLO, La prassi amministrativa, Padova, 1979,SANDULLI, Manuale di
diritto Amministrativo, Napoli 1982,
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