PREMESSA
Nel corso del terzo anno del mio ciclo di studi ho vissuto un’esperienza di tirocinio
presso la Comunità Psichiatrica “Antares”, ubicata a Calamandrana, un paesino
dell’astigiano a pochi chilometri da casa mia. Durante il primo periodo, ho trascorso la
maggior parte del tempo con i pazienti e lo staff degli operatori, in modo da
familiarizzare con l’organizzazione delle giornate e con una situazione che, per me, era
del tutto nuova.
Gli ospiti della comunità presentavano patologie differenti: alcuni schizofrenici, altri
con disturbi di personalità. È stato alquanto interessante interagire con loro, sebbene
non tutti si prestassero a scambiare anche soltanto poche parole. L’impressione che ho
avuto è che, all’interno di quel luogo così protetto, ci siano tantissimi mondi diversi, che
non c’entrano con quello esterno ma che vivono dentro la mente di ciascun paziente.
Questi, a volte solo per brevi attimi, può decidere di conoscere anche quello degli altri
che lo circondano, mentre, spesso, rimane nel proprio, arrivando a condurre
un’esistenza che, nel caso di disturbi cronici, può anche consistere semplicemente nei
piccoli rituali quotidiani: mangiare, dormire e provvedere alla propria igiene personale.
Fortunatamente, tra i pazienti che si distinguevano per le loro profonde problematiche,
ne spiccavano anche altri che, invece, riuscivano a gestirsi in un modo quasi normale:
ciò, nei casi migliori, permetteva di integrare la vita comunitaria con occupazioni
esterne di tipo scolastico e lavorativo. È proprio a questa seconda tipologia di soggetti
che appartiene la persona che più mi ha colpito nell’ambito della struttura. Si trattava di
una ragazza di 18 anni ( che per convenzione chiamerò Maria ), con un bell’aspetto e un
modo di presentarsi alquanto appropriato: inizialmente, infatti, in me sorsero dei dubbi
sul ruolo che ella assumeva all’interno della comunità…si trattava di un ospite o di un
membro del personale? Successivamente, grazie alle indicazioni fornite dalla psicologa
e dagli educatori, capii che ella conduceva una vita particolare rispetto agli altri
residenti: durante la settimana lavorava come apprendista presso un parrucchiere e,
quando ne aveva la possibilità, trascorreva il proprio tempo libero con il partner, un
ragazzo incontrato qualche mese prima che io arrivassi in comunità e potessi
conoscerla. Dunque, in apparenza, questa giovane ragazza conduceva una vita quasi
normale, però, una volta calata la sera, a differenza delle sue coetanee, non rientrava in
una casa qualunque bensì in un centro di cura per profondi disturbi, quali, in effetti, ella
presentava. L’interesse da parte mia nei confronti di questa paziente è scaturito
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soprattutto dai racconti che il personale riportava circa la sua condotta in comunità.
Infatti Maria era in grado di esercitare un’influenza particolare sia nei confronti degli
operatori che della psicologa. Aveva un’estrema capacità di accattivarsi la simpatia di
ciascuno per ottenere dei vantaggi personali. Era anche molto abile nel mentire così che,
spesso, riusciva a fare tutto ciò che voleva sebbene potesse andare anche contro le
regole comunitarie. Per tutte queste ragioni, la ragazza costituiva un problema non
indifferente per lo staff che, praticamente in tutte le riunioni, discuteva ampiamente
sulle difficoltà da lei arrecate e sulle modalità attraverso le quali cercare di gestirla.
Spesso, dopo questi incontri di tutto il personale, la psicologa forniva, a me e alla mia
compagna tirocinante, delle delucidazioni per farci riflettere sulla situazione che si
creava a causa della particolare capacità manipolativa che la ragazza possedeva.
Durante le riunioni, era possibile cogliere le incomprensioni che avevano luogo fra i
membri del personale: Maria, a seconda delle circostanze, tendeva a trascorrere più
tempo con uno di loro piuttosto che con gli altri e così, questi, normalmente, era più
propenso a difenderla contro i colleghi che, non rimanendo troppo a contatto con lei,
non ne erano ammaliati e influenzati. La psicologa era conscia dei danni che tale
situazione causava all’integrità del gruppo di lavoro ma, spesso, era davvero difficile
riuscire a controllarla dal momento che, ovviamente, non le era possibile seguire la
paziente ventiquattro ore al giorno. Inoltre, un ulteriore problema, era rappresentato dal
fatto che la comunità aveva stilato un determinato progetto, il quale prevedeva che
Maria, potendo contare anche sul proprio lavoro, avrebbe avuto la possibilità di
trasferirsi in un appartamento, a condizione di raggiungere una completa autonomia
senza dover sempre far riferimento agli operatori. In realtà, però, ciò non accadeva
poiché aveva un costante bisogno di essere guidata nei piccoli gesti quotidiani: dalla
sveglia mattutina alla pulizia della propria stanza. Gli operatori si sforzavano di farle
applicare le regole, in modo che potesse comportarsi appropriatamente ma, alla fine,
spesso la assecondavano perché influenzati dai suoi particolari atteggiamenti. Dal
momento che sia io che la mia compagna iniziammo a frequentare la comunità proprio
nel periodo in cui la situazione aveva raggiunto caratteristiche non facilmente
contenibili, la psicologa ne approfittò per chiedere la nostra collaborazione in un lavoro
di integrazione del progetto. Era necessario tentare di preparare uno schema guida a cui
gli operatori potessero far riferimento quando interagivano con la ragazza, in modo che
tutti mettessero in atto gli stessi comportamenti, senza nessuna forma di favoritismo.
L’idea della psicologa era quella di stilare una sorta di contratto che sarebbe stato
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proposto anche alla giovane paziente per indurla ad impegnarsi nel rispettare
maggiormente il personale e la vita comunitaria. Ovviamente l’aiuto che ci era stato
richiesto non nasceva tanto dalle nostre conoscenze ( infatti non avevamo neanche
concluso il ciclo di studi triennali e, inoltre, si trattava della nostra prima esperienza sul
campo ) ma per il fatto che, essendo state ad “ Antares “ per poco tempo, non eravamo
eccessivamente coinvolte e, quindi, potevamo avere un punto di vista più obiettivo. Per
effettuare il nostro lavoro, che sarebbe poi stato soltanto uno spunto per la psicologa
(anche se a noi appariva un compito di elevatissima importanza!) abbiamo iniziato a
raccogliere informazioni sulla ragazza e ad osservarla quando, durante il suo tempo
libero, rimaneva in comunità con gli altri ospiti. Inoltre è stato per noi possibile
accedere alla cartella clinica della paziente così da annoverare preziose informazioni
sulla sua vita, che andavano ad integrare i racconti già riferiti dalla psicologa.
Maria, prima di giungere ad “ Antares “, aveva trascorso un periodo di tre anni presso
una comunità educativa ma, in seguito ad un deterioramento delle sue condizioni
psichiche, aveva subito alcuni ricoveri ospedalieri. La situazione familiare della ragazza
era alquanto controversa. Il rapporto con la madre era fortemente conflittuale: la
giovane era nata da gravidanza non desiderata e il padre, tossicodipendente, mancato
quando ella aveva tre anni, non si era mai occupato molto di lei. Così, ben presto, la
bambina fu affidata ai nonni materni, che la allevarono, fino a quando fu costretta a
tornare con la madre, la quale, nel frattempo, viveva con un nuovo compagno. Questi
era stato descritto come particolarmente incline all’alcool e, in seguito, alla rabbia, così
da determinare continui litigi con la madre di Maria che, dopo poco, decise di
abbandonare il nucleo familiare. La ragazza, in riferimento a quel periodo, raccontò di
aver provato sentimenti di paura e solitudine che la indussero a cercare, nuovamente, il
conforto dei nonni. Così il rapporto con la figura materna si fece sempre più ostile,
anche a causa delle profonde incomprensioni che quest’ultima aveva con i suoi genitori,
i quali, a sua detta, non le lasciavano vedere o sentire i figli anche solo telefonicamente.
Comunque, appena le fu possibile, si recò presso Maria e suo fratello ( che si era
trasferito dai nonni con lei ) e la riportò con sé, creando un terzo nucleo familiare
insieme al suo attuale compagno. Anche in questo periodo, però, il clima in casa fu
piuttosto teso e, così, si amplificarono i litigi fra madre e figlia. In particolare, la ragazza
ritenne di non ricevere sufficienti attenzioni che, invece, venivano rivolte al compagno.
Di contro, ella tendeva a non rispettare gli orari e, frequentemente, a saltare le lezioni
scolastiche, mostrando uno scarso impegno e, perciò, risultati insoddisfacenti. Un
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giorno la lite fu più accesa rispetto alle altre: Maria si mostrò particolarmente
provocatoria e verbalmente aggressiva nei confronti della figura materna, tanto da
decidere di andarsene e rivolgersi ad un istituto di suore che conosceva poiché vi
trascorreva alcuni pomeriggi per svolgere i compiti. La ragazza si rifiutò di tornare dalla
madre, costringendo il Tribunale dei Minori ad affidarla ai servizi sociali per un
collocamento maggiormente idoneo. Ecco che venne inserita in un Istituto educativo-
assistenziale per minori, in cui, inizialmente, Maria assunse comportamenti adattativi
rispetto alla situazione. In seguito, però, ella cominciò a non seguire correttamente le
regole e a presentare uno scarso controllo della rabbia, agitazione psicomotoria,
oppositività, a cui i tentativi verbali di contenimento avevano avuto scarso successo.
Ella si mostrava estremamente rabbiosa e minacciosa anche nei confronti della suora
che rappresentava il punto di riferimento principale presso l’Istituto, e la figura di
accudimento fondamentale a cui la giovane aveva più volte chiesto di diventare la
propria madre. Successivamente la ragazza trascorse le vacanze estive presso i propri
nonni; in tale occasione presentò dei fenomeni dispercettivi: infatti riferiva di vedere,
all’interno della stanza in cui si trovava, delle persone con le quali dialogava fino a
quando esse non scomparivano dopo l’arrivo di qualcun’altro. Quando Maria ritornò in
Istituto, le fu prescritta una terapia che, però, determinò il suo peggioramento clinico
tanto da dover essere ricoverata in un centro psichiatrico. Inoltre iniziò anche a
presentare un disturbo alimentare accompagnato da continue aggressioni verbali sia nei
confronti del medico che del personale infermieristico. Durante il ricovero le fu
diagnosticato un disturbo borderline di personalità. La sintomatologia che la
caratterizzava consisteva in episodi di ansia, agitazione, verbalizzazione di sentimenti
depressivi, episodi di pianto e idee di morte. Ella, più volte, diede luogo ad agiti
impulsivi a fine suicidario, quali, ad esempio, tentativi di defenestrazione, che però si
verificavano sempre in presenza di terzi. A questi episodi si aggiungevano anche altri
comportamenti autodistruttivi che consistevano nel procurarsi ferite con posate ( che
venivano sottratte nonostante gli assidui controlli ) o nell’indursi il vomito dopo i pasti.
In modo particolare, tali situazioni si verificarono con frequenza maggiore quando fu
comunicato alla ragazza che non sarebbe più rientrata presso l’Istituto di suore. Ella
iniziò a manifestare un’angoscia di stampo abbandonico non facilmente contenibile e il
suo umore cominciò ad oscillare continuamente. Per opporsi a questo tipo di
circostanze, comunque, risultarono alquanto efficaci delle forme di contenimento
verbale e relazionale. Maria, inoltre, era propensa ad instaurare legami con gli altri
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