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1 INTRODUZIONE
1.1 Le strategie di drug discovery
Quando si parla di drug discovery si intende un processo complesso frutto dalla
sinergia di tre branche che hanno subito una importante evoluzione a partire dagli
anni ’90: chimica, biologia molecolare e automazione.
La chimica ha introdotto metodi innovativi di produzione di nuove classi di
composti organici, e tra questi l’approccio combinatoriale è sicuramente quello di
maggior interesse. Il risultato è stata l’incrementata capacità di esplorazione del
cosiddetto “chemistry space”, che descrive la relazione multidimensionale tra
struttura molecolare e attività biologica dei composti. Inoltre sono stati introdotti
nuovi strumenti cognitivi nell’ambito della chimica strutturale come gli studi in
silico di docking molecolare, la mappatura dei siti di binding via NMR (SAR-by-
NMR) e gli studi di homology-modeling, che consentono un rational design nel
processo di sintesi di potenziali farmaci.
Dall’altra parte la biologia molecolare e le derivanti genomica e proteomica hanno
consentito l’identificazione di nuovi importanti target biologici e la conseguente
espressione di tali target in sistemi cellulari al fine di operare nuovi saggi in vitro.
Di supporto a queste due grandi branche è stata ed è tutt’ora l’automazione. In
particolare i progressi nell’ambito della miniaturizzazione, della velocità e
nell’accuratezza di esecuzione hanno consentito la nascita delle tecniche high-
throughput e ultrahigh-throughput.
L’impatto di questo rapporto multidisciplinare ha incrementato notevolmente la
capacità di creare composti farmacologicamente interessanti.
Ciò ha comportato l’instaurarsi di una qual certa asimmetria di sviluppo, poiché
mentre da un lato la progettazione (Drug design) e la sintesi di potenziali farmaci
è abbastanza rapida, meno diretto e immediato è il passaggio seguente volto
all’identificazione degli Hit compound da convertire in Lead compound (Lead
identification) e da ottimizzare (Lead optimization).
Praticamente tutto ciò si traduce in un esteso sforzo analitico volto a identificare
quale tra gli n composti sintetizzati attivi in vitro possiedono le caratteristiche di un
buon farmaco, al fine di incrementare la probabilità che questo abbia successo
nella successiva fase clinica sino ad arrivare poi alla sua commercializzazione.
Le caratteristiche che un composto deve possedere per essere un buon drug
candidate sono riconducibili a queste cinque principali:
Efficacia: La capacità del composto di produrre l’effetto farmacologico
desiderato (intendendo sia la quantità di composto necessaria per ottenere
l’effetto, sia la portata della risposta).
Biodisponibilità: La percentuale della dose somministrata che effettivamente
entra nella circolazione sistemica ed è in grado di distribuirsi in tutto l’organismo.
Tale parametro sottintende alla capacità del composto somministrato di penetrare
nel sito di somministrazione rendendosi così disponibile al raggiungimento del
target.
Persistenza: La capacità del composto di risiedere presso il sito di legame col
target per un tempo sufficiente a generare un effetto farmacologico rilevante. Tale
caratteristica trova traduzione nell’Emivita del composto nel plasma.
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Sicurezza: Una selettività per il recettore tale da consentire la somministrazione
del farmaco secondo un dosaggio che determini il massimo effetto farmacologico
con il minimo rischio di effetti collaterali.
La sicurezza di un composto è generalmente indicata dal suo Indice terapeutico.
Fattibilità. Include l’insieme delle proprietà chimiche e farmaceutiche (solubilità,
stabilità chimica, stato fisico, etc) che rendono il composto di facile sintesi,
formulazione e somministrazione.
Ognuna di queste caratteristiche è auspicabile che sia posseduta da un Lead
compound, potenziale farmaco di successo clinico. Ovviamente non è possibile
che ciascuna di queste sia pienamente soddisfatta ma è possibile condurre
l’ottimizzazione di ciascuno di questi parametri parallelamente, tramite l’adozione
di tecniche analitiche in vivo e in vitro.
La profusione di tanti sforzi nella direzione della Lead optimization trova
fondamento nella constatazione delle principali cause di fallimento di un farmaco
nel suo percorso che va dal suo sviluppo alla sua commercializzazione (Figura 1)
Figura 1: Cause di insuccesso durante lo sviluppo di un farmaco
Le ragioni di insuccesso principali sono in sostanza problemi legati alla tossicità,
l’insorgere di effetti collaterali, l’assenza di efficacia nell’uomo e da ultima, ma non
per importanza, questioni legate ad un profilo farmacocinetico non adeguato. Le
ultime due in particolare sono fortemente correlate poiché la mancanza di efficacia
può essere dovuta sia a problemi che insorgono nello scaling animale-uomo, sia
ad una bassa disponibilità del farmaco presso il sito d’azione a causa di
problematiche legate ai processi di Assorbimento, Distribuzione, Metabolismo ed
Escrezione (ADME).
La grande difficoltà nello scoprire e commercializzare nuovi farmaci sta
soprattutto nel tentativo di sondare spazi farmacologici poco esplorati o inediti,
ovvero nell’individuare farmaci che agiscano su nuovi target coinvolti in malattie
già note o farmaci per la cura di patologie non ancora curabili[1-3].
Il vantaggio economico nel proporre un prodotto inedito sul mercato è quindi
accompagnato dall’handicap di poter predire solo parzialmente l’esito dello
scale-up animale-uomo (per via dell’imprevedibile mancanza di efficacia
e dell’insorgere di effetti tossici) malgrado il successo del potenziale farmaco in
pre-clinica.
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L’analisi di un Lead compound in fase preclinica è però imprescindibile soprattutto
perché la sua farmacocinetica e potenziale tossicità sono fenomeni troppo
complessi per poter essere altrimenti previsti (ad esempio con tecniche in silico).
Le proprietà farmacocinetiche di un farmaco risiedono nel cosiddetto ADME
(Assorbimento, Distribuzione, Metabolismo ed Escrezione), che per essere
studiato in modo esaustivo necessita quindi dell’analisi accurata di tutti e quattro i
processi che lo caratterizzano sia presi singolarmente sia in funzione
dell’interdipendenza gli uni dagli altri. Ciò nel complesso consente di classificare i
farmaci come assolutamente fallimentari, mediamente adatti e probabilmente
buoni. I primi vengono chiaramente eliminati mentre ad essere portati avanti sono
in genere solo gli ultimi.
L’analisi pre-clinica di per se ha quindi il principale scopo di ridurre al minimo la
probabilità di perdere il capitale investito nella sperimentazione clinica del farmaco,
dato che sono proprio i trials clinici ad assorbire più energie sia in termini di tempo
che di investimento.
Negli ultimi anni si è infatti registrato un incremento sensibile nei costi dei trials
clinici dovuto principalmente alla necessità di un maggior grado di sicurezza prima
della commercializzazione. Ciò ha portato quindi ad un incremento nel numero di
test, nelle dimensioni del campione di popolazione in analisi e in generale ad un
aumento dei costi dell’intero processo di ricerca e sviluppo, costi per questo
sostenibili soprattutto dalle grandi aziende farmaceutiche.
L’effetto si è riversato a cascata anche sulla durata dei test pre-clinici, che sono
stati estesi proprio in via preventiva per ridurre la probabilità di insuccesso del
farmaco nella fase successiva, il che avrebbe effetti profondamente negativi sui
bilanci delle aziende produttrici.
Una tale dilatazione nel processo di ricerca e sviluppo persegue sicuramente lo
scopo di un maggior controllo sul farmaco, ma non comporta necessariamente un
incremento nel numero di composti che effettivamente raggiungono il mercato
e trovano poi l’approvazione della FDA.
Figura 2: Confronto tra l’andamento degli investimenti R&D e l’approvazione di NMEs
(John H. Van Drie Drug Discovery World, Fall 2007)
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Malgrado si sia verificato questo massiccio incremento nel numero di composti da
testare e malgrado lo sviluppo delle tecniche High Throughput, permane ancora un
collo di bottiglia non indifferente nella fase analitica, il che da un lato conduce alla
necessità di velocizzare e integrare i processi di screening e dall’altro apre la
strada ad una fase di valutazione preventiva posta a monte dello screening in vitro
che è lo studio in silico.
Gli screening in silico non intervengono solo in fase di progettazione della sintesi
(Drug design) ma sembrano avere potenziali applicazioni nei processi di ADME
screening in qualità di filtri e modelli predittivi.
I filtri sono generalmente un insieme di regole. Lo sono ad esempio la
presenza di particolari motivi strutturali con nota tossicità o condizioni che
riguardano la biodisponibilità come quelle proposte dalla Regola di Lipinsky [4]
(che suggerisce che un composto avrà bassa permeabilità alle membrane se
possiede più di 5 donatori di legami idrogeno, più di 10 accettori di legami
idrogeno, MW>500Da e logP>5).
Molto più elaborati sono invece i modelli, relazioni matematiche complesse
che consentono la correlazione inter-parametrica ed in ultima analisi la previsione
delle risposte nel processo di scale-up in vitro > in vivo e dall’animale all’uomo.
Tuttavia lo studio in silico si configura come una scienza ancora acerba e
soprattutto incapace di considerare in modo esaustivo il pool di variabili in gioco.
Vi sono infatti alcuni parametri e taluni processi come l’assorbimento
passivo o la solubilità di un composto a livello intestinale che possono essere
modellizzati e previsti a partire dai dati di strutturistica, ma ben diverso è il discorso
per processi quali ad esempio il metabolismo del composto, i trasporti attraverso le
membrane (ad esempio trasporto attivo via P-gP) e le barriere biologiche, nonché
il livello di legame alle proteine plasmatiche e tissutali.
È per tali ragioni che l’analisi dei parametri farmacocinetici in vivo e la correlazione
con i parametri ADME, attualmente si configura come la strategia vincente da
intraprendere al fine di caratterizzare in modo completo un drug candidate [5].
1.2 Formulazione e somministrazione in vivo
L’attività di un farmaco dipende dalla sequenza di eventi chimico-fisici che
intercorrono tra il momento in cui questo penetra nell’organismo e il
raggiungimento del target con conseguente generazione di una risposta biologica.
La somministrazione è quindi il primo passo nell’ottimizzazione di questo percorso.
La scelta della via di somministrazione deve tenere conto di numerosi fattori. Primo
tra tutti le caratteristiche chimico-fisiche del composto, per proseguire poi con la
strategia terapeutica da utilizzarsi (effetti locali o sistemici), la durata e la rapidità
con cui si vuole insorga l’effetto, la durata della terapia nonché l’impatto
psicologico. Nel nostro caso ci soffermeremo sulla via parenterale endovenosa e
sulla via enterale orale.
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1.2.1 La via parenterale endovenosa
Per vie parenterali si intendono tutte le vie di somministrazione non enterale, tra
cui riconosciamo l’iniezione endovena (iv) attraverso cui i farmaci entrano
direttamente nel torrente circolatorio, e altre vie (iniezione intramuscolare,
sottocutanea, introduzione transdermica, inalazione, etc..).
Tra queste ci focalizzeremo sulla prima, l’iniezione endovenosa.
Attraverso questa via il farmaco viene iniettato direttamente nel torrente circolatorio
(generalmente a livello venoso e non arterioso) attraverso cui viene distribuito sino
a raggiungere il sito d’azione.
La somministrazione può avvenire in un unico bolo o per infusione continua
(fleboclisi). Tramite iniezione è possibile superare le barriere naturali
dell’organismo che rallentano l’assorbimento, permettendo il raggiungimento
pressoché istantaneo della concentrazione ematica necessaria all’ottenimento
dell’effetto.
L’iniezione è quindi adoperata per ottenere una risposta immediata, ma soprattutto
per la somministrazione di sostanze male assorbite attraverso altre vie (ad
esempio dotate di scarsa biodisponibilità orale) o irritanti se somministrate per
via intramuscolare o sottocutanea.
Lo studio di un potenziale farmaco somministrato è molto importante per
confermare l’efficacia del composto sul target, verificare l’insorgere di eventuali
effetti tossicologici e ai fini dell’estrapolazione dei principali parametri
farmacocinetici.
1.2.2 Via enterale o orale
Quella enterale o orale è la via di somministrazione più comune per via della sua
praticità e semplicità. A tali vantaggi si affiancano però delle complicazioni legate
al passaggio del farmaco dal tratto gastroenterico al sangue.
L’efficienza con cui un farmaco riesce a raggiungere il torrente circolatorio è
dipendente tanto da caratteristiche chimico-fisiche (solubilità, stato di ionizzazione,
lipofilicità) che biochimiche (assorbimento e metabolismo), tutte caratteristiche che
possono essere sondate in fase di screening pre-clinico.
Figura 3: Schema dei processi di assorbimento, distribuzione e metabolismo