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INTRODUZIONE
Straniero è colui il quale non appartiene al luogo in cui si trova.
La stessa etimologia della parola straniero, che deriva dall’antico francese
estrangier, da estrange - “estraneo”1, indica colui che è alieno rispetto ad una
data realtà territoriale e giuridica.
Prima facie una sola, semplice parola; in sostanza, invece, così tanto densa di
significato da essere evocativa di problematiche e riflessioni, da trovare omologhi
e sinonimi ad ogni latitudine. Straniero, foreign, étranger, extranjero, gaijin, tutti
modi diversi per sottolineare un unico concetto: qualcuno o qualcosa di diverso,
di altro rispetto a noi.
Chi affronta questo tema sa di confrontarsi con un argomento articolato, allo
stesso tempo complesso e complicato, un tema che oggigiorno assume
caratteristiche del tutto peculiari. Occorre, però, evitare di cadere nell’errore di
ritenerle novità assolute per la società e per il diritto.
Basta confrontarsi con lo studio dei padri del diritto moderno occidentale per
accorgersi come già i latini (si pensi all’istituto dello hospitium2) e ancor prima gli
antichi greci (con gli omologhi asylia3), avessero sentito l’esigenza, rectius,
avessero compreso la necessità di prendere contezza della quaestio e di
approntarne un’adeguata disciplina. Non a caso ogni studente di diritto conosce il
brocardo latino ubi socìetas ibi ius; poiché le comunità di uomini, parafrasando un
importante ed ormai scomparso medico4 e scrittore di fama internazionale, sono
sistemi complessi che proliferano sul margine del caos e dunque in perenne
sopravvivenza a se stesse, tra l’istinto di autoconservazione e l’esigenza di
mutamento rispetto al nuovo. E gli stranieri rappresentano sempre un qualcosa di
nuovo per la società in cui giungono, un quid pluris per usare un latinismo. Ecco
perchè il diritto, che è il massimo fenomeno sociale pur non appiattendosi sul dato
sociale5, poiché è allo stesso tempo ordo ordinans ed ordo ordinatus, non può che
provare a regolare le relazioni e le conflittualità che vengono a generarsi laddove
questo quid si configura.
1
Cfr. Zingarelli, Vocabolario della lingua italiana, 2005.
2
Cfr. A. Maffi, in Enciclopedia giuridica,Roma, 1992, 1140.
3
Cfr. Ibidem.
4
Cfr. M. Crichton, The lost world , Milano, 1996, 12.
5
Cfr. A. Catania, Filosofia del diritto. Temi e problemi, Napoli, 2000.
6
Un primo naturale approccio sorge come spontaneo riconoscimento bilaterale tra
comunità, ineludibile per favorire gli scambi commerciali. Ma, fin da subito, il
“reciproco controllo”6 addivenne a qualcosa di diverso e ulteriore, ad estensione
ed applicazione di istituti giuridici comuni.
Il concetto di straniero si è poi legato nella storia a quello della mancanza. La
mancanza di una qualità non certo personale, piuttosto la mancanza di
appartenenza ad una comunità prima, ad uno stato e ad una nazione poi.
Ponendosi dunque sempre e comunque come antagonista necessario rispetto al
concetto, giuridico prima che culturale, di cittadino; inscindibilmente connesso
alla tematica dello status della cittadinanza, a sua volta ritenuto geneticamente
ascrivibile alla idea di Nazione così come formatasi nel XIX secolo.
“Eppure l’idea di godere dei diritti per il solo fatto di esistere è una vecchia e
nobile idea”7, era un’utopia già cara ai rivoluzionari inglesi come Oliver
Cromwell nella sua idea di lyberty and property del 1647; piuttosto che essere già
presente nel progetto di costituzione di Marie Jean Nicolas Caritat De Condorcet
del 1793. Pensatori e giuristi già moderni, ma ancora legati ad una concezione
ristretta di territorialità. Infatti quando la “Nazione” figlia della rivoluzione
romantica si assise agli scranni dei legislatori, i “diritti politici” non vennero più
concepiti come attributi della personalità umana in quanto tale, del cittadino inteso
come colui che vive in un dato territorio e che si interessa alle sorti di questo. Il
cittadino divenne un prototipo di genere, chiunque fosse sussumibile in uno
stereotipo individuato per razza, cultura, discendenza. Lo straniero
conseguenzialmente divenne “ciò o chi è di altra nazione”8.
Ma la colonizzazione prima e la decolonizzazione poi, hanno messo in crisi le
divisioni nazionali, evidenziando la possibilità e la necessità di individuare uno
“statuto” dello straniero, di ipotizzare uno standard minimo internazionale ispirato
al “principio dell’assimilazione e dell’eguaglianza”9.
6
Cfr. A. Maffi,op. cit., 1143.
7
Cfr. R. Chiappa, A. Santosuosso, G. C. Turri, I tuoi diritti di straniero in Italia,Milano, 2004, 8.
8
Cfr. G. Miot, Dizionario breve della lingua italiana , Milano, 1970.
9
Cfr. B. Nascimbene , in Enc. dir., LIII, Milano, 1990, 113.
7
Oggi il solo fatto di esistere in quanto essere umano ridiventa insopprimibile
condizione di ogni individuo. In quest’epoca di migrazioni, oggi che sembriamo
tutti stranieri; oggi più che mai.
Il fenomeno del terzo millennio è la globalizzazione, degli uomini più che delle
idee e dei mezzi di comunicazione. La crisi mondiale di quest’ultimo biennio ha
dimostrato che la nostra società ha bisogno di una globalizzazione dei diritti
affinché il quadro d’insieme trovi una sua coerenza. Arrivati a questo punto
l’unica possibilità è, forse, ragionare in termini di cittadinanza universale.
Processo complesso e frammentato, anche strumentale a certo potere, ma che non
può prescindere da fondamentali esigenze umanitarie, sebbene non possa altresì
ignorarsi l’aspetto economico. Non si invoca qui una ricostruzione in termini
neogiusnaturalistici, ma la ricerca di un livellamento verso l’alto alla ricerca di un
denominatore comune fra i vari ordinamenti, poiché se è ben lungi il tempo della
negazione di ogni diritto allo straniero, questo è vero soltanto in parte del mondo
e neanche in tutti i paesi che pur si autodefiniscono “più industrializzati”. In
quest’ottica assume rilevanza assoluta la cooperazione internazionale, pensiamo
alla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (1987), al Patto internazionale
sui diritti civili (1966), alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo (1950), alla
Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (2009).
Queste e tutte le altre convenzioni, anche quelle con un carattere regionale meno
ampio, palesano la necessità di dare una dimensione diversa alla condizione
giuridica dello straniero. Non bastano però semplici dichiarazioni d’intento, ma
interventi fattivi e concreti.
Il passaggio obbligato per lo sviluppo della disciplina è quello di valutare, quanto
più asetticamente possibile, la dimensione attuale per poi intervenire in maniera
organica laddove possibile e necessario. Proprio la “necessarietà” dell’intervento è
la sola etica del presente lavoro, nella consapevolezza di affrontare una delle
tematiche maggiormente dense per lo studioso contemporaneo, con lapalissiane
implicazioni sociologiche, culturali, religiose, economiche. La disamina che
seguirà vuol provare ad essere una sorta di “laboratorio ermeneutico” , per usare
una definizione di Giustino D’Orazio10, tracciando quelli che sono i contorni di
10
Cfr. G. D’Orazio, Condizione dello straniero e “Società democratica”, Padova, 1994, 3.
8
massima della figura dello straniero nell’ordinamento italiano con l’ approccio
costituzionalistico imprescindibile in questa sedes materiae11. Con la
consapevolezza che nell’ordinamento vigente non può essere sottaciuta, anzi
andrebbe maggiormente invocata, la presenza del Legislatore comunitario se è
vero come è vero che oggi, per innumerevoli ed altrettanto rilevanti profili
giuridici, è ritenuto pacifico configurare un “sistema legislativo italo-
comunitario12” e non più “meramente” nazionale, tale presenza sarebbe ancor più
significativa e necessitata per una più efficace ed organica regolamentazione di
quelli che vengono considerati “flussi d’ingresso” proprio dalla disciplina
comunitaria. Vagliando, dunque, se e quali differenze esistano e sussistano tra le
diverse “ tipologie” di straniero; in particolare riguardo proprio a quella meno
garantita dello straniero che non appartiene al consesso europeo, quello
extracomunitario per l’appunto.
Si cercherà poi di individuare nella giurisprudenza di riferimento gli spunti più
interessanti ai fini del presente studio.
L’argomento di tesi sarà sviluppato nella convinzione che si debba procedere
sterilizzando qualsiasi deriva moral-sociologica che poco appartiene ad un
elaborato giuridico, centrando invece quello che gli anglosassoni definiscono core
business su ciò che credo debba essere ritenuto il fulcro di qualsiasi trattazione
sistematica della materia, ossia i fondamenti costituzionali nella loro lungimiranza
e l’aspetto, assai delicato e problematico, della regolamentazione
dell’immigrazione. Pur nella consapevolezza che un tema così complesso e
sfaccettato non possa essere esaurito in questa sede, si proverà a fornire
quantomeno alcuni spunti di riflessione.
11
Cfr. G. D’Orazio, Lo straniero nella costituzione italiana, Padova 1992. Possono inoltre vedersi
le voci Straniero ( condizione giuridica dello ) – diritto costituzionale e Straniero ( condizione
giuridica dello ) – Diritto internazionale,di B. Nascimbene, entrambe in Enciclopedia giuridica,
Roma XXX, 1993. Nonché si rinvia alla bibliografia del manuale T. Martines, Diritto
costituzionale, Milano, 2006.
12
Cfr. P. Perlingieri, Il diritto civile nella legalità costituzionale, Napoli, 2006, 133.
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CAPITOLO I
DEFINIZIONE E COLLOCAZIONE DELLA FIGURA DELLO
STRANIERO
1.1 DEFINIZIONE DI CITTADINO E “NON CITTADINO”
La cittadinanza è un argomento vasto e complesso che non soltanto attiene in
maniera trasversale a differenti rami del diritto (costituzionale ed internazionale in
primis, ma anche pubblico e privato), ma riflette anche la visione politica dello
Stato e del rapporto dei suoi governanti con il popolo. Popolo e non popolazione,
una preliminare differenziazione a carattere non meramente linguistico. Come fa
notare A. Sabato, “per popolazione si intende la somma degli individui che in un
dato momento storico vivono nel territorio dello Stato: essa perciò non comprende
i cittadini che vivono all’estero, ma abbraccia anche gli stranieri … che si trovino
in Italia. La nozione di popolo invece si fonda sul concetto di cittadinanza,
giacché comprende tutti gli individui cui è attribuitolo status civitatis di italiano, a
prescindere dal luogo in cui vivono”1.
Questo concetto vale ovviamente per le persone fisiche, dato che per le persone
giuridiche è più corretto parlare di nazionalità, si veda in riferimento la l. n. 218
del 31 maggio 1995, legge di Riforma del sistema italiano di diritto
internazionale privato.
Fatta questa piccola annotazione privatistica, occorre ricordare che in dottrina si è
lungamente dibattuto sulla stessa natura giuridica della cittadinanza, se dovesse
essere considerata quale status ovvero quale rapporto giuridico. “Lo status è una
situazione giuridica soggettiva che definisce la posizione di un soggetto di diritto
nei confronti di altri soggetti nell’ambito di una collettività organizzata”2. Lo
“status” gode dunque di autonoma tutela e, a sua volta, determina altre situazioni
giuridiche soggettive attive e passive specificatamente tutelate dell’ordinamento.
Non è dunque lo status una mera somma di diritti ed obblighi, ma una distinta
situazione giuridica soggettiva che gode di protezione giurisdizionale mediante
l’attribuzione di azioni giudiziarie volte ad accertarne l’esistenza o l’eventuale
violazione da parte di terzi.
1
Cfr. A Sabato, La cittadinanza italiana, in. coll. Progetto ente locale, 2001, 21.
2
Cfr. Ibidem.
10
Il nostro ordinamento riconosce e garantisce status di diritto privato (es. il socio di
una società o di un’associazione) e status di diritto pubblico (lo status civitatis e lo
status familiae).
Lo status civitatis, in particolare, individua la posizione del singolo nell’ambito
della collettività nazionale, certificandone l’appartenenza ad essa.
La cittadinanza viene attribuita agli individui che presentano un dato legame con
un gruppo sociale e si configura, quindi, come una situazione giuridica
riconosciuta a chi fa parte di uno Stato ed è titolare di diritti e obblighi. Essa,
perciò, non può essere considerata un rapporto giuridico ma uno status in senso
proprio, la cui natura pubblicistica non è attualmente contestata.
Estremo necessario ed indefettibile della cittadinanza è la soggezione permanente
della persona allo Stato ed alle sue leggi; mentre i diritti e gli obblighi ad essa
collegati, oggi considerati tipici, sono un fenomeno storicamente caratterizzato.
Furono i Romani ad approfondire per primi gli aspetti giuridici dello ius civitatis,
sollecitati dallo sviluppo sociale di Roma da semplice unione gentilizia ad impero.
Dobbiamo alla loro elaborazione giuridica la considerazione dello status di civis
non più come espressione della capacità giuridica, ma come causa modificatrice
della stessa nonché come condizione per il godimento dei diritti politici.
Lo status veniva enucleato come la speciale posizione giuridica che una persona
assumeva, per una necessità superiore al suo singolo interesse, rispetto ad una
comunità di persone organizzate in ordinamento giuridico; anche se il contenuto
dello status civitatis si sarebbe modificato in rapporto alla società romana e
all’elaborazione che ne avrebbero dato i giuristi.
Restava determinante l’importanza dell’acquisto dello status civitatis, perché solo
il civis poteva avere la piena capacità giuridica laddove lo straniero, anche se non
era equiparato ad uno schiavo, aveva soltanto una limitata capacità di agire.
Con l’espansione dei diritti romani ai “non romani”, infatti, venne individuata la
distinzione tra cives sine iure suffragii et honorum (titolari solo dei cosiddetti iura
privata) e cives optimo iure, ai quali venivano riconosciuti anche i diritti politici
(ius suffragii et honorum). Era solo il civis optimo iure, dunque, che partecipava
attivamente alla vita politica.