PREMESSA
Gli autori di reato e il crimine in tutte le sue forme riescono a convogliare su di sé
l’attenzione comune, veicolata principalmente dai mass media che ne parlano in modo
costante, sia attraverso i fatti reali di cronaca sia tramite la finzione dei programmi
televisivi e dei romanzi.
Sembra quasi inevitabile che tale argomento desti sempre un certo interesse, suscitando
la curiosità della gente. A mio avviso questo è già un elemento degno di indagine e, in
tal senso, ho trovato particolarmente interessanti alcune affermazioni di Robert Simon
nel suo libro “I buoni lo sognano, i cattivi lo fanno. Psicopatici, stupratori, serial
killer”(1997), in cui egli presenta le sue tesi sottolineando come l’essere umano sia
inevitabilmente caratterizzato da una parte oscura che lo spaventa e che al contempo lo
affascina.
Secondo il mio parere, il titolo del suo lavoro esplica chiaramente il pensiero di fondo
dell’autore, riportando una concezione che era già stata proposta da Platone nella
“Repubblica” ( 368-365 a.C. in Zara, 2005 ) in cui egli manifesta lo stesso punto di
vista, dicendo che “la differenza fra i buoni e i cattivi è data dal fatto che i primi
sognano la notte quello che i cattivi fanno di giorno”. Non c’è una demarcazione netta
fra la vita mentale di un criminale e quella di una persona comune e non si tratta di due
tipologie differenti poiché nessuno è totalmente buono né totalmente cattivo.
Simon ( 1997 ) sostiene che, in alcune circostanze, chiunque, spinto da profondi impulsi
distruttivi, può assumere comportamenti violenti e lesivi verso chi lo circonda. Si tratta
di momenti in cui inevitabilmente ci si confronta con il proprio lato oscuro e con i
pensieri aggressivi che possono attraversare la mente di ciascuno.
Anche Sigmund Freud si è focalizzato a lungo su questo aspetto. In “Il disagio della
civiltà” ( 1929 ) egli affronta proprio l’argomento, sostenendo come le pulsioni
aggressive dominino l’uomo, inducendolo ad agiti considerati immorali quali l’incesto e
l’omicidio. Egli scrive che l’essere umano identifica nel proprio prossimo un oggetto
non soltanto sessuale ( quindi meta della pulsione libidica ) ma “…un oggetto su cui
può magari sfogare la propria aggressività, sfruttarne la forza lavoratrice senza
ricompensarlo, abusarne sessualmente senza il suo consenso, sostituirsi a lui nel
possesso dei suoi beni, umiliarlo, farlo soffrire, torturarlo e ucciderlo”. Quindi, dalle
parole di Freud, emerge come egli ritenga ci sia un’ostilità di fondo fra gli uomini,
ragion per cui la civiltà cerca di imporre dei limiti ai loro desideri e alle loro esigenze.
L’uomo è così costretto ad inibire le proprie pulsioni o a dirigerle verso mete che siano
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moralmente accettabili. La società, perciò, ha lo scopo di contenere una forza
individuale e governata dal principio di piacere, in modo da convogliarla in prestazioni
sublimate che siano socialmente più utili ed accettabili. Essa esercita un’influenza che,
integrandosi con quella derivante dai genitori e dalla confessione religiosa, contribuisce
a determinare la coscienza morale, il Super-Io. Secondo Freud, però, tutto ciò provoca
all’uomo un’inevitabile sofferenza poiché egli è costretto a reprimere le passioni e gli
istinti che caratterizzano la sua vera natura.
Simon, nel suo libro, riprende questo concetto affermando che il lato oscuro è anche il
frutto della nostra eredità evolutiva, dal momento che è proprio l’aggressività quella
componente del nostro repertorio comportamentale che in gran parte ha assicurato la
sopravvivenza della nostra specie.
A questo riguardo, ritengo sia pertinente richiamare il pensiero di Erich Fromm che, in
“Anatomia della distruttività umana” ( 1975 ), sottolinea come si debbano distinguere
sostanzialmente due forme di aggressività. La prima è un impulso programmato
filogeneticamente, che ci spinge ad attaccare o a fuggire qualora sia minacciata la nostra
incolumità fisica: si tratta di una reazione difensiva e biologicamente adattativa che si
ritrova anche nella specie animale. La seconda forma di aggressività, invece, è
rappresentata dalla crudeltà specifica del genere umano, una crudeltà senza scopo e
senza fine adattativo.
Come sottolinea lo stesso Simon ( 1997 ), nonostante ci siano persone che riescono a
tenere a freno tale crudeltà, reprimendo il proprio lato oscuro, quest’ultimo rimane
sempre presente anche se celato.
A mio avviso, tutto ciò mette in risalto in modo originale come ciascun essere umano
potenzialmente sia in grado di agire qualsiasi comportamento, sia buono che malvagio.
D’altra parte è indubbio che alcuni individui finiscano per dar sfogo concretamente ai
loro impulsi aggressivi mentre altri si astengano completamente dal farlo.
È proprio questo tipo di constatazioni, oltre all’esigenza di voler approfondire un tema
sostanzialmente a me sconosciuto, che mi ha spinto a cercare delle delucidazioni in
merito al comportamento criminale e a chi lo mette in atto.
Nel tentare di sviluppare un’idea chiara riguardo il profilo psicologico del soggetto
autore di reato, innanzitutto intendo rivolgere l’attenzione alla psicologia investigativa,
in particolar modo alla tecnica dell’offender profiling. Essa rappresenta uno strumento
prezioso per interpretare il crimine e il suo autore, offrendo un contributo importante
qualora quest’ultimo sia ignoto e risulti necessaria una sua identificazione.
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D’altra parte concentrarsi soltanto sulla figura criminale non risulta sufficiente: il fatto
criminoso coinvolge anche un’altra persona, la vittima.
Per tale ragione, ritengo appaia interessante focalizzare l’attenzione anche su di lei,
cercando di coglierne tutte quelle caratteristiche che possono influire sul verificarsi
dell’evento, oltre a prendere in considerazione il particolare rapporto che,
inevitabilmente, la lega al suo aggressore.
Trattare della vittima e dell’interrazione che si instaura con l’autore del reato mette in
evidenza come lo studio del fenomeno criminale e la sua comprensione necessitino di
ulteriori indagini rivolte alla parte lesa, con riferimento agli strumenti di cui lo
psicologo può disporre nell’effettuarle.
Inoltre, accanto ad un’interpretazione psicologica del comportamento delinquenziale,
vorrei anche riuscire a chiarirmi le idee in merito ai programmi di intervento di cui si
dispone per poter cambiare le sorti di chi decide di intraprendere questo tipo di
condotta. A tal fine intendo concludere la mia trattazione riportando alcune modalità di
trattamento e le loro caratteristiche.
Lo scopo principale che muove questo lavoro è proprio quello di capire più
adeguatamente possibile una dinamica tanto complessa come quella delittuosa, i modi
in cui si esplica e quelli in cui si può tentare di risolverla.
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Capitolo I
L’origine del comportamento criminale: una comprensione psicologica.
Il comportamento criminale è un oggetto di studio estremamente complesso, infatti si
tratta di un fenomeno in cui sono implicate molteplici variabili che mutano in base alla
situazione e agli individui coinvolti e che possono essere interpretate in modo differente
a seconda della prospettiva assunta dall’osservatore.
Prima di inoltrarsi in una trattazione di tutti questi aspetti, ritengo sia opportuno fare
una premessa su cosa si intenda effettivamente con il concetto di crimine.
Gemma Marotta ( 2004 ) specifica che esso può venir considerato la forma più grave di
atto deviante di cui un individuo può divenire responsabile.
Anche De Leo e Patrizi ( 2006 ) offrono una loro definizione che intende il reato come
un comportamento antigiuridico considerato tale perché viola il codice penale di un
Paese e, dunque, diventa suscettibile di pena.
D’altra parte il crimine non è necessariamente un fatto assoluto poiché dipende dal
particolare contesto culturale in cui ha luogo: infatti è strettamente connesso al sistema
legislativo che, se non rispettato, determina la condanna dell’agito a cui attribuisce
carattere delinquenziale. Per tale ragione, il reato è del tutto indipendente dalla
valutazione etica che può suscitare. ( Zara, 2005 ).
Tendenzialmente l’individuo criminale non ha alcun interesse per le leggi che infrange:
egli convoglia la sua attenzione verso l’obbiettivo che vuole raggiungere attraverso la
violazione che mette in atto.
In tal senso, come riporta Cohen ( 1976 ), è interessante la distinzione proposta da
Robert K. Merton: egli ritiene che i comportamenti criminali rientrino nella categoria
dei cosiddetti comportamenti aberranti, accanto ai quali si pongono i comportamenti
non- conformisti. Nel primo caso, appunto, l’autore di reato non ha alcuna intenzione di
modificare una certa norma per mezzo del proprio agito; nella seconda categoria,
invece, si collocano proprio coloro che si oppongono ad un qualche dettame, nel
tentativo di modificarlo, dal momento che non lo reputano adeguato da un punto di
vista morale. Ne consegue che, mentre l’aberrante ha un fine principalmente personale
per cui cerca di nascondere la propria violazione, il non-conformista va nella direzione
opposta: egli infatti, spinto da un desiderio disinteressato di riforma, vuole focalizzare
l’attenzione di chi lo circonda su quelle norme che ritiene inadeguate.
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