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Capitolo I
IL RAPPORTO TRA I DUE PROCESSI
(TRIBUTARIO – PENALE): CENNI STORICI
1.1 Il concetto di pregiudiziale tributaria
Lo studio del rapporto tra processo penale e processo tributario
non può non prendere le mosse dalla legge che, per la prima volta, nel
nostro ordinamento giuridico, affrontò il problema e ne propose una
soluzione normativa, individuando elementi di specialità rispetto alla
disciplina generale che regolava i rapporti tra processo penale e ogni
altro tipo di processo.
Il primo e fondamentale riferimento va fatto dunque all’art.211
della legge 7 gennaio 1929, n. 4 – “Norme generali per la repressione
delle violazioni delle leggi finanziarie”- il quale prevedeva, per le
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L’art. 21 della Legge 7 gennaio 1929, n. 4 così dispone: “ La cognizione dei reati preveduti dalle
leggi finanziarie spetta:
1) al pretore quando si tratti di reati per i quali è stabilita la sola pena della multa o
dell’ammenda;
2) al tribunale in ogni altro caso.
La competenza per territorio è determinata dal luogo dove il reato è accertato.
Per i reati previsti dalle legge sui tributi diretti l’azione penale ha corso dopo che l’accertamento
dell’imposta e della relativa sovraimposta è divenuto definitivo a norma delle leggi regolanti tale
materia”.
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controversie concernenti i tributi diretti, che l’azione penale potesse
avere corso solo dopo che l’accertamento dell’imposta e della relativa
sovraimposta fosse divenuto definitivo a norma delle leggi regolanti
tale materia.
Veniva così introdotto il concetto di “pregiudiziale tributaria”:
il Pubblico Ministero prima di esercitare l’azione penale, doveva
attendere la conclusione del procedimento amministrativo di
accertamento e dell’eventuale processo tributario, ma soprattutto, alle
risultanze di quest’ultimo doveva attenersi il giudice penale
nell’emettere il proprio verdetto.
Il legislatore, avendo subordinato e vincolato il procedimento
penale alla definitività del contenuto dell’avviso di accertamento e al
giudicato formatosi nell’ambito del processo tributario, aveva
assicurato l’unità, la certezza e la coerenza dell’accertamento
giurisdizionale in campo tributario; si impediva ab origine il formarsi
di conflitti di giudicati su un medesimo fatto: l’avvenuta evasione
dell’imposta. Al giudice penale era poi inibito rimettere in discussione
il “fatto” già accertato poiché, delineata l’evasione in tutti i suoi
elementi di fatto in ambito amministrativo, il giudizio penale
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consisteva nella verifica della sussistenza dell’elemento soggettivo e
nella quantificazione della pena.
La pregiudiziale tributaria rispondeva peraltro all’esigenza di
sottrarre alla cognizione del giudice penale casi a contenuto
estimativo2. Essendo il diritto tributario caratterizzato da una estrema
complessità, da concetti economici ed aziendalistici tradizionalmente
estranei alla preparazione degli operatori giuridici ordinari, il
Legislatore ritenne non opportuno sottoporre tale particolare settore
alla cognizione del giudice ordinario; quest’ultimo non era ritenuto
capace di offrire sicure garanzie tecniche in relazione alle stime e
all’interpretazione di complesse disposizioni3.
Costringere il procedimento penale ad attendere la conclusione
di quello tributario non è stato quindi l’escamotage per svuotare di
contenuto la comminatoria di sanzioni penali né per assicurare, di
fatto, l’impunità agli autori dei più gravi illeciti tributari, ma la
risposta, per decenni condivisa, al problema di sollevare il giudice
2
CONDELLO D., Rapporto tra procedimento penale e processo tributario: problematiche
sull’efficacia probatoria della sentenza penale nel processo tributario alla luce dell’art. 25 del
D.Lgs. n. 74/2000, in Il nuovo diritto, 2008, fasc. 5-7, p. 323.
3
POLLARI N., Rapporti tra processo penale e amministrativo nel diritto tributario, in Rivista della
Guardia di Finanza, 5, 2001, p.2021 : “Il giudice penale proprio perché non specializzato non
avrebbe mai potuto offrire le stesse garanzie tecniche, in tema di interpretazione di norme
particolari e di stime, offerte dal giudice amministrativo tributario”.
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penale da oneri impropri, quali ad esempio quantificare il reddito o
l’imposta evasa4.
Il sistema della pregiudiziale tributaria nascondeva però degli
inconvenienti di non poco conto: subordinare il procedimento penale
alla definitività dell’accertamento del tributo, significava anche
comminare la sanzione penale al termine di un lunghissimo
procedimento amministrativo. Oltre alle insite disfunzioni degli uffici
bisogna considerare il fatto che il “vecchio” processo tributario, come
disciplinato dal D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 636, prevedeva ben tre
gradi di giudizio di merito (oltre al primo e al secondo grado era
previsto anche un terzo grado, alternativamente esperibile in
Commissione tributaria centrale o presso la Corte di Appello), nonché
il consueto grado di legittimità5. Peraltro, prima della riforma di cui
alla Legge delega 9 ottobre 1971, n. 825, la situazione era ancora più
complessa, giacchè, da un lato, la soluzione delle controversie in
materia di imposte dirette e di imposte indirette sugli affari era
devoluta a Commissioni amministrative tributarie (Regio Decreto 8
luglio 1937, n. 1516), distinte per gradi in Commissioni distrettuali,
Commissioni provinciali e una Commissione centrale; dall’altro,
4
CORSO P., I rapporti tra i procedimenti penale e tributario, in Corriere Tributario, 47, 2001, p.
3554
5
POLLARI N., Rapporti tra processo penale e amministrativo nel diritto tributario, op. cit., in nota
3.
5
rimaneva ferma la possibilità per il contribuente di esperire, in ordine
alle questioni di diritto, una volta esaurito il procedimento contenzioso
amministrativo, l’azione giudiziaria davanti agli Organi della
giurisdizione ordinaria ( sicchè, in definitiva, i gradi di giurisdizione
finivano con l’essere addirittura sei).
Con l’entrata in vigore della riforma tributaria degli anni 1971-
1973, il meccanismo della pregiudiziale era stato esteso anche al
campo IVA (art. 58, comma 6, D.P.R. 26 ottobre 1972, n.633), con la
conseguenza che spesso la possibilità di applicare sanzioni penali per
reati penali veniva rinviata sine die a causa delle lungaggini legate allo
svolgimento del contenzioso tributario6.
Tale circostanza, in un’epoca in cui si andava consolidando la
lotta all’evasione fiscale, fece sorgere un acceso dibattito
sull’opportunità di mantenere in vita una norma che appariva di
ostacolo alla lotta contro le frodi tributarie.
1.2 L’orientamento della Corte Costituzionale in relazione all’art.21
della legge 7 gennaio 1929, n. 4
Il sistema della pregiudiziale tributaria cominciava ad essere
oggetto di numerose critiche, ma nei primi anni ’70 la Corte
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MUSCO E., Diritto penale tributario, GIUFFRE’, 2002, p. 496
6
Costituzionale rinveniva in essa uno strumento di garanzia del
contribuente.
In una sentenza del 19737 infatti, la Corte Costituzionale,
dichiarando non fondata una questione di legittimità costituzionale
avente ad oggetto l’ultimo comma dell’art. 21 della legge n.4/1929 per
presunta violazione dell’art. 3 della Costituzione, sottolineava come
l’aver subordinato l’azione penale all’accertamento del tributo
costituisse, in realtà, una garanzia per il contribuente “ (…omissis…) il
quale evita di essere esposto ad eventuali vessatorie denunce prima
dell’accertamento definitivo dell’imposta. Il sistema accolto è dunque
strumento di eguaglianza e di corretto uso dei poteri di indagine e di
controllo fiscale”.
Più tardi però, una prima decisiva spallata venne inferta proprio
dalla Corte con la sentenza n. 88 del 27 aprile 1982, che dichiarava
l’illegittimità costituzionale degli artt. 608 e 21, terzo comma, della
L.7 gennaio 1929, n.4 per violazione degli articolo 101, secondo
comma, 24 e 3 della Costituzione. “L’accertamento amministrativo
cui sia attribuita efficacia vincolante per il giudice penale è
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In tal senso, Corte Cost., 6 febbraio 1973, n. 8
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Secondo l’art. 60 della Legge 7 gennaio 1929, n.4 : “ Le disposizioni contenute negli artt. 16, 19
e 22 (…) non si applicano in materia di redditi soggetti a tributi diretti, che continuano ad esser
regolati dalle disposizioni e dalle norme stabilite nelle leggi e nei regolamenti che riguardano tale
materia. “
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certamente incompatibile con il principio del libero coinvolgimento
del giudice garantito dall’art. 1019, secondo comma, Cost., la cui
violazione si combina con quella dell’art. 24 Cost, in quanto
l’accertamento che fa stato nel giudizio penale impedisce l’esercizio
del diritto inviolabile della difesa10, e con quella dell’art. 3 Cost.,
perché la preclusione per il giudice penale differenzia irrazionalmente
la condizione degli imputati secondo che la imputazione sia
conseguente a un accertamento amministrativo tributario o no e,
nell’ambito degli accertamenti amministrativi tributari, sia relativa a
imposte dirette o indirette”11.
A tale pronuncia ne seguì di lì a poco una seconda - Corte
Costituzionale 27 aprile 1982 n. 89 - con la quale si sanciva
l’illegittimità costituzionale dell’art. 58 D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633
nella parte in cui disponeva che l’azione penale avesse corso dopo che
l’accertamento fosse divenuto definitivo, anche nel caso del reato
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ART. 101, 2° comma, Cost., “I giudici sono soggetti soltanto alla legge”.
E’ la stessa Corte Costituzione, nella sentenza n. 88 del 27 aprile 1982, a sottolineare come,
nonostante il dispositivo invochi quali parametri di legittimità gli articoli 3 e 24 della Costituzione,
la questione debba essere esaminata anche in riferimento all’articolo101, secondo comma, Cost,
che si assume essere stato violato.
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Nella sentenza in esame, il contribuente aveva chiesto in tribunale (dove era stato condannato), e
chiedeva in appello, di essere ammesso a provare che in realtà il reddito (che gli veniva contestato
in quanto prodotto nel 1969 secondo le risultanze di un concordato fra un mandatario dello stesso
contribuente e l’Ufficio delle Imposte) era stato percepito nel 1970 con successiva, tempestiva e
corretta denuncia. Ma la Corte d’Appello, rilevava che l’art. 60 della L. 4/1929 (come interpretato
dalla Cassazione) escludendo l’applicabilità alla materia delle imposte dirette dell’art. 22 della
stessa legge, “vincolava tassativamente il giudice penale all’esito di un procedimento
amministrativo” e quindi nella specie, precludeva la prova invocata dal contribuente al fine di
escludere il fatto-reato imputatogli.
11
Cfr. Corte Cost., 27 aprile 1982, n. 88; massima n. 9866
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indicato nel 4° comma dell’art. 5012 dello stesso D.P.R. n. 633/1972.
Secondo la Corte << (…omissis…) quando, come nel quarto comma
dell'art. 50 del d.P.R. n. 633, il reato è del tutto indipendente dalla
entità del tributo, perché si tratta della falsa fatturazione di
operazioni inesistenti, di indicazione in fattura di corrispettivi in
misura superiore a quella reale, o delle relative registrazioni; quando
cioè si tratta, come si esprime la Cassazione, "di un reato formale e di
pericolo, indipendente da un fatto concreto di evasione e punibile di
per sé a titolo di dolo generico"; quando manca perfino ogni
riferimento della pena edittale all'entità dell'evasione: allora
certamente il divieto di procedere fino a quando l'accertamento della
imposta non sia divenuto definitivo integra una deroga, senza alcuna
giustificazione, al principio dell'obbligatorietà dell'azione penale
consacrato nell'art.112 della Costituzione, il che basta a determinare
l’illegittimità costituzionale della norma indicata >>.
Nonostante le buone intenzioni, al fine di salvaguardare l’unità
della giurisdizione sub specie di esclusione di contrasti di giudicati sul
medesimo oggetto nonché per evitare al giudice penale i gravi disagi
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L’art. 50 D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, al 4° comma stabiliva che: “Chi emette fatture per
operazioni inesistenti o indica nelle fatture i corrispettivi e le relative imposte in misura superiore
a quella reale è punito con la reclusione fino a tre anni e con la multa da lire centomila a lire un
milione. La stessa pena si applica a chi annota nel registro di cui all’art. 25 fatture inesistenti o
relative ad operazioni inesistenti o recanti le indicazioni dei corrispettivi o delle imposte in misura
superiore a quella reale”.