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INTRODUZIONE
Questo lavoro prende in esame il ruolo delle Rappresentanze sindacali unitarie nel
distretto tessile di Prato, nel periodo compreso tra il 1993 e il 2001, cioè dal momento
della loro istituzione al momento in cui si sviluppano maggiormente.
La scelta di questo argomento è dovuta, oltre all’interesse personale, al fatto che non
esistono studi riguardanti l’effettivo funzionamento della Rsu nei vari contesti
territoriali, in particolar modo in quello pratese. Esistono soltanto delle rilevazioni
comparative, a livello nazionale, tra le varie categorie produttive cui la normativa sulle
rappresentanze si è applicata. Data, quindi, l’assoluta mancanza di studi a livello locale,
si è ritenuto opportuno dare un utile contributo su questo tema, con l’augurio che sia
utile non solo al sindacato territoriale, ma anche a chiunque sia interessato ad
approfondire l’argomento.
Dopo aver analizzato e descritto questa forma di rappresentanza in termini generali,
si tenterà di dimostrare come le Rsu, sebbene le condizioni nazionali e locali fossero
particolarmente favorevoli, nel sistema distrettuale pratese non abbiano funzionato
secondo le aspettative, e se ne delineeranno le cause e le motivazioni.
Il lavoro è suddiviso in tre capitoli. Nel capitolo primo analizzeremo il quadro
economico e politico nazionale, il sistema di relazioni industriali e l’evoluzione della
rappresentanza sindacale di base. Particolare attenzione verrà dedicata al Protocollo del
23 luglio 1993 e allo sviluppo della contrattazione di secondo livello.
Il secondo capitolo tratterà, poi, il sistema economico distrettuale pratese nel periodo
di nostro interesse, utilizzando anche l’elaborazione di dati statistici su fonti differenti, e
le forze sociali in campo nel distretto pratese: ci si soffermerà in particolar modo sul
numero di iscritti al sindacato e sull’analisi dei dati relativi al loro sviluppo.
Nel terzo capitolo verrà analizzata specificamente la procedura di elezione delle Rsu
in un gruppo di aziende del distretto e le procedure di rinnovo delle stesse nel corso
degli anni. Inoltre, verranno inserite delle testimonianze dirette di testimoni privilegiati,
tra i quali due lavoratori che hanno ricoperto il ruolo di delegati, un funzionario
sindacale e un rappresentante dell’Unione industriali di Prato, che hanno seguito la
procedura delle elezioni in quanto addetti ai lavori.
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Infine, nelle considerazioni conclusive si riassumerà quanto detto nei capitoli
precedenti, cercando di dare una spiegazione dei risultati a cui siamo giunti e di
comprenderne le cause e gli effetti.
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CAPITOLO 1
IL QUADRO POLITICO ECONOMICO NAZIONALE.
LA RIPRESA DELLA CONTRATTAZIONE DI SECONDO LIVELLO E L’
ACCORDO DEL 23 LUGLIO 1993
1. Il quadro economico nazionale
Il decennio che va dai primi anni ottanta agli inizi degli anni novanta è pieno di
cambiamenti. A livello internazionale, di fronte anche alla spinta di nuove domande
sociali, il modello di regolazione economica noto come “stato sociale keynesiano” vede
il suo declino e si vanno via via affermando teorie monetaristiche che mirano al
controllo dell’inflazione, il più grande problema economico di quegli anni. L’Italia si
presenta tuttavia come una particolarità nell’ orizzonte europeo sia per le sue strutture
economiche, politiche e sociali sia per la specifica struttura di relazioni industriali che
l’hanno caratterizzata in quegli anni.
Come tutti i paesi europei, anche l’Italia è interessata da un largo processo di
ristrutturazione economica e industriale. A livello macroeconomico interessa soprattutto
la “stabilizzazione” di due variabili: riduzione drastica del debito pubblico e dell’
inflazione. Ma in Italia la stabilizzazione avviene in maniera “incompleta” e “semi-
conflittuale” (Salvati, 2000). Incompleta perché risulta sia parziale che insufficiente alla
luce del fatto che affronta soltanto uno dei due problemi, ovvero la riduzione dell’
inflazione mentre il debito pubblico sarà lasciato crescere; semiconflittuale per le
modalità politico sociali con cui viene affrontato il problema: nel nostro paese
mancavano cioè i presupposti politici e sociali per compiere una stabilizzazione che si
avvicinasse ai due modelli idealtipici europei della “stabilizzazione conflittuale” o della
“stabilizzazione consensuale”(ivi. pag. 60).
Dal punto di vista macro della politica, il processo di ristrutturazione italiano aveva
fatto si che l’economia del paese si mantenesse dinamica grazie a un sistema di piccole
imprese e distretti sviluppatasi nella cosiddetta Terza Italia e sulla riconversione e
flessibilizzazione delle grandi imprese fordiste. Ciò porta a conseguenze positive in
termini di crescita del reddito – il Pil aumenta, in Italia, in termini reali, dal 1978 al
1991, più di tutti gli altri paesi della Cee (Trigilia,1995) – ma se guardiamo alle variabili
di cui sopra il quadro cambia, perché il tasso d’inflazione è cresciuto maggiormente
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rispetto agli altri paesi europei. Un contributo non indifferente alla sua crescita è venuto
dal debito pubblico: il debito pubblico non diminuisce a causa del mantenimento di una
spesa pubblica elevata, assistenziale e scarsamente produttiva, cui i governi fanno
ricorso sia per motivi di consenso, sia per sedare il conflitto sociale sviluppatosi a
seguito dell’“autunno caldo”, durante il quale emersero dalla base operaia e lavoratrice
nuove domande sociali. La risposta che venne dalle istituzioni fu quella di venire
incontro alle nuove domande, quali un miglioramento delle condizioni di vita grazie a
più alti redditi e a un sistema di welfare più sviluppato,senza però rimettere in
discussione i vecchi interessi più particolaristici e legati maggiormente alla classe
media- che venivano comunque protetti per motivi consensuali.
Per un certo periodo, in questo quadro, il deficit viene colmato dallo sviluppo di
piccola impresa che attenua i costi della crisi economica e permette di rinviare il
problema, dato l’elevato contributo che dava allo sviluppo del paese mantenendo alto il
livello del Pil, ma di fatto questo ha permesso alle élites politiche di chiudere entrambi
gli occhi e di non responsabilizzarsi, non permettendo altresì lo sviluppo di forme di
concertazione che si presentavano efficienti in altri paesi – ad esempio nell’Europa
settentrionale – fin dagli inizi degli anni sessanta: dunque nonostante le risorse
istituzionali appartenenti a molte delle nostre società locali abbiano contribuito a
mantenere elevato il dinamismo economico nel nostro paese, dall’altro sono state un
vincolo allo sviluppo di un senso di responsabilità nella classe dirigente politica
nazionale, non favorendo processi di aggregazione e rappresentanza degli interessi e
ostacolando una possibile riforma politico-amministrativa in un contesto di scarsa
legittimazione della politica e delle relazioni industriali. Ciò ha contribuito a non
affrontare il problema del debito pubblico e ha impedito considerevolmente di diminuire
l’inflazione.
Se vogliamo trovare un episodio significativo che incarni il carattere “all’italiana”
della stabilizzazione anche sul fronte delle relazioni industriali possiamo indicare “il
patto di San Valentino” del 1984, nel quale, a seguito della rottura dell’unità sindacale,
Cisl e Uil si accordarono col governo su un taglio di tre punti percentuali sul
meccanismo di scala mobile. Il governo recepì l’accordo separato tramite decreto,
suscitando la netta opposizione del Pci, nonché della Cgil, che portò partito e sindacato
a raccogliere le firme per un referendum abrogativo, poi respinto con il 56,4 per cento
dei voti. Questo episodio non è soltanto indicativo della prima ricordata rottura
dell’unità sindacale, ma ci chiarisce il significato del termine “semiconflittuale”: la
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ricetta adeguata, in chiave “conflittuale”, per contenere l’inflazione salariale sarebbe
stata l’eliminazione totale della scala mobile e una più severa politica di cambio
(Salvati, 2000). Di fatto la scala mobile venne semplicemente depotenziata, ma non
eliminata come invece avvenne nel 1992. I suoi automatismi, in un sistema di cambi a
banda stretta imposto dallo Sme fin dal 1979, non facevano altro che generare ulteriore
inflazione. Da quando, il 7 gennaio 1992, a Maastricht, l’Italia firma il trattato di
adesione all’Unione economica e monetaria europea che impone parametri
maggiormente stringenti, la situazione si aggrava. Oltre alla recessione internazionale,
che vede il decadimento dei già contenuti tassi di crescita, l’Italia è investita
dall’inchiesta di Tangentopoli e dalla crisi politica che ne consegue e che spazza via i
due principali partiti politici italiani, Dc e Psi. Paradossalmente fu proprio nel momento
di maggiore crisi che il governo italiano assunse una maggiore capacità decisionale, a
seguito del fallimento del tentativo dell’ultimo governo Andreotti, già indebolito dalla
crisi dei partiti storici e nel mirino delle agenzie internazionali per la valutazione del
credito, di affrontare la crisi con decisione e competenza, nonostante Carli, l’allora
ministro del Tesoro si augurasse l’impegno governativo di diminuire di un punto e
mezzo il rapporto tra deficit e Pil. Fu il governo “dell’emergenza economica” di
Giuliano Amato, che il 31 luglio 1992 fece firmare un accordo alle tre maggiori sigle
sindacali tale da eliminare definitivamente la scala mobile, eccetto che per i periodi di
vacanza contrattuale e che avrebbe dovuto essere riconfermato entro un anno; inoltre
imponeva l’accettazione della politica dei redditi (ossia che la crescita di salari e
stipendi fosse compatibile con la discesa dell’ inflazione al 2 per cento in tre anni) e la
sospensione per due anni della contrattazione articolata. Dopodiché, quando l’Italia fu
uscita dallo Sme, attuò un’enorme politica di correzione di bilancio attraverso la legge
finanziaria, facendo una manovra di 93 mila miliardi di lire e svalutando la moneta del
20 percento.
Dopo la crisi del governo Amato l’accordo fu ripreso in mano e ampliato dal governo
“tecnico” presieduto da Carlo Azeglio Ciampi, il 23 luglio 1993. Questo fu il primo
intervento di politica dei redditi e concertazione (di stabilizzazione “consensuale”, in
altri termini) messo in atto in Italia. Un intervento che Ugo La Malfa aveva caldeggiato
in tempi non sospetti e che è stato attuato in “ritardo” proprio per la situazione di
instabilità politica italiana. Un susseguirsi di governi che massimizzavano il consenso
senza guardare a riforme strutturali, di ampio respiro e di lungo periodo, la scarsa
istituzionalizzazione delle relazioni industriali per l’influenza politica esercitata dai
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partiti su sindacati dei lavoratori e datoriali, hanno impedito di arrivare precedentemente
alla soluzione qui descritta. Non a caso si può afermare quindi che proprio l’avvento di
un governo tecnico come quello di Ciampi, libero da qualsiasi influenza di interessi più
o meno organizzati, sia riuscito laddove altri, per decenni, hanno fallito.
2.L’ indebolimento del sindacato e la necessità della contrattazione di secondo livello
Tutti gli anni ottanta, a differenza del periodo successivo all’“autunno caldo”, sono
caratterizzati da un notevole indebolimento del sindacato. L’evento, che si riallaccia
anche a quanto detto fin’ora, che condizionò notevolmente le relazioni industriali
dell’epoca fu l’entrata dell’Italia nello Sme che comportò l’introduzione del cambio a
fluttuazione limitata per la lira – differentemente da quanto avveniva in un regime di
cambi fissi – fortemente voluta dalla Banca d’Italia. Ciò metteva fine alle politiche di
svalutazione competitiva che permettevano agli industriali di scaricare gli elevati costi
del lavoro mantenendo alte le quote di esportazioni. Inoltre, un maggiore costo del
denaro costringeva le imprese a fare un non indifferente ricorso al credito per sostenere i
costi d’impresa, in particolar modo quello del lavoro. Ciò comportò – come mostra
l’intensificarsi dell’uso della Cassa Integrazione – una crescita del tasso di
disoccupazione, attestatosi sopra il 10 per cento: questo fu un altro fenomeno che
contribuì ad indebolire il sindacato.
Dal punto di vista sociale vi fu un'altra causa che contribuì a erodere le basi di
consenso al sindacato che aveva caratterizzato il dopo autunno caldo: il declino della
figura tipica dell’operaio-massa, dovuto al processo di riorganizzazione produttiva e al
crescente utilizzo di nuove tecnologie che permettevano di ridurre la presenza di operai
non qualificati nelle fabbriche. Ciò portò anche a un ridimensionamento della categoria
del lavoro dipendente con conseguente caduta del tasso di sindacalizzazione – più di
dieci punti percentuali dai primi anni settanta agli inizi degli anni novanta – . Questi
fenomeni si accompagnarono poi alla crescita esponenziale della produttività per
addetto: infatti, i lavoratori che sfuggivano ai licenziamenti passavano attraverso un
processo di riconversione e riqualificazione che ne diversificava e ne sottolineava la
qualifica professionale. Di fronte alla segmentazione del processo produttivo, il
sindacato confederale si ritrovò incapace di individuare in tempi brevi le soluzioni
adeguate, abituato com’era all’omologazione della classe operaia, lasciando così campo