David Carollo - Societing multicanale di una startup innovativa: il caso Itsme - CdL Magistrale in Teoria e Tecnologia della comunicazione - a.a. 2009/2010
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Passaggio d’epoca. Transizione d’epoca. Espressioni che appaiono enfatiche, artifici retorici più tesi a
sottolineare l’intensità del mutamento in atto, sull’impatto delle nuove tecnologie, soprattutto quelle
informatiche sul mondo della produzione, della comunicazione, della quotidianità, a dare conto di una realtà
del tutto inedita che si disvela e va prendendo consistenza davanti ai nostri occhi. Non vi è però alcuna
esagerazione in questi termini. Il cambiamento non è mai stato tanto rapido e tanto pervasivo.
Un’epoca va ormai volgendo al termine. Quella, per intenderci, positivista, razionalista, tecnocentrica,
della fede nel progresso lineare e delle verità assolute, della standardizzazione, della produzione e dei
consumi, del primato della produzione, della subalternità del consumatore. Anche se una parte ancora
maggioritaria (ma per quanto?) della popolazione vive e condivide il sistema di valori e di stili di vita
dell’epoca che si avvia al tramonto, a questa si vanno affiancando nuovi soggetti - ancora allo stato nascente
ma già in grado di esercitare una reale egemonia - che bene interpretano la discontinuità e catalizzano il
nuovo che emerge. Comincia così a profilarsi un vistoso e inquietante ritardo tra i modi di vivere e di
pensare, le esperienze partecipate da una parte significativa ed emergente della popolazione e il sapere e il
bagaglio teorico delle istituzioni del decision making pubblico o privato che dovrebbero gestire, o comunque
ben conoscere, le dinamiche del cambiamento sociale e dei mercati.
Lasciamo l’epoca delle certezze e delle ideologie e ci inoltriamo nella stagione del frammento, della
pluralità, della volatilità, della molteplicità dei punti di vista per adottare nuove categorie guida del vivere
sociale, anche nel rispetto della diversità. Non disponiamo ancora di mappe dettagliate per procedere senza
perderci nei meandri della nuova società, di una bussola per trovare vie d’uscita o d’entrata in quei percorsi
che appaiono confusivi, magmatici, ambigui. Non è un caso che come affresco della società nuova venga
sovente indicato il labirinto.
Rullani osserva come la ricerca del “nuovo” che segna il passaggio di secolo non sia solo moda ma
qualcosa di più: “un bisogno pratico, un’ansia intellettuale di segnare una demarcazione che dia conto di una
sensazione che un po’ tutti abbiamo: la sensazione di vivere un’epoca di discontinuità rispetto al paradigma
classico elaborato durante il secolo del fordismo e vigente come modello di riferimento fino al 1970 almeno
(Rullani,2005). Da allora ci stiamo allontanando da un centro di gravità senza averne ancora trovato un
altro”. Eppure dobbiamo inoltrarci con determinazione in questi territori - come i grandi esploratori dei
secoli scorsi che si avventuravano al di là dei confini invalicabili, dell’hic sunt leones e delle colonne
d’Ercole, con strumentazioni rudimentali - se vogliamo comprendere il nuovo che ci circonda, per gestire la
crescente complessità senza esserne travolti.
La società industriale o moderna - quella che ci stiamo lasciando alle spalle -, quando doveva affrontare un
problema complesso, cercava di semplificarlo o di suddividerlo analiticamente in tanti problemi semplici.
Adesso questo approccio non è più proponibile. Non è possibile ricostruire la complessità studiando le
singole parti del sistema: occorre un approccio che insieme sia sistemico, intersettoriale, inter(multi)
disciplinare. Per affrontare problemi complessi prendiamo ora consapevolezza che dobbiamo dotarci di
strumenti complessi e trovare comunque soluzioni complesse.
In un’epoca di transizione la complessità, che pure aveva visto un costante accentuarsi negli ultimi
decenni, subisce un’ulteriore forte accelerazione per il suo scon(incon)trarsi con i lineamenti della nuova
epoca. Complessità significa varietà e variabilità, ossia estrema duttilità e flessibilità nell’aderire a contesti o
situazioni differenti. La complessità è la risultante del sommarsi di tre processi fondamentali e del sistema di
interazioni che generano: la differenziazione, la variabilità e l’eccedenza delle possibilità che ciascuno di noi
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può esperire. Differenziazione perché funzioni e attività che venivano svolte all’interno di certe strutture
sociali si sono poi separate in tanti diversi contesti, ognuno dei quali possiede un proprio linguaggio, propri
codici e competenze specifiche. La stessa vita quotidiana ci porta a confrontarci ogni giorno con una
molteplicità di soggetti, di situazioni, di scelte che aumentino esponenzialmente di giorno in giorno e che ci
costringono a transitare continuamente tra diversi mondi.
Una situazione inoltre è complessa quando è altamente variabile, quando la frequenza e l’intensità del
mutamento divengono iperboliche: “ciascuno di noi ha vissuto nell’arco di pochi anni un’esperienza che le
culture non hanno visto nel corso di millenni... L’enorme variabilità che ci caratterizza comporta che ciò che
valeva ieri non vale per oggi: le regole, i linguaggi, i sistemi di riferimento che sino a ieri funzionavano non
sono più applicabili nella situazione mutata” (Melucci, 2008). Infine il moltiplicarsi delle opportunità: i
possibili percorsi di vita, i luoghi in cui vivere, gli studi a cui avere accesso, le tipologie di lavoro, la gamma
pressoché infinita di scelte in un supermercato, nella programmazione televisiva, nei meandri del
cyberspazio testimoniano - in qualsiasi nostra giornata - il differenziale che esiste tra le possibilità praticabili
e quelle che ciascuno di noi potrà effettivamente utilizzare. L’eccedenza delle possibilità può risultare una
fonte di arricchimento ma anche di disorientamento e frustrazione.
La complessità degli anni in cui viviamo è fonte di smarrimento non solo perché non siamo ancora abituati
a conviverci, a considerarla come opportunità e potenziale ricchezza, ma, soprattutto, perché ci sfuggono i
lineamenti della società nuova che il suo manifestarsi, in forme apparentemente tanto caotiche e all’insegna
della turbolenza, va profilando. Nel mondo che sta emergendo la complessità è una condizione irriducibile
quanto ineluttabile che, se da una parte genera confusione e incertezza, dall’altra ci offre, nelle attuali
trasformazioni sociali, economiche, politiche e culturali, la possibilità di ripensare noi stessi in modo nuovo.
Confrontarsi e comprendere la complessità emergente significa approdare alla nuova epoca dotati di una più
corretta strumentazione metodologica e concettuale, individuare nella complessità non solo, e non
prevalentemente, minacce ma anche straordinarie opportunità.
La sfida diviene allora quella tra cambiamento - un cambiamento obbligato, doveroso non opzionale a
fronte di un’epoca nuova - e la pericolosa inerzia del “tutto come prima”: un cambiamento quindi non fine a
sé stesso, tanto per cambiare, ma per entrare in sintonia con una società profondamente mutata. Nella società
che lasciamo alle spalle, quei fenomeni che non si prestavano a una descrizione-spiegazione quantitativa
mediante il ricorso a tecniche matematiche non avevano diritto di cittadinanza né alcun rilievo per una
riflessione scientifica: ciò che non rientrava in queste categorie era lasciato ai letterati e ai poeti, persone
certamente degnissime ma la risultante è che siamo rimasti prevalentemente all’oscuro su tante dimensioni
che alimentano la società complessa. Come la vita quotidiana, i consumi - tanto per riferirci ad aree di
conoscenza di cui ci occuperemo a lungo - sono rimasti così inesplorati o ancor peggio, indagati solo tramite
la lente deformante dei modelli matematici approntati dalle scienze economiche.
La linearità è considerata sinonimo di comprensione, semplicità, ordine: ogni fenomeno viene interpretato
come espressione di una catena causa effetto. Il caos invece - a cui sono riconducibili molte manifestazioni
dell’odierna complessità - è ritenuto segno di disordine, di insiemi magmatici, imprevedibili e di difficile
comprensione. Quello che abbiamo dinanzi a noi è un mondo nuovo, che tendiamo però a interpretare con
.
categorie e con un’epistemologia non più attuale (Fabris, 2009)
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1. Dentro un mondo
postindustriale e
globale
“Sapere è potere”
(F. Bacone)
L’attuale quadro dei mutamenti socioeconomici è conseguenza di due circostanze fra loro strettamente
connesse: il passaggio dalla società industriale a quella cosiddetta postindustriale e il processo di
globalizzazione. Il primo a parlare di epoca postindustriale fu, agli albori degli anni Ottanta del Novecento,
Daniel Bell, un sociologo americano che intuì l’avvento di un nuovo modello sociale le cui principali
caratteristiche risiedevano nell’essere fondato sul sapere, nel dare luogo a produzioni di beni immateriali, nel
generare il sopravvento, in qualità di baricentro delle relazioni e degli equilibri sociali, dei processi
informativi e comunicativi a scapito dei processi produttivi (Bell, 1973).
L ‘affermarsi delle dinamiche postindustriali ha comportato alcune sostanziali modificazioni nel sistema di
produzione/consumo, generando processi complessivi riguardanti sia gli sviluppi che le connessioni
culturali, sia l’agire di mercato, ossia il rapporto fra l’evoluzione del sistema d’impresa e le modalità di
consumo. In pratica, le modalità di produzione, di distribuzione e di acquisto di beni (merci, servizi, utilities
ecc.) sono cambiate radicalmente.
D’altra parte, le logiche attuali di lettura dei mutamenti non avvengono più dentro un quadro univoco e
tradizionale, fortemente radicato in un tessuto di tipo sociale, economico e culturale generato da dinamiche
locali, legato a un luogo, a uno Stato, ad una lingua particolare. Hanno esito, invece, su piano globale, ossia
ad livello che non distingue più fra nazionalità e territori, ma tende a leggere tutte le dinamiche in un’ottica
complessiva. Ciò è avvenuto sostanzialmente perché le spinte generatesi nell’epoca postindustriale hanno
favorito una multinazionalizzazione (ma sarebbe più corretto dire multi-delocalizzazione), sia dei luoghi di
produzione che degli sbocchi di consumo, che ha dato vita a un doppio livello di sviluppo, da un lato
fisicamente collocato al territorio d’origine, dall’altro virtualmente situato su un piano a-territoriale e dunque
connesso a un quadro di sviluppo complessivo.
È evidente che la globalizzazione è un fenomeno complesso, ricco di implicazioni e con significati molto
articolati e ampi che si riferiscono sia all’idea di “concentrazione del mondo”, che a una concezione del
“mondo come un tutt’unico”. Un termine e un fenomeno, dunque, che descrivono innanzitutto un processo,
una dinamica psicologica di espansione della coscienza che coinvolge nella sua interezza la società civile.
In quest’ottica, chiavi di volta della contemporaneità diventano i comportamenti e i profili di attori
transnazionali (corporation, enti, persone) capaci di agire a largo raggio, facendo leva in primo luogo sulle
possibilità offerte dai media, in particolare quelli telematici. In tal senso la globalizzazione agisce
innanzitutto su un piano strettamente culturale, di ridefinizione degli usi e dei costumi, dei valori e delle
convenzioni delle comunità locali e, contestualmente, sulle dinamiche economiche di mercato. Quest’ultime
conseguono direttamente e alimentano in modo costante i processi di globalizzazione, essendo allo stesso
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tempo un fattore integrante delle dinamiche socioculturali di qualsiasi civiltà e una pratica operativa basilare
per il funzionamento delle macrorelazioni fondate sull’utilizzo, sviluppo e perfezionamento dei media e degli
apparati significativi a essi collegati.
La conseguenza più evidente di tali processi risiede nel fenomeno del “meticciato”, che sta a significare
appunto la convergenza verso un unico grande modello di sviluppo e di evoluzione delle culture sociali,
artistiche e imprenditoriali. Si delinea così una sorta di organizzazione caotica in cui i fenomeni, gli influssi,
le tendenze e le mode provenienti dai più diversi lati del globo interagiscono dinamicamente fra loro,
mescolando, influenzandosi e generando un circolo virtuoso di connessioni e di reciproche influenze, pur
mantenendo salde le peculiarità su cui ciascuno di essi si fonda.
È evidente che dallo scenario complessivo non possono essere elusi questi aspetti critici e questi punti di
crisi e non solo per una palese ragione etica. Essi, infatti, a seguito degli eventi dell’11 settembre 2001 e alla
luce della crisi recessiva esplosa nel 2008, influenzano in maniera molto evidente le dinamiche socioculturali
dei processi in atto e su di esse incombono sia sul versante della legittimazione culturale sia su quello delle
più generali operatività del mercato e delle interazioni, commerciali e culturali, fra cittadini-consumatori e
prodotti-apparati. L’opacità, gli intrecci e i nodi che ne derivano e che si trasferiscono ai processi di
globalizzazione sono divenuti parte integrante degli stessi. Più che punti di crisi, paiono ingranaggi dello
stesso meccanismo cui si oppongono determinando in tal modo altra, nuova complessità.
Reti per comunicare
In questo processo, grande peso hanno avuto e hanno le attuali modalità di comunicazione che, da un lato,
consentono la circolarità in tempo reale delle informazioni e delle merci e, dall’altro, dotano il mondo reale
di apparati complessi che fondano sulla “visibilità” i propri sistemi logici e operativi: pongono al centro del
processo di comunicazione la vista, pervadono con la propria presenza gli spazi fisici, pubblici e privati,
della realtà. Grazie alle nuove tecnologie, non solo le metropoli contemporanee ma anche i centri più
sperduti del pianeta è come se fossero inseriti in una serie di circuiti integrati, caratterizzata da milioni di
collegamenti che assicurano costantemente le connessioni tra questi centri.
Si presentano come nodi neurali di una grande intelligenza, di una grande fucina ribollente di saperi,
conoscenze, culture, informazioni, transazioni. Il concetto su cui tali modalità comunicative si basano è
4
tradizionali e di quelli
quello di rete. Il loro affermarsi, negli ultimi quindici anni, a fianco dei mass media
tematici, ha avuto il duplice effetto di modificare e articolare i modelli comunicativi e di generare nuovi tipi
di soggetti in grado di operare nel sistema dei media.
5
emittenti che trasmettono una pluralità di messaggi
Da un lato, infatti ha imposto un modello molti-molti
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dei mass media generalisti (one-to-many,
a molteplici soggetti, che si oppone alla logica del broadcasting
8
dei media tematici (da uno ad un gruppo specifico), offrendo in
da uno a molti) e a quella del narrowcasting
4
I mezzi di comunicazione (giornali, radio, Tv) che consentono di diffondere un messaggio contemporaneamente a una vasta
pluralità di destinatari, a partire da un’unica fonte emittente (paradigma one-to-many, da uno a molti).
5
Letteralmente “da molti a molti”, paradigma comunicativo proprio della maggior parte dci new media caratterizzato da flussi di
produzione e ricezione di informazione da parte degli utenti in modo dinamico e flessibile.
6
Per broadcasting si intende la trasmissione di informazioni da un sistema trasmittente ad un insieme di sistemi riceventi non definito
a priori.
7
Media “contenitori”, tradizionali e non, che producono e/o diffondono una pluralità di contenuti rivolti a molti e diversi pubblici.
8
In opposizione al broadcasting generalista, permette la diffusione ad un’utenza profilata e interessata di notizie e/o contenuti di
intrattenimento o di informazioni relativamente ad argomenti e/o ambiti specifici (anche in tempo reale se tramite Internet).
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tal modo una nuova prospettiva comunicativa, resa possibile dalla diffusione e dalla semplificazione di
Internet, che in qualche modo rappresenta non solo il modello di punta delle dinamiche comunicative
organizzate in rete, ma anche e soprattutto una perfetta metafora di quelle dinamiche e del senso più
profondo di meticciato.
I media elettronici e il Web incarnano pienamente le modalità comunicative attuali. Gli uni rappresentano
una sorta di canto del cigno del nostro sistema nervoso centrale: ne mettono in scena in qualche modo il
suicidio, ovvero la perdita del centro unico e la sua contemporanea moltiplicazione. L’altro può essere
definito, sulla base di una serie di aspetti differenti, come:
la rete caotica e non organizzata che trova nella potenzialità di visibilità la propria caratteristica
fondamentale;
l’enorme contenitore di informazioni, merci, prodotti, immagini e culture, che così divengono visibili a
un’utenza teoricamente combaciante con la totalità della popolazione umana;
la circolazione di questi contenuti in tempo reale, attraverso l’abbattimento delle barriere spaziotemporali
(distanze e fusi orari);
il sistema di connessione tra tipologie di utenze differenti (individui, istituzioni, imprese) e, dunque, il
mezzo che facilita la relazione fra agenti sociali tradizionalmente distanti e contrapposti e che favorisce
una comunicazione dal basso, con il conseguente apparente abbattimento delle tradizionali competenze
comunicative;
lo strumento tecnologico avanzato, che consente oggi a chiunque - in particolare grazie al Web 2.0 - di
produrre linguaggio, beni e servizi e renderli pubblici e, allo stesso tempo, è quello di più facile
funzionamento, con il conseguente - ma apparente - abbattimento delle tradizionali competenze
necessarie per l’uso di apparati tecnologici e comunicativi. Il concetto di rete, infatti, implica proprio
l’idea di una connettività complessa che viene a instaurarsi fra attori sociali distanti nello spazio e
magicamente compresenti nella simultaneità del tempo reale.
L’espansione vertiginosa delle comunicazioni di massa e delle tecnologie informatiche ha completamente
destrutturato l’antica idea di comunicazione burocratica, centralizzata e gerarchica e ha modificato anche le
dinamiche di mercato che si attuano grazie alle reti, rinnovandole nella forma e rendendole molto complesse:
è cambiata la relazione che si instaura fra gli agenti sociali (ossia fra chi genera offerta e chi produce
domanda). Si assiste dunque alla coesistenza di forme più o meno tradizionali (aziende e big corporation che
offrono merci e clienti che le comprano) con altre decisamente rivoluzionarie, come ad esempio la nascita di
soggetti di mercato nuovi, frutto della fusione degli attori tradizionali: quello che tradizionalmente, fuori
della Rete, è ancora e solo “il consumatore, in Internet sempre più spesso assume il ruolo di acquirente/
consumatore/produttore di domanda” di un determinato bene e/o servizio e, in altri casi, quello di
“produttore/venditore/generatore di offerta” del medesimo bene. Si pensi all’enorme quantità di video,
fotografie, musiche ecc. immessa in Internet, anche a scopi commerciali, da singoli internauti, la cui
possibilità produttiva è la diretta conseguenza dell’accessibilità, mai finora consentita a tutti, a forme di
9
).
produzione (software, news, immagini) e di distribuzione (reti, testate, social network
10
e
Le nuove tecnologie, infatti, grazie aIla possibilità di distribuzione di contenuti, grazie al peer-to-peer
al download, stanno contribuendo in maniera determinante a trasformare il mercato di massa in una massa di
mercati. La proliferazione di database di contenuti (fra tutti, Amazon e iTunes) ha comportato la possibilità
9
Una rete sociale formale o informale composta da un gruppo di individui connessi tra loro da legami sociali, culturali, religiosi, di
interesse, di parentela. Per estensione, si riferisce oggi a siti come Twitter, MySpace, Facebook.
10
Il cosiddetto P2P è una rete informatica paritaria, che non possiede nodi gerarchizzati e che, come nel caso del file sharing,
consente lo scambio di informazioni o contenuti tra due soggetti.
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di poter esporre e distribuire prodotti di nicchia, altrimenti relegati a pochissimi rivenditori. L’abbassamento
dei costi di produzione e distribuzione, ma soprattutto le ampliate possibilità di storage hanno messo a
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, specialistici, vecchi) un tempo introvabili. Con
disposizione del pubblico tutti quei prodotti (underground
la conseguenza che il mercato si è allungato e ampliato, non essendo più i profitti di volumi determinati solo
da pochi prodotti dai grandi numeri, bensì da un grande numero di merci dalle minime quantità: non più 100
prodotti da 100 mila copie, ma 100 mila prodotti da 100 copie ciascuno.
Fig.1.1: La coda lunga del mercato dellʼinformazione 2.0 ; Fonte: Prunesti (2010)
12
del mercato: una molteplicità di nicchie che, se considerate globalmente, competono con
È la coda lunga
il mercato dei prodotti e della distribuzione di massa (Anderson, 2007). Come affermano Cova, Giordano e
Pallera (2007): “Internet [...] ha modificato i meccanismi di distribuzione: il nostro intrattenimento non è più
legato al mondo fisico, è diventato virtuale; in un mercato basato sulla coda lunga ciascuno può avere un
pubblico; la coda lunga permette una fioritura di generi, stili, media differenti che si rivolgono a nicchie di
pubblico che ruotano attorno ad essi.”
Comunicazione e mercato paiono muoversi in simbiosi lungo un’unica linea direttrice. Il loro procedere
interrelato sta progressivamente generando una nuova era culturale ed economica che si concretizza in un
contesto frammentario e differenziato e che concepisce al centro della società non l’informazione, ma la
relazione e la conoscenza come qualità organizzativa dell’informazione stessa, la quale da sola non è più
sufficiente. Quello che conta è, da un lato, la possibilità aperta a tutti di produrre conoscenza e di metterla in
circolo e, dall’altro, la sua legittimazione, che avviene grazie alla relazione che si crea fra tutti i soggetti che
11
Cultura underground. Inizialmente riferito ai movimenti artistici e politici nati negli anni Sessanta, oggi il termine in forma
estensiva indica l’insieme delle pratiche culturali e artistiche accomunate dalla finalità di porsi in antitesi come alternativa alla cultura
ufficiale della società di massa.
12
Teoria introdotta da Chris Anderson nel 2004. Descrive le nuove modalità di fruizione e consumo di contenuti, determinate dal
Web: l’insieme dei prodotti con piccoli volumi di vendita può occupare una quota di mercato molto più ampia di quella determinata
dai prodotti best-selling, se il canale di vendita o di distribuzione è, come nel caso dei negozi online, sufficientemente grande.
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agiscono sul mercato o nel processo comunicativo. Come conseguenza, la simbiosi di comunicazione e
mercato sta inesorabilmente agevolando la mediazione fra i valori universali fondamentali e gli aspetti
particolaristici.
Le trasformazioni delle dinamiche di consumo
In questo quadro è emersa negli ultimi anni una nuova dimensione del consumo, risultato di un processo
molto più lungo che sostanzialmente coincide con le trasformazioni fin qui descritte. Sin dai tempi della
seconda rivoluzione industriale, negli ultimi decenni dell’Ottocento, le dinamiche di consumo hanno
inseguito, adottandolo e in qualche modo cristallizzandolo, il mutamento degli individui e della società,
adeguandosi nei significati ai cambiamenti economici, tecnologici e sociali via via occorsi.
In Europa e in Italia - causa i ritardi e gli impedimenti determinati dai due conflitti mondiali, dalla lunga
permanenza al potere di regimi totalitari, oltre che da una diffusa mentalità di regolamentazione del mercato
anche attraverso l’intervento dello Stato - le evoluzioni delle modalità di consumo hanno subito una radicale
accelerazione solo a partire dagli anni Ottanta del Novecento. È stato allora che esse hanno iniziato a
riscattarsi dallo stretto legame che per lungo tempo avevano avuto con la stratificazione sociale e che si è
attuata una svolta verso relazioni con i prodotti e i servizi, tese a definire identità individuali.
13
degli anni sessanta, transitando attraverso il
In Italia, in particolare, dal consumismo segnaletico
14
degli anni Settanta, si è passati, nel decennio successivo e in maniera quasi
consumismo della distinzione
repentina, a una dimensione di consumo che rompeva i tradizionali vincoli tra produzione e fruizione e che
tendeva a configurarsi come atto di propria “unicità” da far conoscere a un contesto sociale articolato ampio
e mobile, non più rigidamente ancorato a categorie tradizionali. È in quell’epoca che i consumatori hanno
iniziato a manifestare “un forte eclettismo nelle scelte d’acquisto”, orientate da “variabili occasionali,
inscritte nella logica di un processo generativo di senso” (Pitteri, 2006), che ha provocato una radicale
trasformazione culturale dalla quale ha preso corpo un nuovo idealtipo di consumatore: il consumatore
postmoderno. Si tratta di un soggetto che dapprima scopre il valore simbolico dei beni, per cui gli acquisti
non rappresentano più la semplice soddisfazione di una necessità, ma assumono una valenza comunicativa,
di segno distintivo della propria personalità (che, tuttavia, tende a essere mutevole, così come mutevoli erano
15
che potevano ispirare quelle personalità) e che successivamente - a partire
in quell’epoca le mode e i trend
dagli anni Novanta - ha assunto un atteggiamento via via più maturo, imperniato sulla costruzione di un
progetto di consumo individuale.
Il consumatore che si affaccia al XXI secolo e che ne attraversa poi il primo decennio è ancora diverso:
ormai “autonomo” e “competente”, ha intrapreso un dialogo con le imprese e con le merci di cui non è più
solo ricettore passivo, ma pieno co-protagonista. Cosciente dei propri bisogni, non più eterodiretti e sempre
più complessi, cerca nei prodotti nuove qualità, tangibili e intangibili, e tende a dialogare con le merci al fine
di “modificarle”, di renderle sempre più rispondenti ai propri bisogni. Lo si può definire un consumatore
16
, cioè un produttore/consumatore, il generatore di un senso da attribuire alle merci,
maieutico, un prosumer
13
Orientato ad acquisire, attraverso il possesso di beni durevoli, una sorta di diritto di cittadinanza, la possibilità di essere parte di
una società che aveva conquistato il benessere.
14
I beni e i prodotti assumevano funzione di status symbol, di oggetti significativi di un’appartenenza sociale, culturale o di censo.
15
Orientamento, tendenza: diventa tale un prodotto o un’idea popolare presso il pubblico mainstream per un periodo di tempo
mediolungo.
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Neologismo risultato dalla fusione di producer e consumer: il consumatore postmoderno, soggetto attivo e informato nel processo
di produzione, di consumo, di comunicazione del prodotto.
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affinché siano in grado di soddisfarne i bisogni. Ciò che egli cerca nelle merci, infatti, non è il possesso, non
è l’acquisizione fine a sé stessa. La rappresentatività sociale e culturale dei prodotti non gli interessa più.
L’utilità, il calcolo e il valore d’uso perdono gran parte della loro importanza in favore di elementi nuovi,
come la fantasia, il gioco, la quotidianità, lo spreco, poiché egli privilegia una relazione emotiva e percettiva
con esse, perché cerca nelle merci una dimensione di amicizia e di parentela, qualcosa di intimo, di
17
(Fabris, 2003), un cercatore di sensazioni e di suggestioni che può
personale. È un sensation seeker
ricavare solo dall’esperienza. E ciò lo spinge a ricercare delle occasioni di consumo, che costituiscono il suo
vero interesse, poiché ogni atto che compie (comprare un prodotto, mangiare un cibo, viaggiare, usufruire di
un servizio, guardare un film o leggere un libro) è parte di un più generale processo di autodefinizione
identitaria; ogni azione attinente alla sfera del consumo è parte di una filiera di atti che egli realizza al fine di
esprimere la propria identità e di comunicarla ai propri simili (Pollarini, 2008).
È una figura complessa quella del consumatore contemporaneo. Da un lato è poliedrico e nomade e il suo
percorso di vita, pur pieno di senso come mai prima, non è più né lineare né progressivo, poiché egli tende a
muoversi dinamicamente e ad assumere attitudini di consumo diverse a secondo dei contesti con cui si
relaziona. Dall’altro è saldo nelle proprie scelte e nelle proprie relazioni con le merci, poiché le inscrive tutte
in una logica esclusiva e personale. Tutto ciò si realizza in un tracciato ispirato e guidato da un interesse
preminente, da una passione, che assume il valore di una vera e propria vocazione identitaria che gli
consente di “definirsi” come persona, prima ancora che come consumatore. La natura della sua identità è
liquida (Baumann, 2003), è il risultato di uno “slittamento dall’individuo”, di un trapasso “dall’identità
stabile che esercita la sua funzione in insiemi contrattuali, alla persona che recita dei ruoli nelle tribù
affettive”.
Per questo consumatore “non c’è esistenza se non nel quadro di un inconscio collettivo”, poiché è inserito
in una dinamica di corrispondenza e di partecipazione che privilegia il corpo collettivo (Maffesoli, 2004).
Questo insieme di processi individuali genera nuove forme di aggregazione comunitària, che, pur essendo (e
costituendo) segmenti di mercato e target (dinamici e trasversali agli abituali criteri di definizione tipologica
del pubblico) nuovi, differiscono per natura, struttura e conformazione dai target tradizionali. Qui non
c’entrano né gli stili di vita né quelli di pensiero; non si allude a logiche di condivisione e di appartenenza
che si misurano con il metro dell’intensità e non più in base a parametri quali-quantitativi. Ogni
aggregazione comunitaria è di fatto una sorta di tribù più o meno numerosa, composta da individui che (in
parti diverse e lontane del mondo) sono accomunati dalla medesima passione, da una stessa vocazione cui si
dedicano in modo più o meno intenso: identitario, vincolante e totalizzante; appassionato, forte e preminente;
curioso, lieve ed episodico (Pollarini, 1999).
18
che perpetuamente cercano le occasioni in cui esercitare la propria passione, condividendola
Neotribù
con i propri simili, momenti che di fatto si trasformano nell’effettivo ricongiungimento di tutti i membri di
una stessa comunità e che, per questo motivo, assumono un elevato valore identitario e simbolico, ma che
allo stesso tempo costituiscono un’eccezionale circostanza in cui un intero segmento di mercato confluisce in
un contesto unico a connotazione esclusiva.
La connessione che si genera fra i componenti di queste neocomunità è molto stretta e, allo stesso tempo,
discreta. Il legame che li salda è di tipo emotivo e lo spazio comunitario e “tribale” è vissuto in maniera non
utilitaristica, come luogo di scambio di emozioni e di passioni. Non vige, come nelle tribù premoderne, l’alta
vischiosità dei legami di sangue o di clan. In virtù della propria identità liquida, l’individuo contemporaneo
entra ed esce facilmente da una o più tribù, appartenendo anche a più di un raggruppamento
17
Letteralmente “cercatore di sensazioni”: è il consumatore postmoderno, attento alla dimensione emotiva del prodotto e alla
prossimità identitaria che ne deriva.
18
Secondo Cova, gruppo sociale che condivide passioni e/o idee comuni. Gli individui che lo compongono non sono omogenei o
accomunati dal collante della religione/tradizione, ma da passioni vissute intensamente e dalla spinta allo stare insieme.
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contemporaneamente. Ma la sua partecipazione a tutte le tribù in cui agisce è caratterizzata sempre da
intense e diffuse interrelazioni con gli altri membri della comunità (Cova, 2003).
Egli è un “insieme” di persone diverse che di volta in volta condivide con altre persone simili a lui un
sentire comune, che lo rende in qualche modo identificabile e riconoscibile come appartenente a un gruppo,
tuttavia sempre diverso. “In opposizione alla stabilità indotta dal tribalismo classico, il neotribalismo è
caratterizzato dalla fluidità, dai raggruppamenti puntuali e dallo sparpagliamento; è così che possiamo
descrivere lo spettacolo della strada nelle megalopoli moderne” (Maffesoli, 2004), in cui la ritrovata ricerca
di socialità sta nel godimento che spesso si concretizza nella banalità del consumo di un medesimo prodotto,
19
, sia
nell’utilizzo della stessa merce, nel confluire in un unico posto, sia esso un luogo di spettacolo o loisir
esso uno spazio commerciale o uno spazio come il Web. Si pensi, in tal senso, alle comunità di fan dell’iPod,
20
, che è a sua volta un
della Harley Davidson o della Ducati, si pensi alle comunità online come Facebook
insieme di microcomunità coagulate da tratti identitari il più delle volte debolissimi o pretestuosi.
Fig. 1.2: Modernità VS Postmodernità ; Fonte: Pitteri (2010)
Individui che non cercano nel consumo un mezzo per dare significato alla propria vita liberandosi degli
altri, ma che al contrario cercano in esso un mezzo per legarsi in una comunità di riferimento, la quale
permette di produrre sensi e significati più o meno ampi e profondi per la propria vita. Il sistema di consumo
non è allora un elemento primario che si serve del vincolo sociale, ma è un elemento secondario al servizio
del vincolo sociale, poiché il legame è più importante del bene. In quest’ottica, l’individuo sarà portato a
consumare beni e servizi che facilitano l’interazione sociale in virtù del loro valore di legame, il quale non è
costituito a priori, ma deriva dall’interazione fra i membri all’interno delle comunità (Cova, 1997).
19
Nell’era postindustriale è il tempo liberato dal lavoro, che crea spazio per il divertimento e lo svago (in francese loisir), intesi come
parte del processo di costruzione identitaria dell’individuo.
20
http://www.facebook.com/
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Raggruppamenti valoriali, comunità vocazionali, neotribù di brand, che, figli della società del loisir, di
un’epoca in cui il tempo del non lavoro è diventato tempo per sé (tempo dedicato alla propria crescita
intellettuale, emotiva e fisica), pongono al centro dei processi di consumo l’esperienza, ossia una dinamica
attraverso la quale nelle merci si ricercano segni di sé. Ne deriva un “enorme mercato delle passioni e delle
identità, in cui l’esperienza assume la funzione di elemento attuariale, di unità di misura della merce
postindustriale” (Pollarini, 2008).
È evidente che anche le merci sono cambiate. Nel loro interagire con i consumatori e con le pratiche
interindividuali che intercorrono fra essi, contribuiscono alla costituzione e alla trasformazione dei significati
socialmente condivisi e dei ruoli e delle relazioni di ciascun individuo. Pur avendo una propria forte identità,
esse non trasmettono e non comunicano un significato preciso e determinato. Diventano polisemiche,
potenzialmente disponibili a nuove attribuzioni di significato. Una sorta di ipertesto che si definisce poco alla
volta nel corso dell’interazione con gli individui, concorrendo, dunque, alla produzione simbolica di una
miriade di significati differenti, a seconda delle relazioni instaurate.
La comunicazione che cambia
La crisi degli investimenti pubblicitari verificatasi a partire dai primi anni del XXI secolo e, soprattutto, il
cambiamento della natura degli investimenti non sono da addebitare solo a cause contingenti, per quanto
significative (da un lato lo shock dell’11 settembre 2001 e le modificazioni di tutti gli scenari - politico,
economico, comunicativo, commerciale - che ne sono derivate; dall’altro la crisi congiunturale iniziata nel
2008). Sono da attribuire anche a cause strutturali (le falle apertesi nelle dinamiche dell’economia globale e
la lunga fase recessiva o di stagnazione internazionale) e, probabilmente, anche a motivazioni profonde, in
qualche modo organiche. Sono da connettere, infatti, a:
un’evidente inadeguatezza dei media tradizionali, in primis la televisione, troppo appiattiti su modelli
generalisti, difficilmente coniugabili con l’eterogenea articolazione dei segmenti di pubblico mossi da
spinte vocazionali e animati, nel proprio rapporto con i media, da un’attitudine multimediale;
un eccessivo costo delle inserzioni pubblicitarie, determinato per lo più dagli elevati costi di gestione
delle imprese mediali, che non favorisce né stimola le aziende a investire, ma si trasforma addirittura in
un deterrente, in particolare in alcuni paesi (ad esempio l’Italia) caratterizzati da un sistema economico
basato sulla presenza diffusa di una piccola impresa in grado di incidere in maniera rilevante sul PIL;
una debolezza psicologica delle aziende stesse, che paiono le prime a non mostrare fiducia nei propri
prodotti, avendone intuito la vulnerabilità temporale e, di conseguenza, dimostrandosi scettiche a
investire in pubblicità secondo le modalità tradizionali e attraverso i canali mediali consueti.
D’altra parte il flusso incessante di messaggi veicolati da vecchi e nuovi media, pur recando con sé una
sorta di “democratizzazione” dell’informazione, ha sottoposto l’uomo postmoderno a una quotidiana
“indigestione di informazioni” (Postman, 2002), richiedendogli uno sforzo culturale e cognitivo sempre
crescente. L’ambiente mediatico si è via via frammentato in una miriade di mezzi, canali, testate (ciascuno
dotato di propri linguaggi, codici, modelli, contenuti), che tendono a saturare ogni momento e ogni spazio
comunicativo e cognitivo, costringendo i destinatari a continui sforzi di filtraggio e di interpretazione dei
flussi di dati, con il risultato che all’aumento della quantità di informazione ha corrisposto una sensibile
diminuzione della capacità di attenzione necessaria a isolare e ad analizzare le informazioni.
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Questo fenomeno di overload informativo - cresciuto in maniera esponenziale con il diffondersi di
Internet e del Web 2.0 - ha determinato un impatto considerevole, e per certi versi devastante, sulle
dinamiche comunicative, modificandole in profondità, intaccando la già limitata capacità di attenzione degli
individui, incidendo con modalità diverse in ambiti e spazi differenti, trasformando i rapporti fra gli attori dei
processi, i cui tradizionali patti fiduciari sono venuti meno, indebolendosi o addirittura spezzandosi.
Se sul versante sociale si è consumato il distacco dei cittadini dalla politica, con le conseguenze che ciò ha
determinato nei processi democratici, sul versante della comunicazione aziendale e pubblicitaria, quindi del
rapporto fra merci e consumatori, la saturazione dei canali comunicativi abituali ha fatto sì che le imprese si
siano in qualche modo viste costrette a investire budget sempre più consistenti in comunicazione e in
advertising a sostegno delle proprie marche e dei propri prodotti, ottenendo il duplice risultato di
un’invasione di spot, jingle e comunicati (Megido, 2005) e di un consequenziale ulteriore indebolimento
dell’efficacia comunicativa. Principale vittima di una tale spirale è stata, naturalmente, l’attenzione del
consumatore, che è divenuta un bene sempre più prezioso, la vera risorsa scarsa dell’economia (Godin,
2004). Poiché, infatti, l’attenzione costituisce una sorta di filtro utile a selezionare le informazioni in input e
a decidere quali elaborare ulteriormente e quali invece ignorare e poiché la capacità di attenzione delle
persone è limitata, solo una minima parte delle informazioni provenienti dall’esterno può essere (ed
effettivamente è) recepita.
Dal punto di vista pubblicitario, il filtro dell’attenzione svolge due funzioni principali: protegge il
consumatore da un eccesso di pubblicità e lo aiuta nel processo di decisione, selezionando solo quelle
informazioni utili alla risoluzione del suo problema. Nella situazione di overload che si è determinata, il
consumatore ha progressivamente acquisito l’uso di tecniche di selezione e filtraggio dei messaggi,
elaborando un insieme di meccanismi di difesa tali da consentirgli di salvaguardarsi dal sovraccarico di
stimoli commerciali che lo raggiungono tutti i giorni, cosicché se la pubblicità non riesce a infrangere il
muro della soglia di attenzione del consumatore, il messaggio si confonde tra gli altri senza lasciare traccia e
senza avere la minima possibilità di raggiungere gli obiettivi fissati. Se l’opinione dei consumatori e degli
utenti dei media nei confronti della pubblicità e del marketing nello loro forme tradizionali è decisamente
peggiorata (ben il 60% ne ha un’idea più negativa rispetto a quella che aveva 5 anni prima), ciò si deve
proprio all’eccesso di pressione promozionale che gli utenti sentono e dalla quale la stragrande maggioranza
(il 65%, secondo una recente rilevazione dell’Istituto di ricerca Yankelovich Partners) si sente letteralmente
schiacciata e sotto attacco.
D’altra parte, questo stesso pubblico così frammentato sembra essere decisamente avviato “verso una fase
matura dell’impiego dei media, in cui non è l’antitesi fra vecchio e nuovo a governare il contatto con i mezzi
di comunicazione, bensì la capacità che questi ultimi dimostrano di saper andare incontro alle esigenze dei
loro utilizzatori” (cfr. Censis, 2002). In pratica il pubblico dei media generalisti è molto vario e alcuni di essi
(la Tv, ma anche la radio, i cui ascolti continuano a crescere anno dopo anno) sono fruiti in massa da milioni
di persone diversissime fra loro, la cui parte preponderante, però, proprio per la capacità di muoversi fra più
media, ha assunto una dimensione attenta e critica nei confronti dei propri consumi, per cui da un lato è
pronta a compiere il gesto (ancora alcuni anni fa considerato estremo e inammissibile) di abbandonare la
fruizione se la programmazione in corso non la soddisfa, dall’altro vuole interagire con le marche e pretende
maggiore rispetto e maggiore attenzione. È un pubblico tecnologicamente evoluto, in molti casi addirittura
esperto, abituato dalla palestra del Web 2.0 a creare contenuti, a dialogare, a partecipare e per questo non è
più disposto ad accettare messaggi pensati ancora per un destinatario ingenuo, muto e passivo.
Si fa quindi indispensabile, per quelle aziende che vogliano sopravvivere alla giungla informativa e
pubblicitaria che hanno contribuito a creare, lo sviluppo di nuove tecniche di marketing e di comunicazione
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Sovraccarico cognitivo dovuto ad una sovra-esposizione ad informazioni, che comporta una difficoltà nel focalizzare l’attenzione
su informazioni specifiche e nello scegliere tra queste.
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che restino al di fuori di quel flusso comunicativo eccessivo e martellante e che “cambino stato” (viene in
mente Bauman nella sua analisi della contemporaneità come passaggio di stato fisico dal solido al liquido)
per riuscire a destare l’attenzione necessaria e oltrepassare il muro eretto dal consumatore.
L’azienda va incontro al cliente
In uno scenario siffatto le imprese devono chiedersi quale sia il modo più corretto per avvicinare i nuovi
modelli e i nuovi segmenti di consumo e, di conseguenza, quali siano gli strumenti più idonei per perseguire
questo obiettivo e per comunicare con i pubblici che quei modelli determinano. Se è evidente che la
competitività si gioca innanzitutto sulla capacità delle imprese di evadere la tradizionale dicotomia
produttore/consumatore, trasformandola in un dialogo fra agenti paritari, è altrettanto evidente che un fattore
determinante diviene la conoscenza, ossia la capacità di relazionarsi a un livello culturalmente elevato, in
modo da ribadire e rafforzare la propria identità aziendale attraverso un mix di competenze economiche,
industriali, di mercato, sociali, artistiche e filosofiche. Tutte quelle aziende che nel corso dei decenni hanno
proposto un modello d’offerta generalista rivolto a un mercato di massa si trovano oggi di fronte a una
triplice necessità:
avere consapevolezza dell’aumentata caducità delle merci, non più in grado di riproporsi a lungo in
virtù di piccole migliorie incrementali;
sviluppare armonicamente nuovi segmenti di mercato, particolari e diversi fra loro;
rendere compatibile lo sviluppo di questi segmenti con quel mercato di massa che, per quanto messo in
crisi e minacciato dalla presenza di un’offerta molto ricca e “dedicata”, raccoglie comunque la parte più
rilevante, in termini percentuali, dell’utenza complessiva.
D’altra parte, per tutti quei prodotti che oggi per la prima volta si inseriscono in modo diretto e particolare
nel mercato, si manifesta la necessità di individuare con precisione i segmenti di pubblico ai quali possano
rivolgersi e di renderli armonici fra loro, bilanciando correttamente sia i cosiddetti identitari, ossia quei
consumatori fortemente legati al prodotto da una motivazione forte, sia le aree di convergenza e di
sovrapposizione dei segmenti “meno intensi” (appassionati e curiosi), i quali tuttavia costituiscono la parte
quantitativamente più elevata. In entrambi i casi si tratta di un problema di ordine strutturale e di tipo
culturale dal momento che implicano l’assunzione di un diverso atteggiamento nei confronti dei pubblici
vecchi e di quelli nuovi, di un modo di fare e di pensare il marketing che sia differente, nonché l’adozione di
strumenti analitici e gestionali radicalmente nuovi.
In quest’ottica, il tradizionale rapporto top-down deve “sciogliersi” in una relazione capace di instaurare un
legame stabile e onesto fra marca e consumatore, basato sulla conoscenza diretta e reciproca. Poiché il
cliente non è più fedele al marchio, è quest’ultimo che deve diventargli fedele. Si tratta, per le aziende, di un
22
e che allo
cambio di prospettiva che comporta la perdita del loro controllo totalitario e completo sul brand
stesso tempo le induce a mettere a frutto le competenze dei clienti, imparando a considerarli non più come
semplici compratori, bensì come committenti, autorizzati, in quanto tali, a indirizzare la scelta della tipologia
di merci da produrre, della loro qualità e del prezzo a cui venderle. Una necessità di metamorfosi ineludibile
a fronte della centralità assunta nelle dinamiche di mercato da parte dei consumatori; questi, da un lato
tendono a far emergere una qualità totale del prodotto, che, frutto della coniugazione di prestazioni
22
La marca, ossia il nome/simbolo, ma anche il concetto e l’idea, attraverso i quali un’azienda, un prodotto o un servizio si
definiscono e si identificano in maniera precisa, unica o comunque tale da differenziarsi da prodotti/aziende/servizi analoghi.
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funzionali e di attributi immateriali, si basa su una combinazione di indicatori oggettivi e di criteri soggettivi;
dall’altro riportano al centro delle scelte d’acquisto il rapporto fra qualità e prezzo (ciò vale anche per le
fasce di consumatori tradizionalmente poco attente a questo elemento).
Comunque sia, in modo diretto che in modo indiretto, il consumatore è divenuto arbitro del mercato, o
meglio, fattore determinante in grado di orientare l’atteggiamento di mercato verso un prodotto. Come
23
, i mercati sono diventati conversazioni
giustamente intuito nel 1999 dagli estensori del Cluetrain Manifesto
in cui il marketing, la pubblicità, la comunicazione interna e, in generale, i sistemi relazionali basati sulle
strategie e sulle modalità tradizionali non sono più in grado di garantire le imprese nel loro agire di mercato.
Allo stesso modo, gli assets che attribuiscono valore tradizionalmente al brand (la qualità delle materie
prime e della lavorazione, la notorietà, la storia ecc.) diventano deboli e insufficienti, non più in grado di
garantire da soli quello scarto differenziatore con la concorrenza che si traduce da un lato in unicità e in non
confondibilità, dall’altro in vantaggio competitivo. La marca deve dotarsi di altri attributi che vanno
rintracciati in una tensione etica verso, ad esempio, il rispetto dei diritti - per le persone e per l’ambiente -, la
correttezza sui mercati, la trasparenza dei processi e dei comportamenti, l’attenzione per il consumatore. Ma
tutto ciò diventa patrimonio dell’azienda solo concretizzandosi in atti che ne siano una testimonianza: non
basta dichiararsi sensibili, bisogna dimostrare di esserlo. Il brand è quindi inteso come portatore di valori e di
idee, ma anche come luogo e tempo.
In questa dimensione, non solo la pubblicità e il marketing hanno dovuto cambiare in profondità,
rimettendo addirittura in discussione i propri fondamenti, ma anche l’ambiente (il territorio) ove si attuano le
dinamiche relazionali assume funzioni diverse dal passato, divenendo centrale nelle strategie delle imprese:
punto di incontro fra marca e consumatore, dove, che si tratti dello spazio fisico dello showroom e del centro
commerciale o dello spazio emotivo dell’evento o dello spazio immateriale del Web, l’obiettivo primario non
è l’acquisto, ma il tempo e le modalità della permanenza, la durata e la qualità della relazione.
La metamorfosi della pubblicità
In una situazione del genere, estrema e in movimento, per la pubblicità si aprono contemporaneamente una
crisi - poiché è fuor di dubbio che i suoi linguaggi tradizionali, pur rinnovatisi nel tempo, non siano in grado
di rispondere in maniera adeguata a tutte le sollecitazioni del mercato e dei consumatori - e una prospettiva
del tutto nuova, che la induce anche a ripensare il proprio rapporto con i mass media, sovente caratterizzato
da un’osmosi totalizzante, come ad esempio accaduto in Italia con la televisione. La pubblicità viene a
trovarsi nella necessità di smarcarsi, di recuperare decisi ambiti di autonomia relazionale con il pubblico,
evitando di appiattirsi sui meccanismi di aggancio dei media generalisti, troppo vulnerabili e quindi troppo
rischiosi. Diventa essenziale iniziare a pensare il pubblico per quello che è, un insieme di minoranze,
aggregazioni comunitarie di persone unite da gusti e da valori, da mode e da tendenze, alle quali rivolgersi
in modo da stimolarne il senso di appartenenza, di condivisione, di sensibilità o di partecipazione. Ed è
quello che la pubblicità fa iniziando a utilizzare in maniera profilata i media generalisti, cioè elaborando
messaggi rivolti non a tutto il pubblico presente in una data fascia oraria davanti al teleschermo, ma solo ad
una parte di esso. Mentre prima, pienamente in logica con la programmazione generalista, si formulavano
messaggi pubblicitari muovendo dalle peculiarità culturali del pubblico preponderante nelle singole fasce
orarie, salvo renderli più complessi per avvicinare gli altri pubblici presenti, senza tuttavia perdere quello
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Testo programmatico in 95 punti pubblicato nel 1999 da un gruppo di comunicatori d’azienda, guidati da Rick Levine. Muovendo
dal presupposto che i mercati sono conversazioni, l’intero sistema di relazioni imprese-consumatori viene “smantellato” a favore di
una visione del mercato e del marketing democratica, in cui il punto di vista dell’utente acquista il giusto peso nelle decisioni
aziendali.
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principale, adesso non si tralascia nessuno dei target presenti in video, ma ci si rivolge a ciascuno di essi
utilizzando i linguaggi specifici di ognuno e quindi escludendo automaticamente gli altri target. Insomma,
pur se trasmesso in un media generalista, non importa che tutti capiscano il messaggio, ma è fondamentale
che tutti quelli per cui lo si è elaborato lo comprendano bene.
Per perseguire questa nuova strategia di dialogo la pubblicità segue fondamentalmente quattro strade
(Pitteri, 2006). La prima è tradizionalista, con ricorso frequente a stili, modi e linguaggi noti del passato,
seppur usati con una certa attenzione in direzione della credibilità e dell’autorevolezza (ad esempio la
campagna Paradiso di Lavazza con la coppia Bonolis-Laurenti). È il viatico per mantenere un rapporto con
quella parte di pubblico poco dinamica, ma attenta, che ha una relazione forte ma non totalizzante ed
esclusiva con la televisione e che, pur diminuendo progressivamente, costituisce ancora una quota
importante di utenza.
24
,
La seconda strada punta sul coinvolgimento, che persegue ricorrendo in maniera diffusa ai testimonial
rintracciati prevalentemente fra i campioni dello sport e in categorie precise di divi televisivi, come ad
esempio i nuovi comici (i calciatori Francesco Totti e Rino Gattuso per V odafone, l’attore comico Claudio
Bisio per Pronto PagineGialle). Qui si mescolano elementi apparentemente contrastanti, che tuttavia
sortiscono effetti di un certo interesse: da un lato, infatti, quasi tutte le campagne hanno un impianto
tradizionalista, mentre dall’altro sono efficacemente innovative, perché scientemente concentrano tutta la
forza comunicativa sul testimonial, nascondendo in lui il prodotto.
25
, colui che deve
Non è la merce a dover parlare, ma il personaggio: è lui la vera star, è l’opinion maker
catturare l’attenzione del pubblico che in lui si riconosce non per emulazione ma per condivisione. Gli stili,
pur dentro un’impianto generalmente tradizionale, sono tuttavia profondamente differenti: ogni campagna
non può che essere incardinata in maniera estrema sul personaggio, poiché ogni testimonial è un fascio di
significati - modelli, comportamenti, gusti, posizioni - da comunicare, da trasferire a tutti coloro che a quegli
stessi significati indirizzano una parte della costruzione di sé. Cosicché l’accettazione del prodotto non è
altro che la conseguenza di un processo di riconoscimento.
La terza strada percorsa fa invece leva sull’appartenenza, sperimentando anche in media di massa, come la
televisione, tattiche di natura comunitaria (TIM Tribù). Il linguaggio e lo stile fungono generalmente da
segnale e da chiave interpretativa, mentre il prodotto costituisce il territorio di convergenza per tutti coloro
che quella chiave sanno usare, il punto di riunione della tribù. È una strategia che, pur non rendendolo
protagonista del meccanismo comunicativo, mette in gioco il prodotto, caricandolo, grazie alla pubblicità, di
valori e di suggestioni determinate e determinanti. Fare uso del prodotto, impossessarsene, significa evocare
un senso di primordiale comunione, un richiamo che induce a tornare all’origine, a congiungersi ai propri
simili. Al centro del contesto linguistico generato da queste campagne vi sono, infatti, i destinatari, gli
spettatori, gli utenti, i clienti. Sono loro che parlano e si rivolgono solo a chi è in grado di comprenderli,
destinatari precisi con i quali intessere una complicità assoluta, totalizzante.
L’ultima strada è quella più estrema sotto il profilo pubblicitario, ma anche la più innovativa, sotto il
profilo delle dinamiche comunicative. La pubblicità diventa mediatore relazionale non più fra le merci e i
26
, al quale è poi delegato il contatto con il pubblico, la
consumatori, ma fra i consumatori e l’evento
costruzione del vero dialogo (es. Cornetto Festival). È una nuova modalità di interpretare il proprio ruolo,
24
Procedimento pubblicitario che consiste nell’associazione di una persona ad un prodotto. Per traslazione, con il termine è indicato
il personaggio pubblico la cui immagine viene utilizzata in una data pubblicità.
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Individuo che grazie al prestigio socio-culturale di cui gode produce e/o diffonde opinioni all’interno della propria comunità di
appartenenza o riferimento.
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Situazione di tipo “rituale” costruita allo scopo di rafforzare l’adesione dell’individuo a un gruppo sociale o ad un’identità culturale
(ad esempio Woodstock, New York City Marathon ecc.). Si tratta di sistemi comunicativi che esistono e funzionano a prescindere
dal sistema della comunicazione di massa.
25