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Premessa
Il complesso sistema delle fonti normative in materia di diritto alla difesa.
La presente tesi ha ad oggetto la disamina del diritto di difesa nel processo penale,
quale principio inviolabile riconosciuto dalla Carta costituzionale all’art. 24.
L’interesse verso tale tema scaturisce dalla posizione di garanzia di questo rispetto a
tutti i diritti fondamentali dell’uomo sanciti nella Carta Costituzionale e di
baricentro dei mezzi di garanzia dei diritti e delle norme organizzative destinate a
dare concretezza alla tutela della libertà.
Invero, garantire la possibilità di adire l’autorità giurisdizionale per la tutela di
propri diritti ed interessi legittimi equivale a consacrare quel modello di civiltà
giuridica e democratica cui aspiravano i Padri Costituenti allorquando posero a
valore di base del sistema costituzionale positivo la persona umana e la sua tutela.
La portata peculiare del diritto alla difesa scaturisce non solo dalla sua natura di
sede imprescindibile di affermazione della dignità umana nell’ambito dei sistemi
democratici, ma anche dalla singolare interazione e coordinamento delle norme e
della giurisprudenza tra diritto statale, comunitario ed internazionale.
Ciò ha comportato nella redazione del presente elaborato la suddivisione delle
tematiche in due linee fondamentali, la prima incentrata sullo sviluppo interno dei
diritti fondamentali riconosciuti alla persona, ed in particolare il diritto alla difesa e
le sue specificazioni all’interno dell’art. 111 Cost., così come riformulato dal
Legislatore Costituzionale del 1999; la seconda è tesa ad esplicare l’articolato
sistema multilivello di tutela entro cui trova riconoscimento e garanzia il diritto in
oggetto.
Dalla lettura del testo agevolmente si evincerà un taglio nell’analisi della materia,
proprio in considerazione della molteplicità delle questioni ad essa connesse, e della
impossibilità di poter trattarle tutte in modo esaustivo. Lo schema di sotto proposto
vuole, pertanto, essere di agevolazione alla comprensione del nucleo essenziale da
cui la presente tesi prende l’avvio.
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Le problematiche sottese, dunque, al primo capitolo concernono anzitutto la
costruzione teleologica del diritto di difesa durante i lavori in Assemblea
Costituente, avendo riguardo da una parte ai fondamenti linguistici di una
formulazione – quale quella dell’art. 24 Cost. – che si contraddistingue per la sua
ampiezza e genericità, e dall’altra, al contesto storico, giuridico, sociale entro cui
veniva ad immettersi una norma, che, considerate le caratteristiche sopra citate, già
riecheggiava l’apertura verso un modello ordinamentale volto all’introduzione dei
canoni internazionali che contemporaneamente si andavano diffondendo nel mondo
occidentale1.
Si deve rilevare che proprio la ridetta norma, nell’attività giusdicente della Corte
Costituzionale, ha consentito, in epoca antecedente alla riforma del Giusto processo
(L.Cost. nr. 2/1999), di rendere operanti le garanzie giurisdizionali dell’imputato,
pure non previste esplicitamente dagli artt. 24-111 Cost.; essa, in pratica, ha
funzionato da chiave di volta e da collante tra la garanzia di tutela del diritto di
difesa e la realizzazione della giustizia, quale diritto incomprimibile della persona
umana, edificando così una norma di pari contenuto rispetto all’art. 6 della
C.E.D.U. – all’epoca ritenuto di forza eguale alle leggi ordinarie – ma interno al
nostro ordinamento ed inserito tra i principi supremi dello stesso.
Dopo aver esaminato le garanzie sottese all’art. 24 Cost., nel secondo capitolo è
stato dapprima attenzionato il periodo di transizione del sistema giudiziario italiano,
avutosi nel corso degli anni novanta, avendo particolare riguardo alle peculiari
contingenze verificatesi in quegli anni; alla diatriba sorta tra dottrina (e avvocati) e
giurisprudenza sul significato di giusto processo, in assenza di una norma
costituzionale che lo esplicitasse ed, infine, all’introduzione del rito accusatorio.
Più specificatamente, sono state prese in considerazione le c.d. sentenze
“additive”della Consulta che hanno fondato sulla ricerca della verità, intesa quale
specificazione del principio di non dispersione delle prove raccolte, anche al di fuori
1
Calamandrei raffigurò l’art. 11 della Costituzione come una “finestra”, dalla quale “si riesce a
intravedere, laggiù, quando il cielo non è nuvoloso, qualcosa che potrebb’essere gli Stati Uniti
d’Europa e del Mondo”.
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del dibattimento, la decisione giusta, e, quindi, quel giusto processo avuto di mira
dal modello internazionale che con sempre più forza chiedeva la sua osservanza.
Il primato riconosciuto dalle pronunce dei giudici costituzionali al principio di non
dispersione della prova, e, dunque, a quello dell’efficienza giudiziaria, sulle
garanzie imposte dal contraddittorio, e più in generale, dal diritto di difesa e
dall’egalitès des armes, risultava intimamente dissonante con la cornice
costituzionale di riferimento, la quale – per specifico intento dell’Assemblea
Costituente – aveva anteposto nella scala gerarchica dei diritti la persona e i suoi
diritti inviolabili.
Per tali motivazioni si è addivenuti alla riforma sul giusto processo con la legge
cost. nr. 2 del 1999, la quale non solo ha consentito l’ingresso delle disposizioni
proprie della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti umani e delle
libertà fondamentali, ma ha altresì fatto assurgere il principio del contraddittorio tra
le parti, anche nella formazione della prova, a fondamento di tutti i procedimenti
giurisdizionali, dissolvendo, quindi, definitivamente le ostilità di quella parte della
magistratura che mal si era adattata al metodo dialettico di formazione della verità
processuale.
Nella seconda parte, si è analizzato il quadro internazionale entro cui viene ad
inscriversi la disciplina costituzionale, nel pieno convincimento della rilevanza che
hanno avuto, nel processo di riforma costituzionale italiana, le pronunce della Corte
Europea dei diritti dell’uomo, che, rinunciando alla posizione elitaria pur
posseduta, ha saputo con gran maestria accogliere in se stessa il principio più
coerentemente democratico del dialogo con le altre Corti, e quella di Giustizia e le
singole Corti nazionali, andando così a comporre un sistema mobile di diritto
processuale, che racchiude in sé le grandi tradizioni giuridiche europee, di civil law
e di common law.
Tanto equivale a significare che la Corte europea non solo si è posta come suo fine
ultimo la effettiva realizzazione di un diritto ad un processo equo, ma, con le sue
sentenze, ha altresì tracciato il percorso mediante il quale raggiungere tale obiettivo;
in particolare sul tema delle prove, ha intrapreso l’iter di lenta ma costante
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omogeneizzazione dei sistemi processuali di matrice inquisitoria e accusatoria, al
fine di soddisfare contemporaneamente le diverse esigenze del garantismo della
posizione dell’imputato/indagato e del pieno accertamento dei fatti costituenti reato.
I giuristi italiani, che in precedenza avevano esaminato la Convenzione, per lo più
al fine di classificare la stessa all’interno del sistema delle fonti normative nazionali,
oggi la pongono al centro di studi interessanti sotto il profilo della forza vincolante
delle sentenze di condanna emesse dalla Corte europea per la salvaguardia dei diritti
dell’uomo negli ordinamenti statali.
Tale mutamento, in realtà comune a tutti gli Stati facenti parte del Consiglio
d’Europa, è stato originato dalla comune consapevolezza di condividere un affine
quadro di valori fondamentali, che si è man mano edificato attraverso l’azione
creativa, interpretativa e giusdicente della Corte europea.
Nel contesto sovranazionale, è emerso in modo sempre crescente l’interesse
dell’Unione Europea verso un settore, quello della giustizia, ed in via generale,
quello dei diritti della persona, culminato il 12 dicembre 2007 nel Trattato di
Lisbona che ha visto finalmente legittimato il potere sovrano dei cittadini europei,
attraverso una maggior rappresentanza democratica negli organismi comunitari, ma
soprattutto ha reso la Convenzione europea dei diritti dell’uomo norma interna al
diritto comunitario congiuntamente alla proclamazione del valore giuridico, e non
più solo politico, della Carta di Nizza.
Tale processo di integrazione dei diritti umani, e con questi, il diritto alla difesa, in
un sistema multilivello di tutela finalmente sta convergendo verso un comune
approdo, ove i diversi ordinamenti hanno saputo individuare il nucleo essenziale e
portante dell’intera struttura nella centralità della persona umana2.
Il valore della dignità umana stabilito nei principi fondamentali della nostra
Costituzione, scaturente da ragioni storiche, culturali, strutturali ed anche personali
2
E’ fondamentale muoversi dalla considerazione che se i diritti fondamentali sono, a differenza di
altri diritti soggettivi, norme fondamentali per essi e attraverso essi è in gioco l’intero ordinamento
giuridico.
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della tradizione giuridica italiana3, non può e non deve essere oggetto di revisione
rischiando altrimenti uno snaturamento dello stesso diritto costituzionale.
La nostra Costituzione ha il grande merito di aver saputo tendere verso il futuro,
anticipando le odierne istanze, e ciò vale a significare che la c.d.
internazionalizzazione dei diritti umani e del costituzionalismo non deve
comportare il superamento della Carta costituzionale, ma al contrario deve imporre
a tutti gli operatori del diritto una rivalutazione di essa, quale terreno ancora fertile
per tutelare – attraverso l’effettività degli strumenti di tutela giurisdizionale – i
diritti fondamentali della persona umana in un’area aperta ai rapporti
sopranazionali.
3
Nello stesso senso si è espresso LOIODICE A., nel Convegno di presentazione del libro “Fede e
libertà”, tenutosi presso l’Aula Aldo Moro dell’Università degli Studi di Bari il 28.01.2008.
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CAPITOLO PRIMO
LA GARANZIA COSTITUZIONALE DEL DIRITTO ALLA
TUTELA GIURISDIZIONALE
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1.La costituzionalizzazione dei diritti fondamentali dell’individuo nella
prospettiva del Legislatore Costituente.
Le moderne Carte Costituzionali hanno qualificato diversamente i diritti
fondamentali in esse inscritti non solo rispetto ai diritti naturali, ma anche rispetto a
quelli delle dichiarazioni sette-ottocentesche.
Tanto si era reso necessario perché, così come osservava Dossetti nel 1946, “certi
eventi di proporzioni immani erano ancora troppo presenti alla coscienza
esperienziale” per non spingere ad ancorare quei diritti a elementi meno soggetti
alle oscillazioni determinate dai cambi delle maggioranze al potere4.
Per far ciò, le nuove Costituzioni si rivolgevano non solo agli individui, per
regolarne i loro reciproci rapporti, ma anche allo Stato, al fine di stabilirne i limiti e
il contenuto del suo intervento in qualità di legislatore, amministratore e giudice.
Costituzionalizzare i principi fondamentali appartenenti a tutti gli individui
equivaleva a porli a parametro di costituzionalità di ogni altra norma e, allo stesso
tempo, a forza razionalizzante della democrazia. Di uguale opinione è Cassese,
allorquando mirabilmente definisce i diritti fondamentali, e più in generale i diritti
umani5, come “il moderno tentativo di introdurre la ragione nella storia”6 .
Si trattava in realtà di offrire agli Italiani7 un catalogo dei diritti inalienabili: scritto,
dotato di forza vincolante, di facile lettura, attento agli errori del passato e già
rivolto ad un futuro in cui si sarebbe dovuto confrontare in un contesto più ampio
4DOSSETTI GIUSEPPE, Costituzione e resistenza, a cura di Nicola Colaianni, Roma, Sapere
2000, 1995, pag. 195.
5
ONIDA V., in La Costituzione, La legge fondamentale della Repubblica, Il Mulino, Bologna,
2004, pag. 8, riprendendo una formula utilizzata all’art. 16 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo
e del cittadino, ammonisce che: <<Un popolo, che non riconosce i diritti dell’uomo e non attua la
divisione dei poteri, non ha Costituzione>>; già dalla dichiarazione del 1789 traspare il concetto
che i diritti dell’uomo .sono per natura spettanti a tutti gli individui, e quindi compito del legislatore
era solo quello di riconoscerli e non anche di concederli “graziosamente”.
6
CASSESE ANTONIO, I diritti umani nel mondo contemporaneo, Roma-Bari, Laterza, 1994, pag.
80.
7
Sul punto accennava Moro “alla necessità, particolarmente sentita nel Mezzogiorno, che la
Costituzione dica al popolo italiano quali sono gli inalienabili diritti che debbono essere difesi”, in
La Costituzione della repubblica nei Lavori preparatori dell’Assemblea Costituente, Ed. Camera
dei Deputati, 1976, sed. pom. 10 settembre 1946.
16
rispetto ai confini nazionali8, vale a dire in un ordinamento non più nazionale ma
pluridimensionale9 (di cui meglio si tratterà di qui a poco).
Una delle caratteristiche più peculiari della Costituzione italiana risiede non solo
nella sua natura notevolmente articolata10, ma altresì nella utilizzazione di
proposizioni di così ampio raggio da poter fronteggiare anche le problematiche che
nel corso degli anni sono andate via via emergendo, palesandosi come norma
immersa in una realtà dinamica costantemente in divenire.
Questo essendo il fine avuto di mira nell’elaborazione del testo costituzionale, si
optò per una “norma a fattispecie aperta”(l’art. 2 Cost.11), che ambiva, già per la sua
interpretazione letterale, ad una forma di elastico ingresso12 nell’ordinamento
nazionale di quei diritti che di lì a breve sarebbero divenuti i c.d. diritti delle
8
ONIDA V., in La Costituzione, la legge fondamentale della Repubblica, Bologna, Il mulino,
2004, pag. 111, rammenta la forte ispirazione internazionalistica della Costituzione del 1947,
proprio perché emanata in un “periodo storico, immediatamente successivo alla Seconda guerra
mondiale, in cui si operò il massimo sforzo per disegnare una evoluzione dell’assetto internazionale
coerente con gli ideali del costituzionalismo”.
9
Secondo il pensiero di Moro, ricostruito sapientemente da LOIODICE A. e PISICCHIO P., in
Moro e la Costituente, Principi e libertà, Edizioni Scientifiche italiane, 1984, pag. 5,<<la
dichiarazione della dignità umana, della solidarietà sociale, dell’autonomia delle associazioni
umane>> devono rientrare nell’articolato costituzionale in qualità di principi immutabili supremi
compresi nelle norme giuridiche superiori e non anche come mero preambolo storico-politico,
“poiché i principi dominanti della nostra civiltà e gli indirizzi supremi della nostra futura
legislazione devono restare in sede giuridica” quale sicuro criterio di orientamento per il legislatore
“per una lotta che non è finita adesso e che non può finire, lotta per la libertà e la giustizia sociale”.
10
L’articolato costituzionale ad ogni buon conto ha saputo mantenere, seguendo quello che era
stato il rigido proposito dei Costituenti, la natura generale ed astratta, ponendosi quindi ben al di
sopra delle leggi ordinarie.
11
Di opposto parere è la teoria del MARTINES T., in Diritto Costituzionale, Giuffrè, Milano,
1998, pag. 760, allorquando ritiene preferibile la tesi secondo la quale l’art. 2 vada interpretato “nel
senso che i diritti inviolabili dell’uomo sono soltanto quelli espressamente garantiti da altre
disposizioni costituzionali”.
12
In realtà in dottrina è tutt’ora una questione aperta quella relativa al valore da attribuire all’art. 2
Cost., in quanto alcuni sostengono che debba trattarsi di una formula riassuntiva (o di chiusura) di
tutte le libertà garantite espressamente nelle successive disposizioni analitiche (artt. 13 e ss.),
ovvero debba “rinvenirsi in questa disposizione una fattispecie aperta, un principio che non si
esaurisce nelle libertà espressamente garantite ma in grado di ricomprendere tutte le nuove
domande di libertà che vengono fatte proprie dalla coscienza sociale e progressivamente
riconosciute attraverso l’azione della giurisprudenza o del legislatore ordinario” (BARBERA A.,
COCOZZA F., e CORSO G., Le libertà dei singoli e delle formazioni sociali. Il principio di
eguaglianza, in AMATO G. e BARBERA A., in Manuale di diritto pubblico, il Mulino, Bologna,
1986, pag. 207).