CAPITOLO 1 - CENNO BIOGRAFICO
1.1 LA VITA DI PIETRINO
Figura 1. Castello di Baiso, 1970.
1.1.1 I primi anni
Pietro Bianchi nacque a Fontanelle (Roccabianca) il 24 giugno 1909, da Narciso,
fornaio di 31 anni, e Maria Provinciali, casalinga di 27 anni. La sua famiglia era
benestante, in paese era conosciuta e i piccoli amici accusavano spesso Pietrino di
essere “un signore”. Già alle elementari meravigliava le maestre per la fantasia e la
febbrile voglia di leggere, che rappresenterà la base di tutta la sua cultura. Dopo le
medie, Pietro venne iscritto al ginnasio dei padri salesiani, a Parma, e sistemato nel
collegio dei religiosi, nel convitto di Via Aurelio Saffi. Nel 1922 i genitori si
trasferirono a Parma, dove aprirono un forno in Via Vittorio Emanuele. L‟anno
successivo Pietrino si trasferì al liceo classico Romagnosi, alla quarta ginnasio sezione
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B. Qui emergerà il suo amore appassionato per le donne, per il confronto culturale con
gli amici, le discussioni letterarie, la brama di sapere tutto e subito. E accanto alla
letteratura, Pietro avrà un‟altra bruciante passione, fin da giovanissimo: il cinema.
A suo padre piaceva la compagnia del figlio e lo portava, al pomeriggio della
domenica, regolarmente al cinematografo, a vedere i film di Ghione, Albertini e
Guazzoni. In questa iniziazione ben presto a Narciso si affiancò Augusto, il babbo di
Giovannino Guareschi, che d‟estate girava con una macchina per trebbiare il grano, che
produceva l‟energia necessaria ad azionare la macchina da proiezione. Faceva
appendere il telone al muro di un‟aia, scelta perché chiusa, e quando la stagione della
trebbiatura del grano finiva la macchina a vapore serviva per il „cine‟. A meno di
vent‟anni dalla mirabolante invenzione dei fratelli Lumière, Pietrino racconta, nella sua
opera All‟ombra di Sainte-Beuve (Le Guglie, Serie Diari, Milano 1971), che la Bassa
parmense era già colonizzata: “Il padre di Guareschi era molto popolare. Tra i primi
aveva introdotto in paese le macchine agricole e il cinematografo. Andava da cascina
in cascina, attaccava al muro di fondo un telone bianchiccio, ed ecco che, a prezzo
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mitissimo, si vedevano le prime donne fatali e le comiche di Max Linder”. Maurizio
Chierici pone l'accento sulla parentela: “Pietro era cugino di Guareschi, avevano la
casa uno di fronte all‟altro. Il padre di Guareschi faceva tanti mestieri, soprattutto
d‟estate andava in giro con un proiettore a far vedere i film nelle aie”. Anche a Parma,
Pietro, un po‟ cresciuto, poteva assistere al nuovo ed emozionante spettacolo, perché i
padri salesiani, di cui era allievo i primi tre anni di ginnasio, nel collegio San Benedetto,
premiavano gli scolari più diligenti con il permesso di frequentare il cinematografo
destinato ai semi-convittori.
Passato poi dai salesiani al Romagnosi, Bianchi non fu più solo un iniziato della
nuova arte. Diventò iniziatore.
1.1.2 Prime amicizie ed idee
Il primo vero, importante amico che troviamo nella vita di Pietrino è un nome noto,
si chiama Attilio Bertolucci. I due si conobbero nella biblioteca di Via Farini, nel 1925,
quando Bertolucci aveva solo quattordici anni e Pietro sedici. I libri, insieme alla
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Pietro Bianchi, All‟ombra di Sainte-Beuve, Le Guglie, serie Diari, Milano 1971, p. 139.
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scuola, il liceo dove qualche tempo dopo si iscrisse anche Attilio, li legarono
strettamente. Bianchi andava pazzo per gli autori francesi, come Goncourt, Valéry,
Baudelaire, Verlaine, ed entrambi amavano i romanzi gialli e polizieschi. Furono
proprio i francesi, o meglio le riviste francesi, a fornire ai due giovani le uniche, per
molto tempo, notizie sul cinema e sulle nuove uscite, quando ancora i giornali italiani
non ne scrivevano. Precisa Maurizio Chierici: “Lui amava molto il cinema francese
perché la sua cultura era francese, anche perché la cultura di chi è cresciuto
nell‟Europa tra il ‟20 e il ‟50 era una cultura francese o tedesca, ma lui non sapeva il
tedesco, mentre il francese lo leggeva”.
Bianchi donò il cinema a Bertolucci, lo avviò alla scoperta di un‟arte che avevano la
fortuna di veder nascere e crescere; in compenso, Bertolucci donò a Pietrino Marcel
Proust: aveva acquistato i volumi della Recherche a Venezia, non ancora tradotti, e non
appena li passò all‟amico si accese un amore a prima vista. Insieme ne tradussero alcuni
brani e Bianchi si spinse oltre: insieme a Nino Gaetano Serventi, un giovane colto di
qualche anno più vecchio, chiese all‟editore francese l‟esclusiva della pubblicazione in
italiano. A Parigi la proposta venne accettata, ma il progetto editoriale, che sarebbe
consistito nel primo, grande successo di Pietro (così come lo era stata l‟intuizione) morì
per timore dei costi troppo gravosi.
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1.1.3 Luoghi di ritrovo culturale: i caffè
Figura 2. Parma, 1949. Da sinistra: Maurizio Alpi, Attilio Bertolucci, Pietro Bianchi, Tito Di
Stefano.
La permanenza di Pietro al Romagnosi fu molto lunga, durò dal 1923 fino al 1931. Il
primo anno scolastico coincise con il periodo in cui si diede con foga ad una miriade di
letture diverse, dai classici francesi, ai più acuti autori della letteratura europea e
americana, e a settembre si ritrovò bocciato in latino perché troppo preso dai suoi
interessi per studiare. Il passo falso comunque non gli tolse quell‟alone di prestigio
culturale che godeva già tra i giovani di Parma, che lo incontravano in Via Farini e si
facevano consigliare libri da lui, oppure ascoltavano affascinati le dispute verbali,
letterarie e cinematografiche, in cui si scontrava con Bertolucci. L‟anno seguente riuscì
a recuperare un po‟ d‟attenzione ed ottenne una buona promozione, così come nel
„25/26 passò in prima liceo, nonostante gli svaghi attraenti delle donne, del biliardo, del
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cinema e delle letture. Nel 1927/28 Bertolucci lasciò il Maria Luigia e si iscrisse anche
lui al Romagnosi, mentre Pietrino fu bocciato in matematica e fisica, le sue bestie nere.
Nel 1928/29 successero cose che sconvolsero la vita di Bianchi e ne rimandarono il
diploma fino al 1931.
Cominciò per lui, e per i suoi compagni, il periodo magico dei caffè. Il primo, il caffè
San Paolo, in Via Cavour, gli fece conoscere un altro grande amico, Maurizio Alpi, che
aveva frequentato il Romagnosi, ma era rimasto staccato sia da lui sia da Bertolucci.
Alpi amava il cinema come Pietrino e amava il jazz come Attilio, e i tre divennero ben
presto inseparabili, grazie a questi interessi. Interessi che oggi possono sembrare
comuni, ma così non erano quando i film ancora si chiamavano semplicemente pellicole
e venivano considerate attrazioni di serie B, tanto quanto veniva snobbata la musica
afroamericana. L'attività dei musicisti jazz fu molto limitata dalle autorità del tempo,
soprattutto dopo l'entrata dell'Italia nella seconda guerra mondiale, poiché furono
censurati e banditi tutti i prodotti degli avversari americani e dei neri, razza considerata
dal regime fascista inferiore a quella ariana. Del fatto che questo genere musicale era
inviso al regime i tre amici non si curarono affatto, continuando ad occuparsene e ad
amarlo anche se era contro le regole, con quella forza sovversiva e insieme un po‟
poetica data dalla passione. Pietrino scrisse sulle pagine di All‟ombra di Sainte-Beuve:
“Il jazz rompeva i ponti con le vecchie retoriche, era una creazione spontanea, senza
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passato, che affratellava la gente in un culto privo di tradizioni, di legami, di leggi”. E
questo basta per capire che, regime o non regime, non vi avrebbe rinunciato.
Ci volevano gusto e coraggio per manifestare quelle passioni, di cui Bertolucci e
Bianchi, per Alpi, furono i maestri. Insieme assistettero, al cinema Orfeo, alla Grande
Parata di King Vidor (The Big Parade, 1925), in cui le fasi salienti della pellicola erano
accompagnate dal suono di un‟orchestrina, e la grancassa e i piatti servivano a dare la
sensazione delle cannonate e dei proiettili. Sensazioni bellissime per i tre ragazzi, che
divennero spettatori insaziabili, e che spinsero Pietro e Alpi, nel 1931, a Roma, per
vedere al cinema Barberini la prima proiezione di un film sonoro in Italia: Ombre
bianche di William Strong Van Dyke (White Shadows in the South Seas, 1928). Il suo
amico e collega Bruno Rossi ricorda perfettamente l‟impresa: “Quando è comparso il
primo film parlato lui era ancora un ventenne e, insieme a Maurizio Alpi, è andato in
5
Pietro Bianchi, All‟ombra di Sainte-Beuve, Le Guglie, serie Diari, Milano 1971, p. 27.
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treno fino a Roma per vederlo, dormendo sopra i portabagagli di terza classe, perché
nessuno dei due aveva molti soldi”.
Ecco cos‟era disposto a fare Pietrino per contemplare quella pellicola, non ancora
giunta in provincia a causa degli elevati costi degli impianti. Il cinema lo rendeva
azzardato, incosciente, impaziente e lo distraeva persino dalle bellezze di una città come
Roma, che lui non ammirò, rinchiuso nella sala da proiezione, di cui amava ogni
particolare, soprattutto le attrici. Nel periodo tra le due guerre stravedeva infatti per
Carole Lombard e per Myrna Loy. Rossi commenta le sue divertenti esplosioni in
dialetto: “Era innamorato di Myrna Loy e quando la vedeva apparire sullo schermo si
alzava in piedi in mezzo alla sala e gridava <<Myrna, sema chi!>>”.
Dopo le poltroncine dei cinema, i luoghi che a Pietro piaceva maggiormente
frequentare erano, come si era accennato, i caffè, che in quel periodo pullulavano di
scrittori, poeti, letterati, saggisti, pittori, architetti, giornalisti, editori. I primi frequentati
dalla colonia d‟intellettuali furono il Marchesi, che si trovava al confluire di Via
Repubblica con Piazza Garibaldi, il Centrale, ribattezzato da Guareschi “caffè della
Legione Straniera”, il già nominato San Paolo e il Tanara, in Piazza Garibaldi. Il caffè
Centrale fu molto amato da Bianchi: era elegante, lucido, tenuto benissimo, il primo
della città, e lui e altri ragazzi, a cavallo tra liceo e università, si ritrovavano lì a parlare
di teatro, ragazze, letteratura, guerra. Dopo il ‟29 e la crisi di Wall Street, che arrivò
anche a Parma, portando impoverimento e depressione, si trasferirono al più economico
San Paolo, dove Pietrino continuava a tenere banco tra le discussioni con la sua voce
acuta, i suoi giudizi taglienti, le sue battute implacabili, le lezioni da veterano del
cinema. Intorno a lui il cugino Guareschi, Bertolucci, Soldati, Delfini, Paci, erano tutti
spiritosi ed intelligenti, ma nessuno monopolizzava in egual modo la scena: Pietro era
un incantatore aggiornato in ogni campo e il pittore Soldati, che spesso andava a Parigi,
era il suo inviato all‟estero, da cui carpiva le notizie. Si interessava di tutto e faceva
interessare tutti, tanto che Bertolucci lo definiva un piccolo Socrate, un grande scrittore
orale la cui opera più riuscita si è dispersa tra tavolini e tazzine, che sapeva tirare fuori il
meglio dalle persone. “Tutti noi che abbiamo partecipato a questa amicizia abbiamo un
pentimento” racconta Bruno Rossi “Lui scriveva benissimo, belle pagine piacevoli, ma
il meglio di sé lo dava nei ristoranti e nei bar come parlatore nelle discussioni: le sue
conversazioni erano da registrare, perché erano meglio degli articoli”.
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Un po‟ come fece, nel corso della sua vita, Oscar Wilde, che disse una volta al suo
amico André Gide: “Volete sapere qual è stato il grande dramma della mia vita? E‟ che
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ho messo tutto il mio talento nelle opere, e tutto il mio genio nella vita”.
Bianchi non si limitò ai caffè parmigiani, anzi, trascinato da Attilio Bertolucci, un
vero scopritore di mode, allargò i suoi orizzonti e spostamenti fino alla Versilia, dove
passò ad un‟altra colonia di letterati seduti all‟ombra dei platani di Forte dei Marmi.
Erano i primi tempi della famosa discoteca, la Capannina di Franceschi, i tempi di
Curzio Malaparte e della famiglia Crespi, padroni del Corriere. Bertolucci lanciò un
ponte fra la società letteraria parmigiana e quella fiorentina al caffè Roma, che diventò
la versione estiva dei ritrovi casalinghi, mentre la Capannina divenne il ritrovo notturno,
grazie ai dischi rari di jazz posseduti dal giovane poeta, che Franceschi amava far girare
sul grammofono del suo locale. Pietro all‟inizio preferì rimanere a Parma nei mesi caldi,
poiché amava la città deserta e gli spettacoli estivi del teatro Reinach, poi si convertì,
come gli amici, alla Versilia, e non se ne stancò più: la frequentò per tutta la vita,
comprò una casa là, ma non mise quasi mai piede in spiaggia. Si fece subito notare per
il suo sarcasmo, il suo spirito e la sua conoscenza e si trovò a suo agio come al San
Paolo. “Ci trovavamo al Caffè Roma” racconta Maria Pia Manenti “Che adesso è un
Caffè come tutti gli altri, ma prima era pieno di artisti e letterati che Pietro conosceva,
lui aveva una cerchia di amici di livello culturale elevatissimo”.
Ma la Versilia non fu solo un‟occasione di vacanza, fu soprattutto un modo per fare
conoscenze importanti, per stringere nuovi rapporti con intellettuali ed editori (Garzanti,
Fabbri e Mondadori erano habituè), per collaborare con riviste o pubblicare libri. Era
inoltre un modo per immagazzinare giorni felici prima della seconda guerra.
1.1.4 Laurea
Conseguito il diploma nel 1931, Pietro si iscrisse alla facoltà di Giurisprudenza,
all‟università di Parma, dove però in due anni diede un solo esame, di filosofia del
diritto; si trasferì poi all‟ateneo di Ferrara per frequentare i corsi di scienze sociali,
sempre nell‟ambito della facoltà di Giurisprudenza. Restò iscritto per due anni, il tempo
sufficiente per conoscere un personaggio ancora ignoto al mondo del cinema:
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Richard Ellmann, Oscar Wilde, Mondadori, Rocca San Casciano, 2001, p. 149.
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Michelangelo Antonioni. Nel 1935 Bertolucci venne a sapere che aveva iniziato ad
insegnare storia dell‟arte, nella facoltà di Lettere di Bologna, Roberto Longhi e, mosso
dal desiderio di assistere alle sue lezioni, dopo quattro anni di Giurisprudenza a vuoto si
iscrisse là. Pietro lo imitò subito ed entrò nel piccolo gruppo di allievi eletti, allargando
ancora di più il giro di conoscenze intellettuali. Lo ricorda con tenerezza nel libro
intitolato All‟ombra di Sainte-Beuve: “Prima all‟Università di Bologna, e per le vie
allora tranquille e nei caffè cari ai docenti e agli allievi dell‟Alma Mater, poi al
cineclub di Imola, tra le prime iniziative nostrane in fatto di cultura filmica, e poi ogni
anno a Forte dei Marmi e dintorni, non so separare la mia vita adulta dal ricordo
dell‟indimenticabile maestro e amico. Distaccato e anche scontroso con gli importuni,
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Roberto Longhi era molto affettuoso con i giovani e gli ex-giovani della sua cerchia”.
Nel 1936/37 abbandonò il corso di Lettere e si iscrisse a Filosofia, a cui si
appassionò. Collezionò risultati brillanti fino alla laurea, che ottenne con il massimo dei
voti e la lode il 19 giugno 1940, con una tesi su Georges Sorel, scrittore, filosofo e
uomo politico francese che aveva ispirato i sindacalisti rivoluzionari parmigiani De
Ambris e Corridoni. Chiuse così, nel modo migliore, la sua lunga carriera scolastica.
1.1.5 Il caffè Tanara e Ugo Guandalini
Un altro importante punto di riferimento per Bianchi, a cavallo tra il 1937 e il 1938,
fu il caffè Tanara, in Piazza Garibaldi, che approdò, alla fine della guerra d‟Etiopia, ad
una intensa stagione di poeti. Vennero infatti in città Mario Luzi, Aldo Borlenghi, Pietro
Viola, Oreste Macrì, Giacinto Spagnoletti e, per pochi mesi, anche Vasco Pratolini. Si
distinguevano inoltre i ragazzi della rivista letteraria “Pianura”: Gian Carlo Artoni,
Lorenzo Bocchi, Mario Colombi Guidotti, Pietro Galli e Guglielmo Ambrosoli. Tra loro
stava anche Pietro Barilla, che grazie a quei ritrovi amichevoli avrebbe legato il proprio
nome di industriale ad alcune delle più belle iniziative della società dei letterati
parmensi, e a cui Bianchi avrebbe fornito utili idee e preziosi consigli.
In quelle riunioni Pietrino dava lezioni gratuite su qualsiasi materia, ma rispettava
solo Bertolucci, perciò il prezzo da pagare per ascoltarlo era accettare le sue quotidiane
aggressioni, la perentorietà dei suoi giudizi, la violenza delle filippiche che lo aveva
7
Pietro Bianchi, All‟ombra di Sainte-Beuve, Le Guglie, serie Diari, Milano 1971, p. 157.
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reso famoso, ormai, in tutta la città. Non era sempre facile, per i nuovi arrivati al caffè
farsi accettare da Bianchi e subire le sue critiche, ma chi ci riusciva ne guadagnava un
amico onesto e un intellettuale coi fiocchi. Lo scambio, a volte, era reciproco, come nel
caso di Ugo Guandalini, oggi conosciuto solo come Guanda: studioso di petrografia e
ottica cristallografica, nel 1935 ottenne una cattedra all‟università di Parma, si trasferì
da Modena e cominciò ad interessarsi al gruppo del caffè. I letterati divennero ben
presto ospiti fissi in casa sua e nel suo laboratorio all‟università, e lui trasformò il
circolo di eruditi in una fabbrica di prodotti culturali, ne valorizzò le doti, li spronò e
mise la loro intelligenza al servizio dell‟editoria. Fondò la prestigiosa collana di poesia
La Fenice e nel 1939, dopo averne nominato Bertolucci direttore, Guanda diede avvio
alla pubblicazione dei primi volumi. A Giacinto Spagnoletti, successore di Bertolucci,
commissionò l‟Antologia della poesia italiana del Novecento e a Pietro Bianchi il suo
primo libro: H. G. Clouzot. Bianchi, da parte sua, convinse l‟editore a creare una
collana, una delle prime in Italia, dedicata interamente al cinema. Un‟altra idea brillante,
questa volta realizzata con successo. Tra i ragazzi del caffè, oltre a proficue discussioni,
si aggiunse l‟operosità, uno sbocco concreto alle loro conoscenze.
1.1.6 Il matrimonio e la Seconda Guerra
Nel 1937, tre anni prima di laurearsi, Pietro insegnò filosofia per un anno al liceo
classico Maria Luigia e nel 1938 passò al Romagnosi, alternando il lavoro d‟insegnante
a quello di giornalista per “La Gazzetta di Parma” e per il “Bertoldo”. Nel 1941 un
amico insegnante mandò a casa sua una giovane signora, Carla Bonadei Casolari (Maria
Pia Manenti ricorda che “Carla aveva due cognomi perché suo padre, Bonadei, morì, e
sua madre si risposò con Casolari, che adottò lei e sua sorella”); Carla aveva una figlia
piccola, Simonetta, e un marito al fronte, ed aveva bisogno di lezioni per poter sostenere
da privatista l‟esame di maturità scientifica. Alla fine del ‟41 il marito soldato morì
durante la campagna di Russia e due anni dopo, il 16 dicembre 1943, Pietro Bianchi,
all‟età di trentaquattro anni, portò all‟altare la sua allieva, più giovane di undici anni,
con cui sarebbe rimasto sposato per tutta la vita.
Spiega Maria Pia Manenti: “Io ho conosciuto Bianchi perché ha sposato la mia
migliore amica, che è stata mia compagna di collegio alle Orsoline di Parma, ma poi
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abbiamo continuato ad essere amiche. E‟ venuta in collegio dall‟Africa e a Reggio ci
siamo sempre frequentate. Era vedova di guerra e aveva avuto una bambina dal primo
marito, ancor prima di finire il liceo. E‟ venuta a Parma per dare l‟esame di maturità e
ha conosciuto questo professor Bianchi, del liceo Romagnosi. Lui le faceva lezione e in
breve l‟ha conquistata. Era un uomo buonissimo, di una simpatia unica; non era certo
l‟aspetto fisico che attirava, perché era piccolo e grassoccio, ma quando parlava Carla
rimaneva affascinata perché era un uomo di una cultura pazzesca, sapeva tutto e aveva
un modo di fare garbatissimo. Insieme hanno avuto altre due figlie, ma lui ha voluto
bene alla prima esattamente quanto alle altre, come se fosse sua”.
I loro primi mesi insieme, turbati dalla guerra, furono molto difficili, soprattutto a
causa dell‟articolo che Pietro aveva scritto sul giornale locale, dopo il 25 luglio, in cui si
compiaceva della fine di Mussolini, e che lo fece finire sull‟elenco delle persone da
punire. Una sera, ricorda Oreste Del Buono nella prefazione del volume L‟Occhio di
Vetro (Edizioni Il Formichiere, Milano 1978), sfuggì per miracolo ai militi fascisti, che
erano venuti a cercarlo, nascondendosi in casa di un vicino: “Nel settembre 1943, dopo
l‟armistizio, il fascismo riprese a minare il potere con l‟appoggio, anzi al servizio, dei
nazisti. Pietrino Bianchi era ritornato a Parma: qualcosa sul decaduto regime aveva
detto durante i 45 giorni badogliani. Del resto, qualcosa aveva sempre detto Pietrino
Bianchi: non era uno che tenesse per sé le critiche, non era avaro dei suoi strali, per lui
dire quello che pensava non era un‟operazione molto diversa dal respirare. Così una
sera nel rincasare si accorse che non era come il solito. La porta di casa sua era
socchiusa, si sentivano voci sconosciute, un‟agitazione insolita, segnali d‟allarme.
Quasi d‟istinto Pietrino Bianchi girò la maniglia di un‟altra porta, la porta si aprì e lui
s‟infilò nell‟appartamento vicino. In questo modo sfuggì all‟arresto. <<Vedi che la
8
lettura dei gialli serve?>> disse poi alla moglie”. Poco dopo, decise, con Carla, di
lasciare Parma per rifugiarsi a Reggio Emilia, dai genitori di lei.
Lì continuò ad insegnare ma, in seguito, non sentendosi tranquillo, iniziò a
vagabondare sotto e sopra la Linea Gotica. Visse un periodo in Toscana fianco a fianco
con il formidabile artista Mino Maccari, che rievocò in uno dei suoi libri, il Taccuino
(Istituto di Propaganda Libraria, Milano 1970). “Subito mi ricordo i mesi che abbiamo
trascorso insieme, in case che stavano a un tiro di schioppo una dall‟altra, tra l‟inverno
8
Pietro Bianchi, L‟occhio di vetro – Il cinema degli anni 1945-1950, Edizioni Il Formichiere, Milano
1979, p. 8.
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del ‟43 e la primavera del ‟44. Eravamo piuttosto malmessi, l‟uno e l‟altro; non ci
restava altra risorsa che bere qualche bicchiere di vino in una vicina osteria e recarci
allo spaccio del Cinquale per vedere se la bella padrona era disposta ad ascoltare le
nostre ciance interessate, tendenti, com‟erano, a ottenere qualche mezzo toscano per
Maccari e qualche sigaretta per me in più di quelli della tessera. Qualche volta andava
bene e qualche volta andava di peste. Poi fummo spinti più su, a Montignoso, dove il
generoso Maccari mi offrì il rifugio di una baita sopra la montagna. Erano mesi grami,
pieni di paura, eppure raramente mi accadde, prima e dopo, di trascorrere momenti di
pace come lassù, nel rifugio delle Apuane: sere di una bellezza traditora in quei mesi di
lutti. Il paese era pieno di energumeni delle SS, in divisa mimetica; ma la gente era
9
buona, mossa da uno spirito di fraternità”.
Da romantico rifugiato, Pietro superò la guerra.
1.1.7 Alla conquista di Milano
Nel 1944 nacque la prima figlia di Pietrino e Carla, Brunetta, e nel 1945, scampato il
pericolo dell‟arresto e finita la guerra, Pietro cominciò ad accarezzare il sogno di
trasferirsi a Milano, la capitale del giornalismo, la città delle grandi occasioni. Poté
contare sull‟appoggio del cugino Giovannino Guareschi, che abitava già là, e della
discreta fama che si era conquistato grazie alle sue critiche cinematografiche. Un anno
dopo vi si trasferì in modo definitivo e nello stesso periodo nacque la seconda figlia,
Giuliana. Per Bianchi la decisione di fare un passo così grande deve essere stata
sofferta, e forse aiutata dallo shock del conflitto mondiale: se non ci fosse stato
probabilmente sarebbe rimasto nella sua provincia, che amava molto, tanto più che
all‟inizio Milano non gli piacque, apprezzava di più Roma per il semplice fatto che le
ragazze della città lombarda avevano un‟anatomia troppo povera in confronto alla
bellezza prosperosa delle romane; inoltre, racconta Maria Pia Manenti “I primi anni a
Milano per lui furono davvero duri, aveva già le figlie e all‟inizio non aveva molti soldi,
viveva in una casa bruttissima… Sono stati anni di gavetta che poi però l‟hanno portato
alla carriera”.
9
Luigi Alfieri, Vita di Pietro Bianchi, Guanda 2006, pp. 70, 71.
23
Col tempo imparò ad amare anche lì i caffè, le trattorie, cominciò ad esplorarla
palmo a palmo e anche a mitizzarla, lasciandone un ricordo indelebile nelle sue due
opere, Taccuino e Radiografia di Milano (Istituto di Propaganda Libraria, Milano
1970).
Siccome il bisogno primario di Pietrino era quello di comunicare, di stare con gli
altri, di avere attorno degli amici con cui poter chiacchierare, anche a Milano fondò la
sua “famiglia” nel quartiere di Brera (che in poco tempo trasformò nel suo villaggio, in
cui regnò come un monarca assoluto), sistemandosi al bar Giamaica, dove ricominciò a
tenere banco come a Parma o a Forte dei Marmi, e dove ritornò ad essere il piccolo
Socrate dall‟oratoria fulminante, amante della cultura da strada. Ricorda Alberto
Arbasino, sulle pagine de L‟Occhio di Vetro (Associazione Culturale Laminarie, Baiso
di Reggio Emilia 1996): “Tutto si trattava al caffè Giamaica, o andando e tornando dal
cinema, o addirittura al ristorante Rigolo, che non molti potevano permettersi. Ottimo
conoscitore di letteratura francese, con percorsi e scambi continui e trasversali e
instancabili fra gli „orticelli‟ del cinema e della letteratura e delle arti, era un
animatore e un provocatore vivacissimo nei suggerimenti e negli incarichi: proprio
perché quella curiosità intellettuale contagiosa e inesausta era innanzitutto la sua. […]
I suoi giudizi orali e scritti erano accurati e precisi, fra il severo e l‟ironico (era
10
esigente sulla qualità…), senza mai sbagliare un colpo!”.
La dottoressa Manenti aggiunge: “Sembrava un piccolo Socrate perché era sempre
circondato dalla sua corte, da tutti gli attori, registi e giornalisti che conosceva. Pietro
era un uomo molto conosciuto”.
1.1.8 Il caffè Giamaica e il ristorante Rigolo
Al Giamaica era rappresentata ogni branca della cultura e in mezzo a Bianchi stavano
pittori, architetti, scrittori, poeti, giornalisti, editori come Gian Giacomo Feltrinelli e
medici come Umberto Veronesi. Suo grandissimo amico fu, tra i personaggi del caffè,
Franco Berutti, giornalista di cinema informatissimo e americanista sedentario, che
aveva conosciuto nella redazione di “Bis”. Nell‟ombelico intellettuale milanese del
10
Bruna Gambarelli (a cura di), L‟occhio di vetro – Il cinema visto da Pietro Bianchi, Associazione
Culturale Laminarie, Baiso di Reggio Emilia 1996, p. 33, 34, 36.
24
Giamaica, spiega Bruno Rossi, Berutti fu sempre tra i suoi più intimi commensali: “Il
suo più stretto collaboratore era Franco Berutti, famoso per la sua incredibile capacità
di lettura e di memorizzazione: insieme hanno fatto libri sulla storia del cinema”.
Con le sue piastrelle bianche alle pareti, i tavoli minuscoli, le sedie di metallo, il retro
ottimisticamente chiamato giardino, il Giamaica rappresentava la dependance pubblica
del quartiere, era una specie di club, ma diventava spesso anche un‟occasione di lavoro:
Pietrino, per esempio, lo usò come terreno per reclutare i fotografi che avrebbero
abbellito le pagine di “Settimo giorno” e de “L‟Illustrazione Italiana”. Sorride Maurizio
Chierici: “Quando sono andato a Milano io e Bruno siamo partiti assieme, il „Corriere
Lombardo‟ stava declinando, e ad un certo punto Pietrino, che conosceva più me che
Bruno per via del cinema, mi ha detto: <<Perché non vieni a „Settimo Giorno‟?>> che
era un settimanale. Io ho risposto: <<No, io voglio stare in un quotidiano, però ho un
mio amico…>> allora lui ha chiesto a Rossi di fare un articolo di prova e quando l‟ha
letto l‟ha preso subito”.
Dopo l‟occupazione del Giamaica, Pietrino, a metà anni cinquanta, proseguì la
colonizzazione del quartiere impossessandosi del Rigolo, il ristorante di Largo Trèves,
in cui tutte le sere arrivava insieme alla moglie Carla e all‟amico Berutti ma, alla fine
della serata, si ritrovava sempre circondato da decine di persone, su cui, come sempre,
dominava e scherzava. “Andavamo a cena tutte le sere” ricorda Chierici “Si metteva in
questo ristorante, il Rigolo, a capotavola, in un posto largo perché tutti i critici, i pittori
eccetera si sedevano, quindi il tavolo si allungava sempre di più, e si stava lì fino
all‟una di notte, con le serrande abbassate”. Era un buongustaio, andava matto per la
carne lavorata, il grana, il vino con moderazione, il cognac Hennessy e il tartufo, che
metteva sul risotto e a cui non rinunciò nemmeno nei primi periodi, quando ancora non
aveva molto denaro.
“Era talmente un‟istituzione anche per il ristorante il Rigolo, che quando è stato
male, ha avuto quest‟ictus che lo ha ridotto a un pezzo di legno, il padrone del Rigolo è
andato in ospedale da lui a Reggio Emilia e gli ha portato dei tartufi” aggiunge
Chierici, facendo un salto in avanti.
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1.1.9 Le tre capitali
Pietro si affezionò quindi al cibo e ai quartieri di Milano, gli piaceva esplorarne gli
anfratti nascosti e la considerava la metropoli europea, la capitale della stampa, il luogo
migliore per fare i giornali, con le sue tipografie d‟avanguardia, coi suoi rotocalchi, con
la sua borghesia. Milano diventò insomma la sua seconda città, dopo Parma. Perché
anche in seguito al trasferimento Bianchi non dimenticò mai la sua città natale e, anzi,
non appena gli prendeva la nostalgia, con la moglie tornava in Emilia, dove era ospite
fisso al caffè Tanara e all‟hotel Stendhal. Bruno Rossi ricorda quei viaggi con un
sorriso. “Nel fine settimana mi diceva: <<Tirati via la tuta da lavoro, vestiti, che
torniamo nella capitale!>> e partivamo con la Sunbeam, la Spider guidata dalla
moglie. Io mi raggomitolavo sul seggiolino dietro, e alla domenica sera ripartivamo per
Milano”.
A Parma restarono tanti legami importanti e duraturi, come quello con Pietro Barilla,
di cui Pietrino era spesso il consulente: Barilla si appoggiava a lui per programmare la
comunicazione dell‟azienda e le campagne pubblicitarie. Fu infatti lui che inventò, nel
1952, uno dei più fortunati slogan del dopoguerra: “Con pasta Barilla è sempre
domenica”. Una frase semplice e diretta che capeggiò su giornali, radio e televisione
fino agli anni sessanta e che ebbe origine sui bordi della pagina di un quotidiano, al
tavolino del caffè. Dalla collaborazione tra Pietro e l‟industriale nacque inoltre un
tenero atto d‟amore verso Parma, racchiuso nel libro fotografico Cara Parma, di Carlo
Bavagnoli, nella cui prefazione c‟è tutta la città di Bianchi, fatta di ricordi e di dipartite;
in questa emerge l‟entusiasmo per l‟arte parmigiana del Correggio e del Parmigianino,
del canto, delle donne, del cibo, della lietezza della vita, della vivacità dello spirito e del
conversare. Una sola cosa mancava anche qui, come a Milano: il cinema, il vero
cinema. Per questo ebbe bisogno di una terza capitale, Roma, in cui acquistò un
quartierino, proprio dalle parti dove abitavano Bertolucci e Pasolini, che venderà in
seguito preferendo il castello di Baiso.
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