INTRODUZIONE
Roberto Benigni. Clown, folletto, giullare, buffone, fustigatore di costumi, amabile
briccone, poeta della risata, della parola e del gesto; attore capace di far ridere a
crepapelle e di far divertire, ma anche di far riflettere, di far sognare e di far
commuovere, regista in grado di fondere armoniosamente riso e pianto, tragico e
comico. Un comico che può recitare la Ballata del corpo sciolto o un Canto di Dante
con la stessa travolgente vitalità.
Sin dalle origini la comicità di Benigni nasce dalla coscienza della miseria e del dolore,
da una non banale ricerca del “fantasma della libertà”; una comicità che si ispira a
grandi maestri come Chaplin, con la sua malinconica capacità di far ridere, Totò, con la
sua inquietante comicità, e ad alcuni registi italiani come Fellini e Bertolucci, che sono
stati i suoi maestri d'arte e i suoi modelli d'espressione.
Benigni inizia la sua carriera recitando in teatro e anche quando approda al grande
schermo porta con sé il suo bagaglio degli esordi, infatti il suo cinema è estremamente
fedele alla sua maschera teatrale, che ha alle spalle l'antica esperienza della commedia
dell'arte italiana e delle celebri maschere di Pulcinella, Arlecchino, ecc. La fedeltà al
teatro del cinema di Benigni non si limita solo alle interpretazioni varie del suo
personaggio unico (Benigni è sempre se stesso), ma presuppone una scrittura
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drammaturgica, teatrale. Non a caso i suoi film – scritti in collaborazione col
drammaturgo Vincenzo Cerami – sono delle grandi rappresentazioni teatrali, cioè delle
vere e proprie messe in scena; questo è evidente nei suoi film più famosi, La vita è bella
e Pinocchio. Benigni si serve della sua maschera teatrale, basata su elementi come
comicità, surrealismo, impegno politico e tragicità, per diffonderla nel cinema, per
mettere in scena la grande letteratura e i fatti storici ma anche e soprattutto se stesso,
con i suoi luoghi e suoi sogni, dando vita a film fortemente comunicativi, capaci di
coniugare realtà e quotidianità con bizzarre proiezioni favolistiche.
Il seguente lavoro vuol essere una sorta di viaggio all’interno della sua attività di attore e
di regista, passando dal teatro, alla televisione, al cinema, fino ad arrivare ad un’analisi
particolareggiata de La vita è bella, film in bilico tra la lacrima e il riso, film ispirato,
commovente e coinvolgente, annoverato come l'opera con cui Benigni ha raggiunto il
vertice della sua maturità espressiva. Inoltre, questa tesi si propone di descrivere la
rappresentazione dell’infanzia offerta dal film, inserendosi nell’ambito della ricerca
sull’infanzia così come ce la restituisce l’occhio della macchina da presa, in un’analisi
della figura del bambino attraverso la produzione cinematografica italiana.
Il primo capitolo inizia con una breve panoramica attraverso i temi del riso, del comico
e dell'umorismo così come analizzati da Bergson, Freud e Pirandello, utile, secondo me,
a farci meglio cogliere lo spessore culturale di Benigni e dei suoi personaggi; nonostante
non tutti i film di Benigni siano capolavori e nonostante la sua regia non sia mai né
innovativa né troppo sofisticata, i suoi film sono attraversati da forti tensioni, da un'idea
di ricerca poetica e da uno stile comico alto in cui ben si leggono gli echi dei grandi
filosofi. Il secondo paragrafo, attraverso la storia del cinema comico italiano dagli anni
Settanta ad oggi, descrive lo sfondo sociale e culturale in cui nascono e sempre meglio
si definiscono l'originalità e l'unicità il regista toscano.
Il secondo capitolo propone un percorso attraverso la biografia e filmografia di Roberto
Benigni, dagli esordi teatrali di Una favola vera (1972) al suo ultimo film da regista La
tigre e la neve (2005), attraverso folgoranti comparse televisive, ritorni sul palcoscenico
da cui è partito, gag strepitose, battute su politica e religione, ma anche lacrime e
momenti di riflessione, che lo hanno portato ad affermarsi nel panorama nazionale e
internazionale. Un graduale e laborioso ingresso nel mondo del cinema, in cui
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l'incontenibilità e l'originalità del regista hanno trovato la loro massima espressione,
anche grazie alla forte collaborazione di tutti quei personaggi che hanno favorito la sua
carriera, incoraggiandolo e ispirandolo. Nel corso degli anni lo stile di Benigni ha subìto
dei cambiamenti, alle volte mutando tono e registro, ma conservando sempre una decisa
impronta personale e presentando elementi ricorrenti, che rendono i suoi film
immediatamente riconoscibili, quali fantasia, immaginazione, sogno, gioco, ricerca
poetica, ma soprattutto la perfetta integrazione fra comicità e tragedia.
Si passa poi ad una capillare analisi del film La vita è bella del 1997, una favola piena di
dolore, meraviglia e felicità, una grande storia d'amore in cui il primo tempo, aereo e
spiritoso, accentua per contrasto il buio e le tenebre del secondo. Tanto la prima parte è
armoniosa e lieve, una favola, una deliziosa ed esilarante commedia realista
zavattiniana, quanto la seconda vira bruscamente verso la tragedia; il tono cambia
fatalmente e le tinte sono quelle cupe e irreali di un incubo. In qualche modo due film
diversissimi, uniti in un dittico che permette al regista di misurarsi con un film diluito
anche dal punto di vista della macchina da presa: in queste «due anime di La vita è bella
si rintracciano due differenziati moduli registici: alla fluidità della prima ora si
contrappone una seconda regia più strappata e sconnessa. Nel complesso, una prova non
priva di leggiadria, nonostante un piccolo limite: mancare di compattezza e soffrire di
sbalzi ritmici»
1
. Questo film, anche se ha una cornice storica che è quella dell'Italia
fascista degli anni Trenta, non vuole essere un film politico, ma il racconto dell'umana
vicenda di una famiglia che cerca disperatamente di sopravvivere in mezzo allo
sterminio, il racconto di un padre che attraverso il gioco e la risata vuole salvare
l'infanzia del proprio figlio e proteggerne l'innocenza.
Il terzo ed ultimo capitolo analizza il film seguendo le funzioni principali della fiaba
individuate da Propp, in quanto La vita è bella, per quanto amara, è fondamentalmente
una fiaba, con tanto di principe e di principesse, di cavalli bianchi e di orchi. Come in
una fiaba, spostamenti surreali si accompagnano a condensazioni fantastiche e, proprio
come se ce ne stessero leggendo una, Cerami e Benigni non hanno sentito il bisogno di
essere realisti, sottolineando al contrario l'emozione e la morale che scaturiscono dalla
loro affabulazione. Il film, per essere apprezzato pienamente, andrebbe visto e ascoltato
1 C. BORSATTI, Roberto Benigni, Milano, Il Castoro Cinema, 2001, p.101.
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con questa consapevolezza, «con gli occhi e le orecchie di un fanciullo alle prese con un
grande gioco, alle prese con una fiaba»
2
. Il paragrafo conclusivo ruota intorno alla figura
del piccolo Giosuè e alla sua relazione con il padre. Il bambino alla tenera età di cinque
anni viene deportato in un campo di concentramento insieme alla sua fimiglia e, grazie
alla sua innocenza e ingenuità, grazie alla fantasia, al buon umore e alla complicità del
padre, gli orrori della guerra e i dolori del lager vengono trasformati in un grande gioco
collettivo.
Secondo me, quindi, il film di Benigni riesce perfettamente nel tentativo di restituire
dignità alla fantasia, all’immaginazione, al gioco, come elementi fondamentali di tutta
l’esistenza, non ghettizzandoli a meri sintomi infantili d’immaturità. L'opera si eleva
così a difesa utopistica dell’innocenza infantile capace di trasfigurare una realtà
squallida in termini magici e fantastici, capace di vivere il dramma come un gioco,
ponendo attenzione su una delle dimensioni fondamentali della psiche infantile, che può
essere preziosamente conservata e custodita anche in età adulta: in situazioni ostili, ossia
laddove ci si sente minacciati, possiamo essere in grado di attivare originali strategie
difensive grazie alla nostra capacità d’immaginazione e alla forte connotazione magica
del pensiero umano.
2 Ivi, p. 107.
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CAPITOLO I
Ridere non è semplice!
1.1 Comicità e umorismo
Non è certo questa la sede per affrontare una esaustiva trattazione dell'argomento, ma
ritengo che una breve introduzione ai temi del riso, del comico e dell'umorismo possa
offrire le basi teoriche per meglio comprendere lo sviluppo successivo di questa tesi.
Durante il percorso di civilizzazione della nostra umanità, quasi tutti i filosofi hanno
cercato di spiegare il fenomeno comico ed umoristico e l'origine del riso, senza tuttavia
riuscirci definitivamente. Forse i contributi più significativi furono dati da Henri
Bergson e Sigmund Freud: essi hanno rintracciato le basi della comicità nell’intelligenza
e nell’arguzia. Da allora gli studi sull'argomento si sono moltiplicati sino a dare origine
ad una vera e propria branca di studi della psicologia. Anche un letterato come Luigi
Pirandello, però, si è dedicato all’analisi dell’umorismo, raggiungendo talvolta
conclusioni molto interessanti. Le riflessioni di Bergson sulla natura della comicità sono
racchiuse nel breve libro intitolato Il riso. Saggio sul significato del comico (1900).
Bergson parte innanzitutto da una constatazione di natura generale: se il riso è un gesto
che appartiene al comportamento umano, allora deve essere lecito domandarsi qual è il
fine che lo muove. Ora, per comprendere il fine cui mira un comportamento si deve in
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primo luogo far luce sulle occasioni in cui accade. E per Bergson vi sono almeno tre
punti che debbono essere a questo proposito sottolineati:
1. «Non vi è nulla di comico al di fuori di ciò che è propriamente umano»3. Questa
affermazione può lasciarci perplessi: si può ridere infatti anche di un cappello o di un
burattino di legno. E tuttavia, se non ci si ferma a questa constatazione in sé ovvia, si
deve ammettere che in questi casi il rimando a ciò che è umano gioca un ruolo: di un
cappello ridiamo perché vi vediamo espresso un qualche capriccio estetico dell'uomo,
così come nella marionetta l'immaginazione vede i gesti impacciati di un uomo
sgraziato.
2. Perché il riso possa scaturire è necessario che chi ride non si lasci coinvolgere
emotivamente dalla scena che lo diverte. Per ridere di una piccola disgrazia altrui
dobbiamo far tacere per un attimo la pietà, la simpatia, l'empatia, l'identificazione con la
persona oggetto del riso, e porci come semplici spettatori o - per esprimerci come
Bergson - come intelligenze pure: «il comico esige dunque, per produrre tutto il suo
effetto, qualcosa come un'anestesia momentanea del cuore»4.
3. Tutti sappiamo che il riso è un'esperienza sociale: ridiamo meglio quando siamo
insieme ad altri, ed il riso è spesso il fondamento che tiene unito un gruppo di persone.
«Il riso cela sempre un pensiero nascosto di intesa, direi quasi di complicità, con altre
persone che ridono, reali o immaginarie che siano»5.
L’elemento che accomuna queste tre osservazioni generali è che il riso sembra essere
strettamente connesso con la vita sociale dell'uomo, con il suo essere un animale sociale.
Possiamo allora far convergere i tre punti, in un'unica tesi: «il "comico" nasce quando
uomini riuniti in un gruppo dirigono l'attenzione su uno di loro, facendo tacere la loro
sensibilità, ed esercitando solo la loro intelligenza»6. E se le cose stanno così, se il riso
come comportamento umano sorge nella vita associata, allora si può supporre che esso
risponda a determinate esigenze della vita sociale.
Per far luce sul motivo che ci spinge a ridere non basta indicare quando ridiamo: occorre
riflettere anche su ciò di cui ridiamo che è, per Bergson, tutto ciò in cui l'immaginazione
scorge una sorta di meccanicizzazione della vita.
3 H. BERGSON, Il riso: saggio sul significato del comico, Milano, Rizzoli, 1991, p. 4.
4 Ivi, p. 5-6.
5 Ivi, p. 6.
6 Ivi, p. 7.
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È dunque il comportamento rigidamente meccanico a far ridere, un comportamento
rigidamente meccanico applicato a ciò che è (o immaginiamo che sia) vivente. Molti
esempi di comicità possono essere immediatamente ricondotti a questa affermazione:
una marionetta ci fa ridere perché i suoi gesti sono rigidi e meccanici, ed è per questa
stessa ragione che ci sembra ridicolo chi - giunto in fondo alle scale - tenta di scendere
anche da un ultimo inesistente gradino, con un gesto goffo che non è motivato da un fine
reale, ma solo dal meccanismo acquisito della discesa. Nell'immagine della macchina si
cela infine anche l'idea dell'ostinazione cieca, del movimento che non sa più aderire al
presente, ma segue una regola tanto fissa quanto sorda alle esigenze del momento. Basta
dunque che questa immagine si sovrapponga alla vita umana perché il riso si faccia
avanti. Una simile sovrapposizione si ha per esempio
quando l'anima ci si mostrerà contrariata dai bisogni del corpo - da un lato la personalità morale
con la sua energia intelligentemente variata, dall'altra il corpo stupidamente monotono
interrompente sempre ogni cosa con la sua esigenza di macchina. Quanto più queste esigenze
del corpo saranno meschine ed uniformemente ripetute, tanto più l'effetto sarà vivo
7
.
Non è dunque un caso - commenta Bergson - se i personaggi tragici debbono tenersi
lontani da gesti che tradiscano le esigenze della corporeità, mentre il commediografo
potrà senz'altro ottenere il riso del pubblico rappresentando i suoi personaggi comici in
preda a un malanno o ad un fastidioso singhiozzo che interrompe ogni loro discorso.
Il riso deve avere una funzione sociale e sorge dalla constatazione di una sorta di
contraddizione: ciò che dovrebbe comportarsi in modo libero e vivo sembra
assoggettare i suoi gesti a leggi meccaniche, alla cieca ostinazione del meccanismo. Al
riso spetta dunque il compito di sanare questa contraddizione, richiamando quella parte
della società (reale o immaginaria) che è colpevole di un comportamento rigido e
ostinato ad un atteggiamento più elastico, ad uno stile di vita più duttile e desto. Il riso è
quindi un castigo sociale:
È comico - scrive Bergson - qualunque individuo che segua automaticamente il suo cammino
senza darsi pensiero di prendere contatto con gli altri. Il riso è là per correggere la sua
distrazione e per svegliarlo dal suo sogno. [...] Tale si presenta la funzione del riso. Sempre un
po' umiliante per chi ne è l'oggetto, il riso è veramente una specie di castigo sociale
8
.
7 Ivi, p. 33.
8 Ivi, p. 88-89.
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Il riso è sì un castigo sociale, risponde sì a determinate esigenze della vita sociale, ma le
sue origini non appartengono alla società, ma alla vita stessa e debbono essere quindi
viste sullo sfondo della lotta tra lo slancio vitale e l'inerzia della materia. Bergson viene
sempre più chiaramente sostenendo che il riso sia semplicemente l'effetto di un
meccanismo datoci dalla natura come una difesa immediata della vita che ci ha armato
di una sorta di istintiva reazione alla comicità.
Un fenomeno così variegato come il ridere non poteva essere tralasciato dall’analisi
del padre della psicoanalisi. In un saggio del 1905 “Il motto di spirito e la sua relazione
con l’inconscio”, Freud enuncia la sua teoria sulla motivazione del ridere.
La riflessione di Freud si distingue dalle precedenti perché, più che definire l'approccio
alla realtà che è espresso nell'umorismo, mira a descrivere i meccanismi psichici che ne
sono alla base - meccanismi che Freud allaccia alla teoria psicoanalitica; lo studio si
limita inoltre alle manifestazioni verbali del comico, il motto di spirito o, in tedesco,
Witz che Freud definisce come un atto creativo liberatorio.
La battuta istituisce ex novo (per questo è creativa) un canale di sfogo: colpisce e libera
l’energia che impegniamo nel tenere sotto controllo qualche nostro contenuto inconscio.
La capacità di "far passare" questi contenuti (riconducibili all'istinto sessuale ed
all'aggressività) eludendo la censura del Super Io è resa possibile da un lavoro che il
soggetto inconsapevolmente attua al fine di mascherare questa carica psichica all'interno
del motto di spirito. La liberazione dalla tensione e il rilassamento che ne consegue
provocano piacere; questo piacere associato al riso è riconducibile proprio a questo
risparmio di energia psichica: non solo il soggetto è riuscito a comunicare al suo
interlocutore la propria carica psichica, ma è riuscito a farlo evitando gli affetti penosi
che avrebbero turbato la comunicazione qualora la censura del Super-Io fosse stata
violata apertamente.
Tra le diverse componenti della mente umana, aventi la finalità di dare sfogo ed
espressione ai contenuti inconsci, il motto di spirito è l’unico ad avere una valenza
relazionale, di comunicazione di quel contenuto verso l’esterno, in maniera diretta,
senza sublimazioni. Negli altri casi si tratta di momenti strettamente privati, mentre nel
Witz si può intravedere un pezzetto dell’anima di colui che lo compie, un atto di
sincerità verso la persona che ascolta; in ultima analisi si tratta di un piccolo,
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significativo atto d’amore. Tende, infatti, oltre che ad esprimere il proprio contenuto
latente, anche a smascherare positivamente, rivelare maieuticamente il medesimo
contenuto nell’ascoltatore, in funzione di una divertita purificazione.
Questa valenza catartica del ridere e del far ridere spiega anche perché alcune persone
non comprendono l’umorismo o un certo tipo di battute, come quelle, per esempio, a
sfondo sessuale. Per capirle, infatti, c’è bisogno della partecipazione della persona a
livello sia emotivo sia razionale. Anzi, è questo razionale che autorizza l’accoglienza del
contenuto latente e permette la partecipazione emotiva. Se l’ascoltatore ha dei problemi
legati al sesso, ad esempio un Super Io troppo invadente, potrà non ridere alla battuta, o
addirittura scandalizzarsi. Se, al contrario, riderà, la comunicazione tra lui e il narratore
sarà sincera e di profonda intesa.
L’umorismo, la comicità e il riso, che i motti suscitano, sono potentissimi elementi di
ristrutturazione del “campo interno”, un’analisi profonda della nostra psiche. Alla base
della produzione, comprensione e accoglienza della battuta di spirito sta un completo
mutamento del proprio orizzonte mentale che culmina con un’illuminazione (insight),
un’operazione che consente la creazione di una nuova e originale struttura nella quale
gli elementi sono completamente riorganizzati. L’umorismo rappresenta, così, una
formidabile opportunità per ribaltare situazioni problematiche, ansiogene o addirittura
angosciose, operando una ristrutturazione completa del nostro essere in quelle
situazioni.
Infine, resta da analizzare il contributo di Pirandello allo studio del comico. Il saggio
L'umorismo, pubblicato nel 1908 e diviso in due parti ben distinte, una di carattere
storico-letterario, l'altra di natura filosofica, risulta parzialmente influenzato da Bergson.
Pirandello esprime la convinzione che l'umorismo possieda una propria essenza che
deve essere indagata proprio nei termini psicologici suggeriti dalla cultura positivistica.
A suo avviso, l'umorismo non è affatto una forma dello spirito sorta nella letteratura
moderna dell'Europa settentrionale, come pure si era più volte sostenuto. L'umorismo
non è una categoria storica, ma è un concetto che circoscrive un comportamento umano
relativamente stabile nel tempo e comunque indagabile con gli strumenti dell'indagine
psicologica. Su questo punto, dunque, Pirandello è vicino allo psicologismo di fine
Ottocento, anche se la riflessione sull'umorismo si staglia su di uno sfondo di natura
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