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INTRODUZIONE
La scelta degli argomenti trattati nella presente tesi è legata ad
un’esigenza personale di un approfondimento, risultato poi coerente in
ambito didattico, della nascita del jazz in Italia e dell’apporto che gli
italiani emigrati negli Stati Uniti dettero alla nascita del jazz.
L’esigenza di tale approfondimento è dovuta ad una propria
esperienza individuale nel rapporto sia con la musica jazz sia con la
vicenda dell’emigrazione.
Personalmente il primo contatto con il jazz è avvenuto grazie alla
presenza in casa di una collezione paterna di vinili jazz. Tra i
numerosi dischi non mancano le grandi figure dal jazz americano ma,
in buona parte, essi sono dischi di jazz italiano dagli anni Cinquanta ai
primi anni Ottanta. Inevitabilmente la “scoperta” del jazz, avvenuta
attraverso quei dischi, è molto legata anche al jazz italiano. Da ciò è
nata l’esigenza di comprendere l’origine del jazz in Italia e di
conoscere chi avesse posto le basi ai solisti italiani del dopoguerra
(ascoltati in quei dischi).
La letteratura che tratta l’origine del jazz in Italia è piuttosto esigua,
tra i primi a scriverne ci fu Giuseppe Barazzetta che nel 1960 ha
pubblicato il libro Jazz inciso in Italia (Messaggerie Musicali) poi
Adriano Mazzoletti che nel 1983 ha pubblicato Il jazz in Italia. Dalle
origini al dopoguerra (Laterza, recentemente aggiornato) in cui,
attraverso una ricerca su quotidiani dell’epoca e tramite le interviste
effettuate ai sopravvissuti, è riuscito a descrivere dettagliatamente gli
esordi del jazz in Italia. Recentemente sono state inoltre pubblicate
delle monografie sui personaggi delle origini jazz italiano come ad
esempio quella su Gorni Kramer. Ma se la letteratura sull’argomento
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non è numerosa, ancora minore è la discografia in merito. Purtroppo le
case discografiche degli anni Venti e Trenta non furono molto
interessate al jazz, soprattutto italiano e perciò personaggi importanti
come Vittorio Spina, Alfio Grasso ed altri, registrarono pochissimo. Il
talentuoso Rocco Grasso in dieci anni di attività non registrò mai. Le
poche incisioni arrivate sino ad oggi dimostrano comunque che gli
italiani seppero ben adattarsi al nuovo genere musicale ed emersero
personalità rilevanti come Kramer, Pippo Barzizza o Piero Rizza che
fu il primo a lavorare con musicisti afroamericani giunti in Italia.
Un’altra figura significativa fu quella di Michele Ortuso, nato in Italia,
che emigrò con la propria famiglia negli Stati Uniti dove divenne un
musicista professionista nel mondo del jazz. Poi nel 1923 rientrò in
Italia dove iniziò un’intensa carriera musicale. Ma come Ortuso ci
furono molti italiani che emigrarono e divennero musicisti e come loro
anche i propri figli, contaminando con la propria cultura la nuova
musica che a New Orleans prendeva forma.
Quella dell’emigrazione è una vicenda personalmente molto sentita, i
nonni materni emigrarono in Canada e loro figlia emigrò viceversa in
Italia e allo stesso tempo il nonno paterno partì per l’Africa per poi
rientrare in Italia. L’immigrazione europea nella New Orleans di fine
Ottocento fu determinante per la nascita del jazz, ma lo fu anche per la
nascita del tango a Buenos Aires, della samba e del choro in Brasile e
della salsa a Cuba.
L’apporto degli italiani emigrati al jazz è stato oggetto di studio fin da
quando il gruppo Original Dixieland Jazz Band, nel quale militavano
due italoamericani, incise nel 1917 il primo disco nella storia del jazz.
In Italia una tra le prime incisioni jazz realizzata dall’Orchestra del
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Trianon di Nicola Moleti, risalente al 1919, è proprio il brano At the
Jazz Band Ball che il gruppo americano incise due anni prima.
Anche se non esiste una letteratura specifica in merito, ci sono delle
monografie su alcuni italoamericani delle origini del jazz come su
Eddie Lang o su Nick La Rocca; ci sono inoltre molti articoli
pubblicati su riviste specializzate. C’è anche un gran numero
d’incisioni del jazz americano dal 1917 in poi, dove considerevole è la
presenza di italoamericani.
La presente tesi è sviluppata in quattro capitoli. In ordine, il primo
capitolo, intitolato «Le origini del jazz in Italia», cerca di precisare
l’arrivo della cultura afroamericana, in specifico musicale, in Europa
ed in particolare in Italia. Parallelamente a ciò si evidenziano i
musicisti italiani che per primi recepirono queste culture lontane. Il
tutto in relazione costante allo sviluppo sociale del momento storico
trattato, la prima guerra mondiale, il primo dopoguerra, l’ascesa del
regime fascista fino alla seconda guerra mondiale e l’immediato
dopoguerra. Una parte del capitolo tratta anche il rapporto tra il jazz e
l’opinione della stampa che rappresentava il mezzo di informazione
più diffuso fino agli anni Trenta.
Il secondo capitolo, intitolato «L’influenza italoamericana nelle
origini del jazz», cerca di individuare i rapporti reciproci degli
emigrati italiani con le culture incontrate nelle terre d’arrivo. In
particolare si seguono le vicende nelle tre città dove l’evoluzione del
jazz delle origini ha avuto luogo: New Orleans, Chicago e New York.
Il terzo capitolo, intitolato «I primi solisti italiani», vuole approfondire
l’intensa attività che i pionieri italiani fecero nelle jazz band e che
maturò in loro uno stile vicino a quello dei musicisti bianchi
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americani. In particolare si analizzano tre personaggi (la cui personale
esperienza è la conferma di quanto detto nei due precedenti capitoli)
Michele Ortuso e i fratelli Rocco e Alfio Grasso, dei talentuosi
musicisti che seppero assimilare la musica afroamericana giunta in
Europa; la vicenda di Ortuso rappresenta invece l’italiano emigrato
che si inserisce nel nuovo contesto sociale e musicale.
Il quarto ed ultimo capitolo, intitolato «Le grandi orchestre»,
evidenzia l’importante momento in cui la radio e le case discografiche
italiane cominciarono a considerare la musica jazz e da questo la
nascita delle radiorchestre ovvero grandi orchestre in stile americano
che diedero inizio allo «swing all’italiana». Infine si analizza il lavoro
di uno dei protagonisti, Piero Rizza, che fu tra i più dotati arrangiatori
italiani del periodo.
Se la musica jazz ha trovato in Italia un luogo dove fu accolta ed
interiorizzata fino a svilupparsi in maniera personale e se, in America
gli emigrati italiani furono così importanti per dar forma alla nuova
musica, ci si chiede se mai il jazz fosse potuto nascere in Italia.
- 1 -
I.
LE ORIGINI DEL JAZZ IN ITALIA
1.1 Dalle colonie non solo merci ma l’eco di culture lontane
«Volevamo braccia, sono arrivati uomini» Max Frisch
Per comprendere l’influenza che la cultura musicale afroamericana
ebbe in Europa e nello specifico in Italia è necessario partire dall’era
del colonialismo, iniziata nel XVI secolo, durante la quale le grandi
potenze europee nell’arco di trecento anni assoggettarono al proprio
controllo quasi tutta la terra. Inizialmente le nazioni colonizzatrici
avevano rapporti solo con le proprie colonie ma, verso la metà del
XIX secolo, con la nascita del capitalismo finanziario, esse
avvertirono l’esigenza di allargare i propri mercati, in un contesto in
cui al protezionismo si sostituiva il libero mercato. Cominciò così a
delinearsi una politica imperialista che all’iniziale violenza usata per
la conquista delle colonie e per il successivo controllo degli schiavi,
preferì una missione civilizzatrice dell’uomo bianco nei confronti dei
popoli sottomessi. Numerosi popoli che vantavano ricche e radicate
tradizioni videro infliggersi pesanti restrizioni; ciò accadeva
soprattutto nelle colonie sotto il dominio protestante. In quelle sotto il
dominio cattolico ci fu una lieve tolleranza che concedeva sia ai nativi
sia agli schiavi la sporadica celebrazione dei propri riti e danze e che
generò inevitabilmente una fusione tra più culture, soprattutto
musicali. Paradossalmente, quindi, i popoli colonizzatori
cominciarono ad essere influenzati dai contatti con le culture dei
popoli colonizzati. Tutto ciò si ritrova in personaggi come Louis
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Moreau Gottshalk, pianista virtuoso nato a New
Orleans che già dal 1840 viaggiò in Europa, America
e Sud America portando con sé la musica di popoli
lontani e facendola conoscere anche a musicisti
europei come Chopin e Listz. Sul finire dello stesso
secolo anche l’arte visiva occidentale cominciò a studiare ed ispirarsi
alle lontane culture figurative di quei popoli colonizzati, confluendo
nel movimento artistico del «primitivismo».
Le navi mercantili di ritorno dalle colonie non erano solo cariche di
merci pregiate ma ora portavano anche l’eco di culture lontane.
1.2 I primi contatti e lo sviluppo delle forme musicali afro-americane
in Italia
A metà dell’Ottocento iniziarono ad arrivare in Europa le prime
compagnie di musicisti e cantanti afroamericani. Tra le prime figure
significative è documentato l’arrivo nel 1848 in
Inghilterra di Juba Lane (in arte chiamato anche Boz’s
Juba), il primo minstrel di colore che si esibì di fronte
ad un pubblico bianco. Poi, nel 1871, fu la volta del
complesso vocale Fisk Jubilee Singer, una formazione
universitaria che proponeva un repertorio principalmente costituito da
spiritual e da work song. Il direttore del coro, nell’approntare il
repertorio, dovette fissare sulla carta le melodie prima improvvisate e
fornirle di una armonizzazione precisa, che si rifaceva agli inni
religiosi bianchi
1
. Con questa fioritura riuscì ad assecondare il gusto
del pubblico europeo ma inevitabilmente ne falsò lo spirito originale.
____________________
1
G. Schuller, Il jazz. Il periodo Classico. Le origini, p. 33
L. M.Gottshalk
Juba Lane
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In seguito arrivarono i primi ragtime a stampa che attirarono anche
l’attenzione dei nuovi compositori tra cui Debussy e Stravinsky.
All’inizio del Novecento sono documentate, soprattutto in Inghilterra
e in Francia, molte tournée di artisti americani di cui, tra i più
rilevanti, Joe Jordan, Louis Mitchell, Hugh Pollard.
L’Italia non rimase del tutto esclusa da questo crescente fenomeno
musicale, anche se, delle molte tournée presenti in Europa, poche ne
passarono e comunque con ritardo rispetto alle altre nazioni. La prima
compagnia documentata che si esibì in Italia fu la Louisiana Troupe
nel 1904, un quartetto di cantanti e ballerini che proponeva il cake
walk, un ballo da poco in voga. Successivamente approdarono il duo
Hampton and Bradford, la cantante Arabella Fields, il quartetto vocale
dei Four Black Diamonds ed il gruppo di spiritual dei Black
Troubadours. Queste formazioni rimasero il Italia anche per lunghi
periodi, esibendosi nei teatri delle grandi città. Intorno al 1914, in
America, esplose la moda del fox trot, una nuova danza, erede del
cake e castle walk, messa a punto dalla coppia di ballerini bianchi
Irene e Vernon Castle in collaborazione con il
compositore nero James Reese (Jim) Europe. Il
nuovo ballo arrivò subito anche in Italia. Già nel
1915, a Torino, si pubblicizzava l’esibizione del
professore Frank H. St. Clair, specialista di danze
americane. Lo stesso, poco dopo, avvenne a
Roma e Milano. Le orchestre da ballo
cominciarono ad inserire nei propri repertori,
composti principalmente da valzer, mazurca e tango, anche qualche
fox trot; l’orchestra romana di Umberto Bozza fu forse la prima dato
che già nel 1915 disponeva delle edizioni a stampa dei nuovi successi
Manifesto pubblicitario dei
ballerini Irene e Vernon Castle