Introduzione
Questo lavoro nasce dall’intenzione di approfondire un percorso iniziato in occasione
della tesi triennale che verteva sull’“evidenza” della parola nella Poetica e nella
Retorica di Aristotele, sulla capacità della metafora di riportare le cose alla presenza, di
mostrarle davanti agli occhi e di renderle visibili attraverso un linguaggio che era
diventato per l’uomo greco il mezzo privilegiato per comunicare i propri pensieri e le
proprie passioni. Nella dinamica fra enàrgheia ed enèrgheia si giocava tutta la
complessità dell’evidenza: la prima infatti garantiva la chiarezza dell’apparizione,
l’efficacia visiva della rappresentazione, restituiva concretezza e realtà al discorso; la
seconda invece donava quella forza e quel vigore necessari a dare movimento, attualità
e presenza al linguaggio. La parola, andando ben oltre la sua pura funzione linguistica,
era caricata di implicazioni etiche, gnoseologiche, psicologiche, ontologiche, ma
soprattutto estetiche. L’arte del discorso, poetico e retorico, divenne così il luogo in cui
la parola poteva dispiegare il proprio potenziale di visualizzazione del mondo, in
particolare di quello umano.
Ciò che questa tesi si propone di analizzare è il rapporto fra il linguaggio ed una sua
speciale modalità espressiva: il Sublime. Mi pare che un legame fra tecnica
dell’evidentia e linguaggio sublime possa essere individuato nell’“efficacia”, in quanto
presa che può avere il componimento poetico sul fruitore sconvolto dall’esperienza
patica della poesia. Una passione che aveva innescato nella catarsi aristotelica un
processo di trasformazione e di elevazione. Credo che nel sublime possa ben ritrovarsi
quel rapporto tra passione e parola che lo stesso Aristotele aveva già delineato. Tale
rapporto può costituire il momento privilegiato di una “estetica del linguaggio” che
della parola predilige l’aspetto immaginativo ed espressivo.
Se la cultura greca vede nel sublime l’apice formale della lingua, esso dimostra di
non essere soltanto un fatto di stile, ma anche e soprattutto espressione. La forma del
sublime non può infatti essere scissa dal suo contenuto. Se sublime è uno stile elevato,
elevato è anche il pensiero di cui è manifestazione, così come elevata è l’esperienza che
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lo precede. Tenterò di mostrare come la questione del linguaggio permane anche nel
Settecento, cioè nel passaggio dalla tradizione retorica alla tradizione estetica: la
componente linguistica non scompare, nemmeno quando si tenta di prenderne le
distanze. Ho dunque preferito insistere sugli elementi di continuità rispetto a quelli di
rottura (su cui gli studiosi tendono solitamente a soffermarsi), sottolineando un recupero
critico piuttosto che una radicale cancellazione della tradizione.
È importante ricordare che il Settecento è il secolo della nascita dell’estetica
1
come
disciplina a cui contemporaneamente si intreccia la rinascita del sublime: esso diventa
una forma di esperienza passionale ed affettiva molto studiata. All’interno di questo
nuovo ambito filosofico, si delinea sempre più quella differenza fra sublime e sublimità
che riconosce nell’aggettivo una modalità dell’espressione linguistica e nel secondo il
sostantivo che veicola un concetto.
Cercherò di presentare un’analisi del sublime a partire dalla sua nascita, nel primo
secolo d. C., fino alla metà del Settecento, facendo riferimento agli autori fondamentali
che hanno fatto di esso una vera e propria categoria estetica. I due artefici che ne hanno
segnato maggiormente lo sviluppo sono senza dubbio lo Pseudo Longino ed Edmund
Burke. Nonostante la diversità dei contesti in cui operarono, essi hanno saputo
proiettare il sublime nell’attualità di un dibattito inesauribile: la questione del
linguaggio non scompare, ma anzi, è ripensata e ravvivata. Penso che questo spazio sia
un territorio ancora piuttosto inesplorato, infatti ho potuto riscontrare una certa lacuna
nella letteratura secondaria su tali argomenti, che nascondono invece sorprendenti
aperture di prospettiva.
Il sublime poetico è espressione di un pathos, di una passione nata e vissuta dalla
sensazione che la parola offre. In questo senso al significato linguistico ne subentra uno
estetico, che trascende l’ambito letterario insinuandosi in quello filosofico. Il sublime
infatti pone in discussione l’essere dell’uomo e la sua interiorità nel momento in cui fa
della parola il ponte che lo collega al mondo. Attraverso la parola esperita l’uomo
riscopre la sensibilità e la carnalità del discorso e la sua modalità di rapportarsi alla
- 4 -
1
Cfr., Baumgarten, A., G., L’estetica, a cura di S. Tedesco, trad. it di F. Caparrotta, A. Li Vigni, S.
Tedesco, consulenza scientifica e revisione a cura di E. Romano, Palermo, Centro Internazionale Studi
di Estetica, 2000.
realtà esterna, fisica e metafisica. Il filo che tiene uniti Longino e Burke è il linguaggio,
testimone dell’esperienza del soggetto. Dall’esperienza infatti non si può prescindere:
l’esperienza che il soggetto in prima persona compie della realtà umana, ma anche della
natura, non viene mai meno.
Ma che cos’è il sublime? Penso sia impossibile conchiudere il sublime entro i termini
rigidi e rigorosi di una categoria, perché l’essenza stessa del sublime è quella di
spingersi oltre il limite verso ciò che è immensamente grande. La linea interpretativa in
cui maggiormente mi riconosco è quella di Emilio Mattioli, Giovanni Lombardo e
Baldine Saint Girons. La studiosa francese, a cui si deve una vera e propria elaborazione
filosofica della questione, intravede nel sublime la massima espressione dell’esperienza
dell’alterità, come spossessamento dell’io e riconoscimento dell’altro
2
.
Il celebre saggio Del Sublime (Περὶ Ὕψους), attribuito ad un autore Anonimo e per
questo soprannominato l’Anonimo o Pseudo Longino
3
è considerato il primo manifesto
del sublime. Con il Perì hypsous la nozione di sublime entra nella storia dell’estetica
diventando il testo di riferimento per la teoria ellenistica dell’arte. Se la tradizione lo
poneva in una serie omogenea di trattati di teoria letteraria, inaugurati dalla Poetica di
Aristotele, è bene invece rimarcare una distinzione fra le due opere, pensate e composte
in ambienti differenti da autori differenti, e destinate a fruitori differenti
4
.
La Poetica nasce nel punto di intersezione delle ricerche aristoteliche sulla
psicologia, sul linguaggio e sull’etica: è opera di un filosofo diretta ai filosofi, che
- 5 -
2
Cfr., Saint Girons, B., Fiat lux. Una filosofia del sublime, Palermo, Aesthetica edizioni, 2003.
3
La questione sull’identità dell’autore e sulla datazione dell’operetta è ancora oggi oggetto di un acceso
dibattito. Gli undici manoscritti che ci hanno tramandato il trattatello non forniscono alcuna
indicazione sicura su chi possa averlo scritto. L’accostamento emerso fra i nomi Dionisio e Longino,
fece pensare a due possibili autori: quel Dionisio altri non poteva essere che Dionisio d’Alicarnasso, il
famoso critico dell’età augustea; la menzione di Longino invece fece ricadere le possibilità su Cassio
Longino, l’erudito ministro di Zenobia condannato a morte nel III secolo d. C. dall’imperatore
Aureliano per aver ispirato la politica antiromana del regno. Ma tutte le ipotesi sui vari codici
risultano scarsamente attendibili, in quanto il libro non offre alcuno spunto sicuro per l’identificazione
del suo autore. Attualmente la tendenza più diffusa è quella che colloca l’Autore del Perì hypsous,
chiamandolo Anonimo, o, più frequentemente Pseudo Longino, nella prima metà del I secolo d. C.
Cfr., Pseudo Longino, Il sublime, Palermo, Aesthetica edizioni, 1987, Appendice bibliografica, pp.
125-128.
4
Avrò cura nel corso della trattazione di mostrare i numerosi punti di contatto fra Longino e Aristotele:
l’Anonimo infatti attinge abbondantemente dalla tradizione aristotelica, il richiamo ad essa è più che
evidente; ma ciò che qui intendo dire è che il testo dello Pseudo-Longino e le idee da lui proposte
contengono una enorme portata innovativa. Le intuizioni in esso contenute si distinguono per
un’originalità a cui il sublime deve la sua fortuna.
hanno sì pratica di esegesi poetica, ma i cui interessi sono pur sempre quelli più generali
di un coerente sistema epistemologico. Il Perì hypsous nasce invece tutto interno alle
fiorenti scuole di retorica del tempo, a cui era stata delegata la codificazione dei diversi
generi letterari.
Se è vero che non sono poche le affinità fra i testi dei due autori, in particolare per
ciò che riguarda il potere immaginativo del linguaggio, la non omogeneità fra Poetica e
Perì hypsous si riscontra anche nell’oggetto della riflessione: Aristotele ha dinnanzi a sé
l’esperienza poetica della tragedia, una poesia che vive nella e della propria esecuzione;
il principio fondante della sua analisi resta pur sempre la mìmesis, l’imitazione, da
intendere come simulazione o riproduzione, che rimanda cioè costantemente a un
referente. Longino invece nell’opera letteraria privilegia il momento della scrittura, del
testo. Il campo dei fenomeni sul quale deve far luce il retore o il poeta non è più
(esclusivamente) la mìmesis, ma i logoi, cioè la letteratura, tutto ciò che si scrive o si
legge: ad entrare in gioco è la componente soggettiva di autore e fruitore
5
. A questo
punto risulta determinante il rapporto produzione/fruizione. Il sublime si configura
come causa ed effetto di un’esperienza, vissuta in due momenti, un prima e un dopo:
l’esperienza espressa dall’atto della produzione, e una nuova esperienza sollecitata
dall’espressione nell’atto della fruizione.
L’idea del sublime che affiora dal saggio longiniano, se rimane soprattutto legata
all’ambito retorico, si applica anche alle doti morali dell’individuo, alla sua grande e
nobile anima e alla sua illustre personalità. Non esiste sublime che non corrisponda ad
una elevatezza spirituale. Già nella sua prima accezione greca, il sublime si presenta
come una metafora il cui valore semantico suggerisce un’idea di altezza o di un
movimento verso l’alto: la sua sfera è quella dell’elevazione, di un’emozione estetica
che si connota come un salire o un trascendere le condizioni emotive dell’esperienza
ordinaria
6
. Sublime è il pathos dell’anima che si protende verso l’alto.
- 6 -
5
Cfr., Lanza, D., Longino o dell’ideologia letteraria, in Dicibilità del sublime, a cura di T. Kemeny e E.
Cotta Ramusino, Udine, Campanotto, 1990, p. 83.
6
Cfr., sublime, voce del Dizionario di estetica, a cura di G. Carchia e P. D’Angelo, Roma-Bari, Editori
Laterza, 1999.
La sua caratteristica principale è l’essere intimamente legato alla passione: chi
produce un’opera sublime è animato da un forte pathos. La preistoria di questo concetto
risale a Platone, per il quale l’anima soggetta a uno stato di ispirazione o mania si dirige
verso il cielo, sciogliendosi dai suoi legami terreni. Scopo del trattatello longiniano è di
conservare quest’idea di elevazione in ambito poetico.
Il sublime non è però irrazionalità e delirio, ma un lasciarsi trasportare della passione
che non esclude la ragione. Si tratta di una passionalità da cui derivano stupore e
ammirazione: fedele compagna dell’estasi è la sorpresa, la meraviglia. Il sublime
costituisce una forma di rivelazione e di esaltazione, attraverso cui siamo elevati al di
sopra di noi stessi non solo in quanto esseri ragionevoli ma anche in quanto esseri dotati
di immaginazione e sensibilità. L’uscita da sé prevede sempre un’ulteriore “qualifica
morale” e una superiorità che riempie d’orgoglio.
La poesia che esprime sublimità mira al divino e nulla ha da spartire con le emozioni
“basse” della paura o dell’afflizione. Il sublime è infatti ciò che consente all’uomo di
valicare la sua natura umana per protendersi verso ciò che di più divino c’è in lui. Anche
la mìmesis dei grandi letterati del passato che sollecitano al sublime è da cogliersi nel
senso di ispirazione. All’immagine del rapimento si salda dunque una pluri-grandezza
espressa lessicalmente dai prefissi e dagli aggettivi “grande” (mega), “sommo” (hypsos)
e “super” (hyper)
7
.
Longino coglie dunque due punti essenziali: l’origine del sublime che sta nell’animo
del poeta o dell’oratore, e che è passione e slancio; e la capacità del sublime di generare,
a sua volta, nell’animo di chi ne partecipa, un arricchimento della vita spirituale e
morale
8
. Il sublime deve essere compreso entro l’orizzonte che gli fu proprio: quello di
un’elevazione dell’umanità al di sopra di se stessa. Impresa cui si dedicarono i sofisti e i
filosofi greci, per fondare un umanesimo grazie al quale l’uomo non apparteneva
soltanto alla natura, ma anche all’arte che vi imponeva la sua forma: in quest’ottica la
sublimità vive di una simbiosi fra natura e arte.
- 7 -
7
Cfr., Lanza, D., Op. cit., p. 87.
8
Cfr., Gabba, E., Riflessioni sul significato politico-ideologico del “Trattato del sublime”, in Dicibilità
del sublime, a cura di T. Kemeny e E. Cotta Ramusino, Udine, Campanotto, 1990, pp. 77-81.
Longino fin dall’alba del concetto del sublime ci ha iniziato a questo “lavoro” sul
linguaggio: esso si costituisce come materia di studio nella sfera della retorica e della
poetica. Eppure non bisogna concludere che sia prerogativa del solo discorso:
l’Anonimo evoca più volte la scultura, l’architettura, la pittura, la musica. Retorica e
poesia costituiscono soltanto i luoghi d’incarnazione privilegiata del sublime.
L’originalità di Longino consiste nel non considerare più la persuasione il fine ultimo
del discorso. Il sublime non è una qualità retorica come un’altra: esso si irradia
contemporaneamente da ogni parte. Nella prospettiva longiniana un discorso è sublime
non già perché possegga la qualità retorica della sublimità, ma perché ci fa vedere il
sublime in statu nascendi. Ecco perché, da semplice genus dicendi, il sublime si
trasforma in genus vivendi
9
. Esso non può essere esteriore né a colui donde si sprigiona,
né a colui che lo riconosce: il suo passaggio trafigge chi ne è testimone, lasciandogli
nella memoria un’impronta forte e incancellabile.
Longino oppone al discorso tradizionale sull’essere e sugli enti, il discorso
umanizzante e civilizzante della parola sublime: essa evoca una valenza originaria,
indeducibile, abissale. La profondità del sublime (complementare alla sua altezza) va
letta anche in quest’ottica. Perciò la funzione dell’arte o del metodo è quella di inserire
il sublime nella storia, e di insegnare che il lógos originario non ha per oggetto la
dimostrazione ma l’ostensione, nel senso latino del termine. Dire e ascoltare, dare a
vedere e guardare, essere e comunicare, sono operazioni equivalenti nel miracolo del
lógos. Come scrive Rostagni:
“lo Pseudo Longino non si limita a insegnare che la poesia è un prodotto della
passione, che deriva dalle sorgenti irrazionali dell’anima, che non si fonda
sull’imitazione della realtà esterna bensì sulla fantasia (tutte verità che urtavano in
pieno contro le comuni posizioni dell’estetica classica), ma anzi, in modo
particolare e per le innate qualità del suo carattere di uomo, arriva a comprendere e
predicare una cosa più di rado avvertita, più alta, e comprensiva dei precedenti
principi: il valore essenzialmente morale della Poesia e dell’Arte […] La parte viva
e immortale del trattatello è rappresentata, per un lato, dal gusto letterario, intimo e
personale, dell’Autore; per un altro lato (connesso in maniera indissolubile col
precedente) dalle concezioni e intuizioni teoretiche mediante le quali egli coglie ed
illustra l’essenza vera dell’arte […] per cui il libro Del Sublime non è
- 8 -
9
Ibid., p. 76.
semplicemente un bel modello di critica letteraria, ma anche e soprattutto un
grande documento di pensiero e di vita”
10
.
Il destino del Perì hypsous godette ingiustamente di scarsa fortuna in epoca antica
per essere poi riscoperto in età rinascimentale con l’editio princeps di Robortello datata
1554. Ma è con la traduzione francese di Boileau che avviene la piena consacrazione del
sublime e la sua diffusione a livello europeo.
Per Boileau, il sublime non è una questione stilistica, ma consiste nell’effetto che i
grandi pensieri e sentimenti espressi dalla poesia hanno sulle emozioni dei lettori. Sua
prerogativa non è più la perfezione di una fraseologia elevata e grandiosa, ma una
semplicità che sappia toccare l’animo. Esponente del classicismo, Boileau compie
comunque un passo importante verso la liberalizzazione del sublime da un certo modo
di intendere la retorica (e la poetica) in quanto precettistica e lo indirizza verso quelle
trasformazioni che subirà pochi decenni dopo in Inghilterra e che lo condurranno a
diventare, attraverso Kant, il protagonista indiscusso dell’arte romantica.
La tradizione longiniana in Inghilterra fu accolta con fervido interesse ed ebbe
rilevanti sviluppi: gli inglesi ritrovarono in essa l’idea di un sublime che sottende la
sublimità dello stile ed esprime una qualità della mente e dell’esperienza. Se scrivere
sullo stile sublime significava scrivere di retorica, scrivere sulla sublimità era scrivere di
estetica; se lo stile sublime era un mezzo per raggiungere un fine, la sublimità iniziava
ad apparire come fine a se stessa. L’accento cominciava ad essere posto sulla relazione
fra sublime, emozione ed energia, e sugli effetti degli oggetti sublimi sulla mente: si
andava verso la concezione di un’estetica della sublimità.
Nel 1652 comparve la prima traduzione di Longino in inglese, eseguita da John Hall,
il quale fu il primo a capire le intenzioni di Longino. Nella dedica egli formula per la
prima volta nella sua lingua l’idea di sublime:
“In esso deve quindi esistere un certo non so che di divino, poiché non dipende
dal semplice accumulo o intreccio delle parole; ci deve essere un’eccellente
conoscenza dell’Uomo, una profonda e meditata familiarità con le passioni; un
uomo non deve soltanto conoscere perfettamente i movimenti della propria mente,
ma essere sicuro e versato anche in quelli dell’altrui. […]. E anche tutto ciò, senza
- 9 -
10
Cfr., Anonimo, Del sublime, testo, traduzione e note di A. Rostagni, Milano, Nuovo Istituto Editoriale
Italiano, 1982, Introduzione, pp. XXXIX-XL.
quel qualcosa che non so esprimere, non è che la parte più piccola che contribuisce
alla costruzione di un tale prodigio; ci deve essere qualcosa di Etereo, qualcosa al
di sopra dell’uomo, una sorta di spirito separato, che anima tutto questo e vi soffia
dentro un fuoco che lo rende caldo e splendente”
11
.
Fra i primi tentativi di definizione di metà Seicento, spicca la declinazione del
sublime in senso religioso teorizzata da John Dennis: identificando il sublime con l’idea
di Dio, egli fu indubbiamente il teorico più originale del tempo. In lui la sublimità
assume le caratteristiche del patetico, per il ruolo primario attribuito alle passioni (fra
cui innanzitutto il terrore) e per il loro nesso con la poesia. A cavallo fra il vecchio
classicismo e le nuove tendenze poetiche ed estetiche, Dennis fu, inconsapevolmente,
l’antesignano di quel sublime naturale
12
che di lì a poco avrebbe rappresentato una delle
manifestazioni più intense del sublime.
Ecco un’altra dimostrazione dell’uscita della sublimità dall’ambito strettamente
retorico e del suo ingresso nelle cose stesse. Sublime è un maestoso spettacolo naturale,
sublime è il turbamento provocato dalla forza della natura. La Lettera da Torino scritta
da Dennis durante l’attraversamento delle Alpi è il simbolo di questo nuovo gusto: sono
le emozioni suscitate dalla natura e gli effetti fisici e psicologici sull’individuo ad essere
al centro dell’esperienza sublime, di cui la scrittura è espressione.
“Attraverso la vista, l’udito, il tatto (il ruggito tremendo, la nuvolaglia di colori,
la cenere che piove addosso), il sensorio muove a un coinvolgimento attivo, a un
movimento reale e soggetto e oggetto, cultura e natura, si danno come un campo
unico di formazione: il mondo non è intellettivamente conosciuto e dominato, ma
costituito e vissuto come forma d’arte”
13
.
Già qui si presenta una condizione totale di “sinestesismo della percezione”,
suscitato da un vero e proprio attraversamento sensibile dei luoghi e delle esperienze
stesse.
È con l’Inchiesta sul Bello e il Sublime di Edmund Burke che il sublime conosce una
radicale trasformazione. La pubblicazione dell’opera nel 1757, ampliata poi nel 1759,
- 10 -
11
Cfr., Monk, S. H., Il sublime. Teorie estetiche dell’Inghilterra del Settecento, Genova, Marietti, 1991, p.
28.
12
Cfr., Saint Girons, B., Il sublime, Bologna, Il Mulino, 2006, pp. 124-125.
13
Cfr., Franzini, E., L’estetica del Settecento, Bologna, Il Mulino, 1995, p. 42.
costituisce il punto di arrivo della riflessione primosettecentesca sul sublime e insieme il
punto di partenza di una complessa trama teorica e culturale che si dipanerà nei secoli
successivi.
Il testo di Burke è emblematico della crisi di una tradizione poetico-retorica per la
sua insistenza sul terribile (il sublime) e il languido (il bello), e fornisce da un lato un
catalogo delle situazioni, dei luoghi e delle atmosfere che pervaderanno tutta la
letteratura e l’arte a lui posteriore, fino alla generazione romantica e oltre; dall’altro
lato, essa segna il tramonto della concezione (neo)classica dell’uomo. In forme opposte
e simmetriche, infatti, l’esperienza del sublime e quella del bello sono esperienze di un
depotenziamento della soggettività e, al limite, di una perdita nell’altro da sé: in quella
morte che è il cuore della ricerca burkiana.
Senza terrore non può esserci sublime: in Burke tutto ciò che desta idee di dolore o di
pericolo è fonte di sublime, la più forte emozione che l’animo sia capace di sentire. Il
sublime è terribile perché implica la percezione di un rischio estremo, ed è nondimeno
piacevole perché l’impressione dolorosa è bilanciata dalla coscienza di esserne al riparo.
Non sarà dunque un piacere (pleasure) vero e proprio (che spetta piuttosto al bello),
ma una specie di dilettoso orrore (delightful horror), di tranquillità tinta di terrore, come
quella ispirata dalla notte e dal buio, dai colori foschi, dalla vastità dello spazio. In
quanto connesso a situazioni spaventose o penose, il sublime (come orrore piacevole)
trova un precedente diretto nella teoria aristotelica della tragedia, il cui scopo era di
suscitare pietà e terrore. La compassione che ne consegue è frutto di quella “giusta
distanza” che consente al soggetto l’immedesimazione, e alla rappresentazione di essere
considerata tale.
La parola, nella teoria burkiana, è suono; essa perde il suo potere immaginifico (così
determinante nell’Anonimo), e l’elaborazione di immagini (prodotto della fantasia
longiniana, nonché garanzia di efficacia del sublime) è del tutto svalutata: la chiarezza e
l’evidenza della rappresentazione, addirittura, reprimono e smorzano l’immediatezza
della passione. L’elemento visivo in Burke non deve avere la prevalenza, per questo
insiste sull’oscurità come fattore necessario al sublime. È come se con Burke si
toccassero i limiti del visibile e della visione: ciò significa implicitamente arrivare al
- 11 -
limite del conoscibile e dedurre, da un lato, che non tutto si può conoscere, e dall’altro
che c’è un’alterità che permane e che il sublime ci fa intravedere. Non è detto però che
la descrizione debba scomparire: Burke la ripensa in termini di esperienza del soggetto.
L’elemento soggettivo nel sublime è fondamentale ed è ciò che non si deve mai
perdere a vantaggio di una resa oggettiva della realtà. Compito del poeta nella
descrizione è comunicare l’esperienza del soggetto: il descrittivismo troppo fedele alla
realtà non può andare a discapito dell’elemento soggettivo. Se la componente linguistica
è centrale in Longino, lo è anche in Burke: egli infatti, nella sua estetica del linguaggio,
non cancella la descrizione, essa non viene mai meno, ma viene riformulata come
valorizzazione dell’esperienza soggettiva. L’espressione del sublime è legata
all’espressione linguistica proprio grazie alla componente soggettiva, in nome di
un’esperienza che è prima patita e poi sollecitata e comunicata.
Il ripensamento burkiano del linguaggio poetico comporta un recupero del contatto
diretto con la realtà, con la natura, con l’esperienza che precede il linguaggio stesso, il
quale diviene a sua volta il mezzo necessario per l’esperienza sublime, che resta di fatto
l’“illusione” di una realtà di cui il soggetto può godere dalla sua posizione di spettatore.
La finzione è paradossalmente l’unica vera possibilità di coinvolgimento passionale.
Tutta l’Inchiesta è tesa tra lo choc di un dolore che ci impone il compito urgente di
fuggire e un passaggio di energia assicurata dal discorso. In tal modo la passione di
conservazione del sé si trasforma alla fine in passione di un discorso che amplia la
nostra sfera di sensibilità, e ci permette di accedere direttamente a ciò che si potrebbe
chiamare la significanza, cioè all’efficacia della parola in sé, nella sua “costituzione
fisica” di suono in cui si radica l’articolazione di un senso. La quinta parte dell’Enquiry
sviluppa l’idea del segno propriamente umano, suggerendo così il valore totalmente
originale che vi si associa, poiché esso rinvia a delle impressioni e a un sistema del
discorso stesso piuttosto che a degli oggetti.
Una teoria dinamica dei segni che privilegia la componente affettiva del discorso,
accanto alle componenti fonetiche e rappresentative. Che cosa implica allora la
costituzione di un’energetica del linguaggio in ciò che riguarda il sorgere del sublime?
- 12 -