5
Introduzione alla dissertazione:
Le tensioni sulla penisola coreana affondano le proprie radici in un passato non lontano, ma a volte
negletto della memoria collettiva: oggi, quando a luglio di quest’anno leggiamo dell’affondamento
della corvetta sudcoreana Cheonan, la tentazione immediata è quella di dare una lettura emotiva
dell’accaduto, tendenza figlia di un’epoca estremamente realista, costretta a constatare come
terrorismo internazionale e ricorso alle armi non siano eventualità poi così lontane dai propri
confini. Lo scopo principale del lavoro qui presentato è gettare luce su una questione che coinvolge
un attore imprevedibile e recalcitrante, un gigante economico dalle intenzioni non sempre
trasparenti e come alcune dinamiche si siano riverberate su un’intera area geopolitica:
rispettivamente, saranno oggetto della dissertazione la Repubblica Democratica Popolare di Corea,
la Cina e il Nord Est Asiatico.
Nel corso di tre momenti principali, andremo ad analizzare le evoluzioni dell’equilibrio di potenza
nella regione asiatica, utilizzando parallelamente un focus temporale e geografico: dagli sviluppi
storici della regione asiatica, concentreremo la nostra attenzione sugli effetti dei test nucleari più
recenti di Pyongyang e analizzeremo la progressiva evoluzione della penisola coreana in qualità di
teatro regionale del conflitto politico internazionale; successivamente, la nostra prospettiva si
rivolgerà alla valutazione dell’ascesa internazionale di Pechino e in chiusura, opereremo una sintesi
tra l’esperienza cinese e quella nordcoreana per valutare se i legami storici, ideologici e politico-
strategici che le uniscono, hanno subito evoluzioni rispetto al passato.
Nel primo capitolo viene fornita un’inquadratura di tipo storico geografico: l’affermazione
dell’egemonia statunitense, dopo la Seconda Guerra Mondiale, plasma l’ordine internazionale
attraverso i principi d’identità collettiva condivisa, istituzioni democratiche ed interdipendenza
economica (sancendo la vittoria occidentale della Guerra Fredda e stringendo forti legami con il
Giappone). La politica di potenza benevola salda un fronte unico occidentale, contro il quale
dovranno misurarsi in futuro gli aspiranti egemoni asiatici: così la Cina, uscita dalla Rivoluzione del
1949, dovrà affrontare l’inossidabilità di un Partito Comunista onnipresente, le contraddizioni
interne e le utopie del suo Governo, prima di aspirare all’ingresso nel commercio internazionale. In
questi anni, l’”equilibrio del terrore” si concretizza nel conflitto coreano, scatenando le aspirazioni
delle potenze bipolari a ristabilire la propria influenza su un Paese diviso a tavolino: proprio dalla
divisione delle due Coree originano le tensioni di un Paese che ha mantenuto dentro i propri confini
la Guerra Fredda, anche dopo il 1989. Così si consuma la rottura definitiva tra Cina, intervenuta in
soccorso della Corea del Nord, e Stati Uniti, che estendono la propria sfera protettiva al Sud.
L’ingresso cinese nella Guerra di Corea sancisce l’aspirazione della Repubblica Popolare allo status
6
di superpotenza regionale, delineando con chiarezza l’antagonismo emerso in precedenza a causa
dell’allineamento occidentale e separazionista di Taiwan: la ricomposizione dei rapporti sino
statunitensi si avrà solo nel 1979 attraverso la firma del Taiwan Relations Act, parallelamente alla
fioritura dell’economia cinese e al rinnovato interesse verso un coinvolgimento nel mercato
internazionale.
Nel secondo capitolo vengono affrontate le contraddizioni del Governo di Pyongyang, dalla
dipendenza economica nei confronti dell’Unione Sovietica allo scarto con Seoul, che sotto
l’ombrello protettivo americano inaugura un boom economico, guadagnandosi il titolo di “tigre
asiatica” negli anni Novanta. La Guerra Fredda, l’ideologia dell’autosufficienza o Juche promulgata
dall’”eterno leader” totalitario Kim Il Sung prima e dal figlio Kim Jong Il, penetrano e si radicano
nell’economia di un Paese che, a spese della popolazione, cammina costantemente su un filo
sospeso nel vuoto: il programma nucleare nordcoreano viene sviluppato nonostante l’ingresso nel
Trattato di Non Proliferazione e diventa unica opportunità di conquistare un minimo vantaggio
competitivo nell’arena internazionale, frutto di lucido realismo e di una costante “strategia del
rischio calcolato”. I test nucleari eseguiti ad ottobre del 2006 e primavera 2009 si accompagnano a
timidi progressi e passi indietro: con l’inizio dei Six Party Talks, gli accordi multilaterali a sei
indetti per la gestione del problema nordcoreano, il dialogo viene avviato, ma la posizione
intransigente dell’amministrazione americana del 2003 causa il ritiro della DPRK dal TNP. A
dispetto delle critiche e degli oggettivi insuccessi di una politica molto ferma come quella Bush, è
opportuno riconoscerle il merito di avere portato il problema della DPRK all’attenzione
internazionale e di aver agito attivamente in sede di negoziazioni, seppure in modo non sempre
appropriato, rispetto all’inerzia delle potenze regionali. A conclusione del secondo capitolo,
vengono analizzate brevemente le posizioni delle nuove presidenze di Washington, Mosca, Seoul e
Tokyo nei confronti dell’assertività di Pyongyang, evidenziando i cambiamenti rispetto alle
posizioni passive del passato e delineando una congiuntura tra interessi americani, giapponesi e
sudcoreani dopo l’ultimo test: la Russia confida nel proprio ascendente sulla Corea del Nord grazie
al passato ideologico e politico comune, ma appare più che altro in cerca del faticoso compromesso
tra una sfida regionale con la Cina e il mantenere credibilità all’interno della Comunità
Internazionale.
Nel terzo e ultimo capitolo, il nostro focus si sposta sulle concezioni cinesi di “deterrenza nucleare”
e “politica di basso profilo”, concetti ibridi che sembrano mal conciliarsi con le aspirazioni
egemoniche di Pechino: la stessa cautela impiegata dalla leadership cinese nel proporsi alla
Comunità Internazionale come legittimo challenger degli USA e bilanciatore delle tendenze
unilateraliste all’interno dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, viene riproposta nell’affrontare il
7
problema della denuclearizzazione di Pyongyang. Abbracciando la causa del principio del No First
Use, della limitatezza dell’arsenale nucleare e della lotta al disarmo, Pechino sembra formalmente
giustificare il comportamento della Corea del Nord, opponendosi a qualsiasi soluzione aggressiva
che miri alla detronizzazione di Kim Jong Il: vedremo in realtà, come lo sguardo cinese sia
primariamente orientato al mantenimento della stabilità regionale nel Nord Est Asiatico e la stessa
Corea del Nord ricopra un ruolo subordinato, se inserita in un contesto di conflitto aperto con
Taiwan e gli Stati Uniti. Osserveremo anche le conseguenze che l’ascesa di Pechino ha avuto sui
vicini nucleari asiatici India e Pakistan, e come il profilarsi di un asse anticinese tra Washington,
New Delhi e Tokyo abbia scatenato la partnership strategica cinese con Islamabad. A chiusura della
dissertazione, vengono posti alcuni interrogativi all’attenzione del lettore, per indagare sulle tracce
di un effettivo cambiamento nella politica estera cinese e per avviare una riflessione sul futuro del
Nord Est Asiatico.
8
1. L’equilibrio strategico nel Nord Est Asiatico
1.1. Gli USA vincitori della guerra
“Il Governo degli Stati Uniti d’America, anche in nome dei Governi di Regno Unito, URSS, Cina e
del Governo Provvisorio della Repubblica Francese, invita i Governi ad inviare i propri
rappresentanti alla Conferenza che si terrà il 25 Aprile 1945 a San Francisco, per preparare lo
Statuto di un’Organizzazione Internazionale Generale che avrà il compito di mantenere la pace e la
sicurezza internazionale”. Con la celebre convocazione, redatta nel febbraio dello stesso anno a
Yalta dai Capi di Governo di Regno Unito, URSS e Stati Uniti d’America, vengono invitate le
cinquanta nazioni che rappresentavano la nuova Comunità Internazionale a seguito del secondo
conflitto mondiale. Non è banale che la sede scelta per la prima Conferenza mondiale
dell’organizzazione internazionale a vocazione universale ONU sia stata proprio americana: a ben
vedere, i principi ispiratori del futuro ordine internazionale avevano già un aspetto compiuto nella
Carta Atlantica del 41 grazie all’intuito di Churchill e Roosevelt. Il ruolo statunitense era quindi ben
lontano dal discreto isolazionismo professato nel secolo precedente, e l’indirizzo intrapreso nel
1945 lasciava intravedere chiaramente i primi germogli di una futura, inedita, politica di potenza.
Due fattori principali si sono incrociati nel rendere il terreno fertile al graduale dispiegarsi
dell’egemonia statunitense del secondo dopoguerra : l’instaurazione di un ordine internazionale con
caratteristiche inedite e il cambiamento nella politica estera americana. Da una parte, Come ha
autorevolmente sostenuto Robert Gilpin,1, il cambiamento negli equilibri di potere è avvenuto
Tradizionalmente attraverso l’ascesa e il declino delle potenze: il progressivo indebolirsi
dell’egemone “ in carica” favoriva l’emergere di uno sfidante, il quale accresceva la propria potenza
per sostenere quella che Gilpin ha definito una “guerra generale”, ovvero una guerra per
l’egemonia; in caso di vittoria, il nuovo egemone creava il “suo” ordine, plasmato sulle sue
esigenze. A questa prospettiva realista si è affiancata progressivamente un’evoluzione delle
relazioni internazionali in senso kantiano : i nuovi “stati guida” del secondo dopoguerra hanno
convenuto che l’unica strada percorribile al fine di migliorare l’anarchia dell’ordine internazionale2
1
Robert Gilpin, War and Change in World Politics, New York Cambridge University Press, 1981.
2
Per il realismo “strutturale” di Waltz, gli attori principali del sistema internazionale sono gli stati. Essi vivono in una
condizione anarchica perenne , la quale crea il cosiddetto “dilemma della sicurezza” per cui ogni stato volgerà la
propria azione principalmente alla lotta per il predominio (similmente ad uno stato di natura hobbesiano); Kenneth N.
Waltz, Man, the State and War: A Theoretical Analysis, New York, Columbia University Press, 1959: trad. it.,
L’Uomo, lo Stato e la Guerra, Milano, Giuffrè, 1998, p. 34. Teorico del realismo nella sua accezione classica è invece
9
fosse la limitazione del ricorso alla forza, sancendolo giuridicamente come norma inderogabile e
costruendo un ambiente altamente istituzionalizzato.
Dall’altra parte, assistiamo all’adattamento della strategia statunitense alle circostanze politiche:
mentre in Europa una Germania unificata e apparentemente invincibile minaccia lo status quo e
scatena le dinamiche classiche della transizione di potere 3 (corsa agli armamenti, insicurezza ,
competizione internazionale per le risorse e conseguente inevitabile conflitto), l’America avvia una
transizione molto più pacifica e “implicita”: in principio, formalmente al riparo della vecchia
dottrina Monroe del 1823 (che sanciva l’isolazionismo americano), poi gradualmente muovendosi
entro i confini dell’ordine creato dal precedente egemone britannico: offrendo un mercato offshore
ai capitali britannici, e partecipando con riluttanza alle questioni europee, riesce ad essere percepita
come non minacciosa e conquistare la fiducia inglese4. A conferma della teoria di Gilpin quindi,
eliminato l’ostacolo tedesco ed esaurite le forze inglesi, un nuovo egemone fa terra bruciata degli
equilibri di potenza vigenti5.
E’ sulle ceneri lasciate dal secondo conflitto mondiale che prende forma il ruolo guida6 dei futuri
padroni della scena internazionale, che si manterranno in costante vantaggio rispetto alle altre
potenze per tutti i successivi 50 anni: vincendo la Guerra Fredda e sconfiggendo il comunismo sotto
la protezione democratica di istituzioni e alleanze, gli Stati Uniti consentiranno da una parte di
reintegrare nel dopoguerra Germania e Giappone, e dall’altra di saldare definitivamente l’unione tra
l’egemone e i paesi occidentali (riassumibile in “tre I” 7: identità collettiva condivisa di valori ed
ideali, istituzioni e interdipendenza economica) .
E’ possibile ravvisare due variabili indipendenti, poste alla base di questo processo di transizione di
potere:
il carattere politico degli attori coinvolti: il passaggio di potere dalla Gran Bretagna agli Stati
Uniti mostra, in ossequio alla teoria della pace democratica, che le potenze democratiche
Morgenthau, la cui attenzione è più incentrata sull’attore – Stato. Politics Among Nations. The Struggle for Power and
Peace, New York, New York University Press, 1959.
3
John Ikenberry, After Victory: Institutions, Strategic Restraint, and the Rebuilding of Order after Major Wars,
Princeton, Princeton University Press, 2001. trad. it. Dopo la vittoria. Istituzioni, strategie della moderazione e
ricostruzione dell’ordine internazionale dopo le grandi guerre, Milano, Vita e Pensiero, 2003;
4
John Ikenberry, Rise of China, Power Transitions and the Western Order, Princeton, Princeton Univesity,4 dicembre
2005.
5 Ronald Tammen, Power Transitions Strategies for 21st Century, New York Chatham House Publishers, 2000
6 Secondo Modelski infatti, gli USA rappresentano il 4° egemone storico dopo i cicli egemonici di Portogallo nel
XVI° secolo, Olanda nel XVII° secolo e Gran Bretagna fino al 1945, cicli originati e ineluttabilmente destinati alla
guerra. Sulla definizione di “guerra costituente”, si veda Fabio Armao, Società internazionale, Milano, Vocabolario
1991.
7 Vittorio Emanuele Parsi, L’Alleanza Inevitabile: Europa e Stati Uniti oltre l’Iraq, Università Bocconi Editore
Milano, 2003
10
tendono a non ricorrere al conflitto tra loro8; e similmente, davanti all’ascesa di un attore
non democratico, attori democratici faranno più spesso ricorso a controbilanciamenti o
strategie di balancing, piuttosto che di band-wagoning9 . Nel nostro caso gli USA e gli
alleati, dopo il 1945, daranno il via ad un modo di affrontare crescita e declino del potere del
tutto innovativo: accentrando il potere e sviluppando strategie istituzionali si renderanno
reciprocamente meno pericolosi, attenuando le conseguenze di eventuali asimmetrie
all’interno; allo stesso tempo, proietteranno all’esterno una forza collettiva unitaria senza
precedenti, plasmando così un ordine ampio e profondamente integrato di relazioni
multilaterali e di cooperazioni in ambito di sicurezza10;
la strategia istituzionale percorsa: tendenzialmente politiche aperte e istituzionalizzate
provocheranno raramente il ricorso alla forza in modo arbitrario, ed le disparità tra potenze
democratiche verranno percepite come meno invadenti. Nel caso specifico, il potere Usa:
a. è istituzionalizzato, quindi è considerato legittimo; il sistema politico decentralizzato
insieme a un sistema partitico e mediatico molto competitivi assicurano trasparenza e
coerenza alle politiche egemoniche, permettendo agli attori di prevederne i
comportamenti e instaurare durature relazioni reciproche. Questo scongiura il timore di
decisioni arbitrarie da parte dell’egemone, sebbene in diversi casi la politica
statunitense non si sia distinta per coerenza con le istituzioni da lei stessa create. In
ogni caso, l’intermittente ambiguità americana non sembra scoraggiare la tendenza
degli stati ad integrarsi al sistema occidentale, piuttosto che a contrastarlo;
b. offre agli altri attori la possibilità di “voice opportunity”11 in sede al governo di
Washington, permettendogli di farsi coinvolgere in modo attivo nell’esercizio del potere.
L’azione americana lascerà il segno del suo passaggio soprattutto nel periodo bipolare della Guerra
Fredda, permettendo la reintegrazione “sicura” degli sconfitti Germania e Giappone: verso la
Germania viene attuata una politica istituzionale di coinvolgimento-contenimento (“congagement”)
8 Randall Schweller, “Domestic Structure and preventive War: Are democracies more pacific?”, World Politics, 1992
9 K.N. Waltz, Theory of International Politics, Reading, 1979; trad. it. Teoria della politica internazionale, Il Mulino,
Bologna 1987.
10
Daniel Deudney and John Ikenberry “The sources and Character of Liberal International order”, Review of
International Studies vol 25, 1999
11
Joseph M Grieco, “State Interests and Institutional Rule trajectory: a neorealist interpretation of the Maastricht
Treaty and European Economic and Monetary Union”, Security Studies 1996)
11
all’interno della sfera occidentale al fine di evitarne l’assorbimento da parte del blocco sovietico
orientale ( coerentemente con le parole pronunciate dal segretario di stato Marshall nel 1948: “(...)
unless Western Germany during coming year is effectively associated with Western European
nations (…), there is a real danger that whole of Germany will be drawn into the eastern orbit with
dire consequences for all of us”12). Il tentativo operato nei confronti del Giappone è stato rivolgere
le relazioni commerciali asiatiche ai mercati americani e occidentali, sancendo la sua integrazione
nell’occidente attraverso un’alleanza di pace: questa ha permesso una consistente riduzione delle
spese giapponesi in ambito militare, a scapito del suo ruolo competitivo rispetto agli sfidanti
asiatici, tra cui la Cina (successivamente sarà l’ala di protezione americana a permettere tanto al
Giappone quanto alla Germania di raggiungere la vetta delle potenze economiche mondiali, verso la
fine del secolo).
Si può dedurre quindi che l’attitudine politica degli attori, unitamente alle scelte istituzionali
seguite, determinano una particolare combinazione nelle fluttuazioni della distribuzione di potere: è
innegabile , nonostante la crisi di gestione della leadership a cui stiamo assistendo, che la politica di
potenza benevola americana abbia guidato e plasmato dall’interno un fronte unico occidentale.
Questo è un passaggio obbligato da superare per l’ammissione futura di qualsiasi attore emergente
sulla scena globale, indipendentemente dalla sua autosufficienza.
12
cit. “Minutes of the 6th meeting of the United States, United Kingdom and Canada security conversations, held in
Washington 1 April 1948, Foreign Relations of the US 1948, vol 3 pag 71.
12
1.2. Il comunismo in Cina
Il 1° ottobre del 2009 abbiamo assistito ad una scenografica parata militare in Piazza Tian an men a
Pechino: un totale di 8000 soldati dispiegati a esibire l’immagine di opulenza, unità e soprattutto
potenza che il Partito Comunista Cinese (o Zhōngguó Gòngchǎndǎng) ha indiscutibilmente
edificato in questi 60 anni di ininterrotto governo, guadagnandosi il titolo di “più grande partito del
mondo”13 . 14
Nello stesso giorno del 1949, una volta definitivamente sconfitta l’opposizione del partito
nazionalista Guómíndǎng, la cosiddetta “ dittatura democratica popolare”15 diventava il partito
unico di governo della Repubblica Popolare Cinese : 600 milioni di abitanti allora, oltre un miliardo
e 300 milioni di persone oggi.
Il cammino del Partito inizia con lo scopo dichiarato di realizzare in qualche decennio la
trasformazione da arretrato sistema feudale a paese industrializzato, seguendo l’esempio sovietico.
13
“How China is ruled”, BBC News, riportato il 15 ottobre 2006, www.news.bbc.co.uk.
14
Per I dati relativi alla demografia e allo sviluppo cinesi si rinvia a quanto viene affermato da una fonte nazionale
http://www.cpirc.org.cn/en/eindex.htm , China Population Development and Research Center (CPDRC), Source:
National Bureau of Statistics, P.R.China,
15 Secondo la definizione datane da Mao in un articolo scritto in occasione della commemorazione del XXVIII
anniversario del Partito Comunista Cinese, nel 1949.
0,00%
1,00%
2,00%
3,00%
4,00%
5,00%
6,00%
7,00%
8,00%
1940 1950 1960 1970 1980 1990 2000 2010 2020Anno
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