INTRODUZIONE
Il caso rom non è un caso umano né ideologico, non è il caso di Ponticelli o di
Opera e neanche un caso di razzismo o di xenofobia. Il caso rom è piuttosto uno
spazio di pensabilità, di occorrenza e di coincidenza, dove ogni singola lettura,
informazione o pensiero ha contribuito alla realizzazione di questo elaborato, che mi
piacerebbe presentare come l’incarnazione modesta di una riflessione ardita. Ho
sempre confidato nella forza del retaggio scientifico, credo che i costrutti teorici e i
dati sperimentali rappresentino in esclusiva l’ancoraggio più valido per qualunque
allestimento argomentativo. Nel mio caso, tuttavia, non ho potuto disporre
adeguatamente di questa risorsa giacché il mio interesse, collocandosi su uno dei più
moderni fronti di ricerca, ha potuto nutrirsi di ben più esigui contributi scientifici. Il
mio lavoro pertanto non consisterà nella presentazione di un progetto sperimentale
e nemmeno in una rassegna teorica. E tuttavia, solo attraversando entrambe le
dimensioni, esso ha potuto costituirsi in ultima istanza come un’ipotesi personale,
che vorrei fosse riconosciuta proprio a partire dal suo deficit scientifico, perché solo
ciò che oggi è probabile può aspirare a diventare certo un domani. Ciò cui ambisco è
un futuro non troppo lontano, in cui avrò la possibilità di giustificare, oltre che
presentare il caso rom, come quello di una cultura che ha messo ai margini la
psicopatologia. Si tratta di un’idea, che non nasce come premessa di un discorso che
cerca di corroborarla, essa si configura meglio come prodotto emergente da una
riflessione tuttora in corso, fecondata da correnti logiche sia di natura deduttiva sia
induttiva. I rom hanno rappresentato l’oggetto della mia attenzione in un modo che
definirei impopolare, che oltrepassa i luoghi della conoscenza comune, per spingersi
sino ai suoi bordi in un territorio ancora inesplorato che è quello della
psicopatologia. La salute dei rom è sempre stata discussa come un’emergenza, e
questa rilevazione, lungi dall’essere infondata, si conforma al dato reale secondo cui
“le condizioni di salute nelle comunità rom sono di gran lunga inferiori rispetto a
1
quelle delle comunità maggioritarie”.. In realtà anche quest’evidenza ha faticato a
costituirsi come tale poiché, la presenza dei rom, pur essendo una costante
territoriale delle nazioni europee, non è mai stata regolamentata. In Italia ad
esempio, per quanto riguarda la politica sanitaria, i rom privi di cittadinanza sono
assimilati alla categoria degli stranieri extracomunitari e perciò possono accedere ai
servizi sanitari pubblici come previsto dalla normativa vigente sull’immigrazione. In
realtà, a differenza degli immigrati, i rom sfruttano poco quest’ opportunità, come
attestato dalla scarsa frequentazione delle strutture e dei servizi territoriali, e da una
più generale resistenza ad ogni forma di prescrizione medica specie di tipo
farmacologico. Così, per quanto i rom siano indicati come una popolazione a
rischio, manca una rilevazione di quelli che potrebbero rivelarsi bisogni sanitari
specifici, e la possibilità di monitorare il loro effettivo stato di salute appare
ulteriormente compromessa dalla frequenza con cui essi eludono i censimenti. Il
1
A.A.V.V., Comunità ROM e Salute in Italia in Reducation of Health Inequalities in the Rom Community;
Edizione curata da Maria Grazia Mastrangelo (Coordinamento Nazionale delle Comunità di
Accoglienza)
VI
concetto di rischio, sembra fondarsi perciò su una presunzione piuttosto che sulla
denuncia di una condizione ampiamente certificata. Il problema delle presunzioni è
che esse spesso falliscono ma qualche volta sono attendibili: la salute dei rom si
inscrive in questo secondo ordine di possibilità. Il rischio in questo caso non è
immaginario ma è reale, esso ha cioè un tempo, quello contingente, e uno spazio
definito, quello del campo nomadi. Al di là della retorica, i campi nomadi siano essi
regolari o abusivi, versano in condizioni tali da suscitare realmente un sentimento di
preoccupazione per la salute di chi li abita. E non serve sforzare l’immaginazione
per avere una misura dell’entità del disagio: basta visitarne uno. Personalmente dei
tre campi che ho visitato ne ho potuto constare il degrado, e per ciascuno di essi la
mia prima impressione, al di là dell’obbrobrio architettonico o della residualità
urbana, è stata quella di uno spazio poco salubre. I più penalizzati sono come
sempre i segmenti deboli della popolazione, le donne e i bambini e questi ultimi
2
sono presenti in una quota assai consistente. Della Rocca sottolinea, infatti, che si
tratta di una popolazione assai giovane di cui il 45-50% con un’età inferiore ai sedici
anni. Se poi consideriamo l’alto tasso di natalità per la popolazione di riferimento,
allora comprendiamo meglio come le pubbliche amministrazioni e il mondo dell’
associazionismo si siano, specialmente negli ultimi anni, impegnati a promuovere la
salute dei rom con campagne di sensibilizzazione e politiche di intervento destinate
a ridurre il rischio di infezioni, epidemie e malattie che trovano nel campo un
ambiente di sviluppo particolarmente prolifico. Dinanzi a questo prepotente stato di
devastazione, l’urgenza “organica” ha affievolito l’interesse per l’altro profilo della
salute, quello psicologico, che forse non denota proprio un’area di pronto
intervento, ma che rischia di essere ugualmente trasfigurato e di lasciare segni
altrettanto evidenti. Inizialmente ho avuto motivo di credere che la precarietà
ascrivibile all’essere rom, considerata non solo limitatamente al rischio per la propria
salute, ma generalizzata a tutta un’altra serie di condizioni, che non ho evitato di
riportare nel testo, potesse costituirsi come un fattore di stress predisponente al
disagio psichico. Ho immaginato che la necessità di dover gestire uno stato di
emergenza continua, spesso aggravato dalla mancanza di mezzi materiali per farvi
fronte, potesse rendersi responsabile di una fragilizzazione psichica.
Successivamente, non solo ho dovuto rivisitare questa posizione, ma sono scivolata
nella convinzione diametralmente opposta, e cioè che i rom siano culturalmente
preservati dal disagio psichico. Con questo non intendo affermare che l’eventualità
psicopatologica non possa ricorrere tra i rom, intendo evidenziare che i tempi di
maturazione di questo processo sono rallentati dalla presenza di specifiche leve di
resistenza messe a disposizione dalla cultura. In particolare, la fermezza e la
continuità culturale hanno costituito per il popolo rom un dispositivo di immunità
psichica, che funziona tamponando l’impatto negativo degli urti traumatici e
2
In particolare secondo l’Autore, il 70% della popolazione considerata avrebbe meno di trent’anni e
solo il 2-3% supererebbe i sessanta. All’alta natalità si oppone l’alta mortalità con un rovesciamento
del vertice nella piramide generazionale rispetto a come si presenta nel nostro Paese. Il fatto che
l’aspettativa di vita sia più bassa presso i rom, ha costituito un altro elemento su cui è stata fondata
la percezione di rischio riferita alla salute della popolazione di riferimento. P . Morozzo della Rocca,
la condizione giuridica degli zingari in Impagliazzo M. (a cura di), Il caso zingari, Leonardo
International, Milano 2008, p. 59.
VII
riducendo la vulnerabilità del gruppo e dei singoli individui alla psicopatologia. Per
comprendere in che modo la funzione culturale possa essere letta in termini
immunitari, il primo passo è stato quello di riservarle un approfondimento
attraverso gli elementi più caratterizzanti. Nella prima parte dl mio lavoro, ho
cercato perciò di fornire un profilo storico-culturale dell’identità rom. L’identità di
un individuo, di un gruppo e perciò anche di un popolo è innanzitutto espressa dal
nome. Nel caso dei rom il problema del nome è poi particolarmente sentito visto
che essi continuano a costituire l’oggetto di attribuzioni indebite. La tendenza più
diffusa è di assimilarli a categorie più generali come quella degli zingari o dei rumeni,
con l’effetto di generare una conoscenza che si presenta viziata sin dalle origini della
definizione da cui protende il suo sviluppo. Gli errori nella conoscenza sono
chiaramente leciti, anzi l’ignoranza è l’atto costitutivo dal quale essa edifica il suo
stato, e in generale l’onniscienza non è una prerogativa umana. Ciò che voglio è che,
per quanto la curiosità sia un’attitudine apprezzabile, ognuno può orientarla dove
preferisce, e perciò non tutti potrebbero essere interessati ai rom. La questione
diventa problematica quando l’ignoranza è sopperita da una falsa conoscenza, e
quando quest’ultima implica giudizi di valori. I rom sono diventati l’emblema di una
falsa conoscenza e hanno risentito dell’imbruttimento gratuito che ne è disceso. In
particolare, negli ultimi due anni, in molte vicende di cronaca i rom sono figurati
protagonisti anche quando non lo sono stati, così la loro immagine macellata nel
tritacarne televisivo è stata rinviata all’opinione pubblica trasfigurata. Ad infervorare
la polemica, la politica è scesa in campo per tutelare la sicurezza dei cittadini con
proposte di legge ed interventi spesso assai discutibili. Non vorrei politicizzare la
discussione, voglio tuttavia legittimare come dinanzi ad una galoppante confusione
la prima domanda che mi sono posta è stata: chi sono i rom? Nell’ambito del primo
capitolo, scortata dal faro dell’antropologia, ha cercato di far luce su questo primo
interrogativo. Ho raccolto una serie di informazioni di partenza, che ho cercato poi
di inscrivere all’interno di un ragionamento lineare che rendesse meno equivocabile
agli occhi di tutti la questione posta dall’identità rom. In questa prospettiva ho
seguito l’itinerario storico risalendo alla comune origine indiana del popolo rom per
poi discendere, attraverso le migrazioni secolari, fino al loro ingresso in Europa. Nel
corso di questo percorso trapela la natura conflittuale delle relazioni che i rom
hanno intrattenuto con le popolazioni limitrofe e, che si sono sempre trovati a
gestire in un rapporto sbilanciato di forze in cui essi hanno potuto competere solo
come minoranza. L’effetto è che la storia del popolo rom si rivela una storia di
violenza e di persecuzioni perpetrate nel corso degli anni fino al drammatico epilogo
dell’olocausto nazista. In questa fase, in cui i rom hanno sempre subito e sopportato
la minaccia esterna di una soppressione fisico-culturale, essi hanno rappresentato il
suggestivo esempio di una resistenza non armata che si è opposta all’aggressione
con la sola forza della cultura. In particolare, più i tentativi di smantellamento sono
apparsi feroci, più consistente è stata la radicalizzazione culturale. Barricati dalle
proprie tradizioni e dal desiderio di difenderle, i rom si sono infine dispersi come
3
“galassie di minoranze” nell’universo umano. Nel secondo capitolo ho tentato di
3
E.dell’Agnese, T. Vitale, Rom e Sinti, una galassia di minoranze senza territorio in A. Rosina,
G.Amiotti (a cura di), Identità e integrazione. Passato e presente delle minoranze nell’Europa mediterranea,
VIII
accedere alla dimensione culturale rom. In particolare, il mio approfondimento ha
riguardato alcune condizioni, come il nomadismo e l’organizzazione sociale, che
oltre a rappresentare il tessuto connettivo dell’essere rom, documentano le
specificità qualitative attraverso le quali si assiste ad una presenza culturale ancora
oggi così fortemente tipizzata. Innervata delle ragioni storico culturali del popolo
rom, la prima parte del lavoro si presenta quindi come una conditio sine qua non per
accedere al proseguimento del discorso, che ha luogo nella seconda parte del testo, e
che si propone di indagare la specifica questione della marginalità psicopatologica
presupposta per i rom. Il costrutto da cui sono partite le mie riflessioni è quello di
trauma psicologico. Definire cosa si intenda per trauma o in che modo un’esperienza
si riveli traumatica non è cosa semplice. Ogni proposta rischierebbe di rivelarsi
riduttiva se non adeguatamente argomentata e certamente essa non sarebbe in grado
di esautorare la discussione che gravita attorno al trauma. Per avere un’idea dei livelli
di applicabilità di tale costrutto, basti pensare che il trauma può servire a qualificare
lo stato di un migrante trapiantato nel nostro paese, quello di bambino reduce da
una separazione genitoriale ostile, e di un comune lavoratore vittima di un incidente
automobilistico. E il discorso si complica se ad imbattersi nelle stesse tre possibilità
elencate sono soggetti diversi da quelli che abbiamo immaginato come traumatizzati.
Cosa intendo dire? Il concetto di trauma presenta numerose declinazioni: oscilla dal
poter essere rappresentato in base ad un evento unico e sconvolgente o ad una serie
di fallimenti relazionali che solo cumulandosi nel tempo inducono l’effetto
traumatico, può essere giustificato da un accadimento macroscopico che occupa la
scena esterna o da un lieve incidente che attiva conflittualità irrisolte sullo scenario
interno, e ancora, può descrivere la percezione di un individuo e può rendersi
inutilizzabile per qualificare quella di un altro individuo che ha condiviso con il
primo la stessa esperienza. L’utilizzo del concetto di trauma appare così
condizionato dalla sua valenza semantica, e non è possibile nemmeno gerarchizzare
tra i diversi significati perché, il trauma è, in ultima istanza, sempre una reazione
individuale e, in quanto tale, non potrà essere giustificata in senso univoco da
nessuna definizione oggettiva. Tuttavia, a dispetto della sua natura polivalente, è
possibile oscurare le varie interpretazioni a favore di un nocciolo duro che V . Caretti
e D. La Barbera descrivono molto bene nella prefazione all’edizione italiana, da essi
curata, per quel lavoro immenso, frutto dello studio di vari Autori che è lo “Stress
traumatico. Gli effetti sulla mente, sul corpo e sulla società delle esperienze
intollerabili”.
Si legge che: “Il trauma psicologico è una reazione psichica, da intendere come una
ferita causata da un fattore traumatico (stressor), che comporta primariamente l’essere
sopraffatti da emozioni molto dolorose e intollerabili, e tutto il coinvolgimento della
4
persona per poterle gestire”, e ancora gli stessi riferiscono che “la consistenza e il
grado di questa specifica esperienza dipendono dalla vulnerabilità e dalla resilienza
5
individuale, e pertanto la reazione psichica ai traumi è prevalentemente soggettiva”.
Franco Angeli, Milano 2007, da pp. 123-140.
4
Aa.Vv; Stress Traumatico. Gli effetti sulla mente, sul corpo e sulle società delle esperienze intollerabili, Ed.
Ma.Gi, Roma 2004
5
Ibidem
IX
In presenza di un trauma, la reazione individuale include una serie di strategie che
possono essere messe a servizio dell’adattamento o dar luogo a configurazioni
psicopatologiche. La discussione sul trauma può essere implementata su vari fronti
di osservazione e nessuno di essi è trascurabile. Perciò, nel primo capitolo della
seconda parte, ho eseguito una breve escursione nel sentiero del trauma cercando di
valorizzare i diversi contributi attraverso cui è possibile accedere a questa stratificata
dimensione semantica. In tutti i casi, a prescindere dalla predilezione di uno o
dell’altro vertice di osservazione, nella tradizione psicologica è ormai ufficialmente
conclamata la relazione tra il trauma e la psicopatologia. Sebbene il Disturbo Post
Traumatico da Stress e il Disturbo Acuto da Stress siano le uniche caselle
nosografiche che rinviano direttamente ad un’eziologia traumatica, il trauma è in
rapporto all’individuo attraverso una molteplice e articolata serie di connessioni, che
integrano o determinano molte altre configurazioni psicopatologiche. Nel corso
delle mie letture sono stata poi molto attratta da una nuova entità traumatica,
definita trauma migratorio, e applicata ad una forma peculiare di psicopatologia che
insorge in individui assai diversi ma accumunati dalla condizione di essere migranti.
L’etnopsichiatria e l’etnopsicopatologia sono le discipline che hanno concorso in
prima linea per decodificare i bisogni che tali individui presentano, poiché spesso
essi si formalizzano come domande di cura. Siamo in un ambito in cui la scienza
impara un nuovo linguaggio, in cui cioè, come osserva Beneduce, essa si misura con
la necessità di un dialogo tra vari campi del sapere “che senza evocare ad ogni passo
l’interdisciplinarietà realizza forse di quest’ultima la natura più autentica: la
6
provvisorietà epistemologica”.
L’aspetto interessante è che la traumaticità del transito migratorio sarebbe associata
alla perdita della propria cultura madre. Essa comporterebbe una serie di rotture
multiple tali da paralizzare l’individuo in uno stato di alienazione dal modo e da se
stesso. In questo stato di totale o parziale immobilismo, in cui il significato della vita
appare liquefarsi nell’esperienza di un lutto, non raramente l’elaborazione si fa
patologica. La cultura trascende chiaramente il suo significato ordinario, o meglio lo
comprende per costituirsi al contempo “come un insieme complesso e flessibile di
7
norme, valori e mezzi pratici e simbolici”. Inserito nel proprio contesto culturale
l’individuo può accedere a questa risorsa, ed inoltre, la presenza del gruppo
garantisce una rete di supporto all’interno della quale esperienze particolarmente
dolorose possono essere significate, socializzate e perciò diminuite della loro
distruttività. La cultura può essere considerata come un sistema di protezione, nella
modalità di un involucro psichico, che agisce a tutti i livelli della dimensione
individuale, ivi compreso quello della salute. La perdita culturale può perciò
trasformarsi in una perdita assoluta, e la disintegrazione retroagisce su tutti quei
livelli che prima erano stati salvaguardati e perciò anche sulla salute, determinandone
una compromissione che non raramente ha carattere psicopatologico. In questa
prospettiva diventa possibile modificare il rapporto individuo-trauma a favore di una
6
R. Beneduce, Frontiere dell’identità e della memoria. Etnopsichiatria e migrazioni in un mondo
creolo, F. Angeli, Milano 2004
7
M.W.de Vries; Aspetti culturali del trauma; in Aa.Vv. Stress Traumatico. Gli effetti sulla mente, sul corpo
e sulle società delle esperienze intollerabili, Ed. Ma.Gi; Roma 2004
X
triangolazione che si realizza per mezzo della cultura. L’interposizione di un terzo
termine, come il trauma migratorio ha già reso evidente, non è priva di conseguenza:
l’influenza della cultura può costantemente allentare la tensione tra l’individuo e il
trauma fino a squalificare la possibilità che esso si costituisca come tale, e riducendo
quindi la probabilità che il prodotto di questo rapporto sia di natura psicopatologica.
Il caso rom, che presento nell’ultimo capitolo del mio lavoro, realizzerebbe questa
possibilità, quella cioè di una cultura che ha messo ai margini la psicopatologia. Per
sviluppare la discussione mi sono mossa attraverso la griglia che Losi ha utilizzato
per analizzare la struttura del trauma migratorio. In essa sono enumerati i principali
fattori di stress psicosociale per il migrante, quelli cioè che, assommandaosi
attraverso la perdita culturale, possono costituire il precipitum traumatico. Ho
individuato la possibilità di accostare la condizione dei migranti con quella dei rom
perché entrambe le tipologie sono presenti sul nostro territorio in qualità di
minoranze. Tuttavia la messa a punto di un lavoro comparativo, eseguito scorrendo
attraverso gli elementi della griglia, mi ha agevolata nel tentativo di dimostrare che, la
diversa modalità con cui ciascuna categoria realizza la sua presenza, e che si rende
peggiorativa della salute psichica del migrante, in realtà non sortisce il medesimo
effetto presso i rom. La differenza tra le due posizioni risulta essere essenzializzata
alla luce della presenza culturale che ricorre tra i rom ed è invece perduta nel
migrante. In questa prospettiva ho cercato di esplicitare l’azione immunitaria di tipo
culturale che viene costantemente e inconsciamente esercitata in presenza di una
serie di meccanismi omeostatici attivi nel gruppo di riferimento. Il gruppo è il luogo
in cui i bisogni individuali possono transitare ed essere accolti, in cui la com-
presenza è l’ istituendo primario delle riparazioni e delle restituzioni possibili che
sono altrimenti rese possibili solo dal lavoro terapeutico.
Le mie ultime annotazioni riguardano alcune scelte tecniche che ho privilegiato per
ragioni convenzionali. Sebbene, come osserva Piasere, si sia affermata negli ambienti
romologici la tendenza a scrivere “Rom” o “Zingaro” con la lettera maiuscola, quasi
a riscattare un’ identità discreditata o non riconosciuta, non avallerò questa
posizione. Preferisco allinearmi con gli Autori che, senza alcun intento di
svalorizzare o sminuire l’identità rom, prediligono l’uso della minuscola per
disegnare il nome di popoli, con l’unico interesse di conformarmi ad una regola
implicita ma affermata del linguaggio italiano. E nello stesso modo, per quanto
concerne alcune parole specifiche come gagio, gagè, o romanès (i cui significati sono
di volta in volta resi noti nel testo), replicherò l’utilizzo che ne è stato fatto dai molti
che prima di me e molto più a lungo hanno familiarizzato con il mondo rom.
XI
PARTE I
RAGIONI E STORIA DI UN POPOLO
1
ROM: DI CHI PARLIAMO?
“Se non fossi nato zingaro, non amerei
la luce, non godrei appieno i colori dei
fiori. Se non avessi sofferto non potrei
aprire il cuore alla speranza, non sarei
felice di essere zingaro. Se non fossi
stato senza amore non sentirei così
forte la gioia di un abbraccio, la
potenza di un respiro, l’intensità di una
carezza. Se non fossi stato calpestato
proprio perché zingaro … non sarei
felice d’essere un uomo zingaro”.
(SPATZO, LACIO DROM, 1988)
1. Equivalenze imperfette
Con l’espressione equivalenze imperfette suggerisco la necessità di qualificare-
squalificare il valore di certe associazioni, che costringono la conoscenza in categorie
di utilizzo irrigidite dalla forza con cui certi legami semantici persistono. L’effetto di
questa sedimentazione coincide col negare il principio di definizione della
conoscenza stessa. Quest’ultima, infatti, piuttosto che costituirsi in senso statico, è
più funzionalmente rappresentabile nei termini di un processo: essa cioè emerge
dall’assemblaggio spontaneo o indotto di elementi nuovi che, retroagendo su quelli
già acquisiti, depongono a favore di configurazioni sempre diverse. Questa
flessibilità concettuale giustificherebbe la nostra disponibilità ad apprendere, a
contrattare, a rivisitare pensieri, giudizi e motivazioni che, in ultima istanza, ispirano
le nostre condotte e i nostri comportamenti.
L’idea non è quella di affermare un relativismo tout court che precarizzi ogni
acquisizione, s’intende per lo più esaltare le potenzialità trasformative della
conoscenza, senza tra l’altro doverle applicare per ogni nozione. Anzi, nel campo
delle scienze, la verifica di un’ipotesi non ammette dubbio (la conoscenza tecnica è
di questo tipo), ma è chiaro che non tutti i costrutti sono operazionalizzabili, e
perciò ci affidiamo ad indicatori meno attendibili come l’esperienza e l’intuito per
costruzioni solo probabili.
Queste costruzioni giacciono in categorie di senso generalmente permeabili, in
2
grado cioè di assorbire ed espellere elementi, che tuttavia possono irrigidirsi e
persistere nel tempo, ma che continuano a funzionare come mediatoti tra ciò che è
esterno (la realtà per come si manifesta) e ciò che è interno (la realtà per come viene
rappresentata).
La rigidità può essere concettualizzata in due modi: o nel senso di una chiusura, cioè
di una disattivazione completa dei filtri che regolano il passaggio interno-esterno, o
nel senso di un’apertura parziale, cioè selettiva rispetto a quegli elementi della realtà
che se assimilati sono corroboranti rispetto a quelli preesistenti. Queste categorie di
pensiero tendono cioè ad autovalidarsi mediante il rinforzo dei legami semantici che
contengono, e a partire dai quali si costituiscono. Questi ultimi, così rigidamente
fissati, si irrobustiscono nel tempo consentendo alla categoria in questione di
sviluppare una resistenza sempre crescente.
Un esempio altamente rappresentativo di categorie chiuse o semi-aperte è dato dalle
categorie a carattere ideologico. In esse, i nessi tra idee, simboli e istituzioni sono
così fortemente saldi da rendere assai remota la possibilità di una destrutturazione
per la categoria in questione. Così, ad esempio, un consumatore abituale e convinto
di cannabis utilizzerà sempre la stessa categoria di pensiero per riferirsi alla sostanza,
e si muoverà lungo la linea di associazioni che essa prevede (cannabis-fumo-
rilassamento-concentrazione etc), estromettendo altre informazioni non funzionali
(come ad esempio l’effetto che il consumo cronico può avere ha sull’esordio di
disturbi dell’umore), che non faranno mai ingresso in quella categoria tanto più essa
sarà resistente. Si tratta di riconoscere autorità ad un generale principio di economia
che opera nel senso di una riduzione dei costi e di una massimizzazione di benefici,
e che giustifica la tendenza a rafforzare strutture piuttosto che a decostruirle per poi
ristrutturarle.
A questo punto ci si potrebbe domandare perché, sebbene stabilizzate, certe
equivalenze risultino imperfette. G. Simmel ha fornito una rappresentazione della
vita come di un fluire incessante che può essere colto attraverso la produzione di
1
forme in cui essa si fissa e attraverso cui può essere contenuta. Le forme della
comprensione sono tuttavia al contempo sia espressione sia mortificazione della vita
stessa, poiché essa è così incessantemente fluida che finisce per strabordare dalle
stesse forme che la contengono. Il portato della vita supera la capacità contenitiva
delle forme, costringendole a superarsi nella misura in cui, per contenere la vita esse
finiscono per ridurre la vita stessa, cioè sono costrette a riconfigurarsi ogni volta nel
tentativo di afferrarla. In queste condizioni, un sapere esaustivo è impossibile, tale
pretesa si rivelerebbe un’illusione.
Mutuando da Simmel l’idea di un’incommensurabilità della conoscenza rispetto al
pensiero, che è continuamente in tensione verso di essa e che implica una
trasformazione continua delle categorie che utilizza, si ha una visione chiara
dell’imperfezione eterna che affligge la conoscenza. Se poi questa si esprime
1
Le forme esistono per Simmel come un a priori della conoscenza, e coincidono con i simboli, le
categorie e le raffigurazioni che utilizziamo per comprendere la vita. La sociologia è per Simmel lo
studio delle forme della sociazione cioè delle “forme che assumono le relazioni di influenza reciproca
tra gli esseri umani. La società stessa non è che il prodotto di queste interrelazioni”. F. Crespi et Alt;
La sociologia. Contesti storici e modelli culturali, Laterza, Roma-Bari 2002, p. 155.
3
attraverso categorie rigide, cioè attraverso le associazioni e le equivalenze in cui esse
consistono perdendo il suo orientamento naturale alla trasformazione, allora
risulterà tanto più imperfetta perché incapace di modernizzarsi.
Il popolo rom è attualmente un terreno fertile per assistere ad un massiccio ricorso
di categorie rigide e al proliferare di equivalenze imperfette che da esse derivano, e
che in-formano la nostra conoscenza. Zingaro-nomade-mendicante sono unità
equipollenti di una catena imperfetta, e non perché ad esserlo siano i singoli termini,
ma perché essi versano indissolubilmente legati in una medesima area semantica che
risponde alla voce rom. Propongo di pensare a ciascun termine come ad una
categoria infinitesimale, in grado di rappresentare una conoscenza minimalista, cioè
posizionata ai vertici più bassi di una ramificazione strutturata con potenzialità
inestimabili di espansione. Le categorie infinitesimali hanno solo un’autonomia
linguistica, sono sprovviste di autonomia semantica e perciò gnoseolocicamente
inutilizzabili. Ciascuna di esse, tuttavia, presa singolarmente costituisce un centro
afferente ed efferente di concetti e rappresentazioni; cioè si inscrive in numerose
catene associative all’interno delle quali si sposta con estrema versatilità consentendo
l’attivazione delle vere categorie conoscitive. Adesso, termini come rom, zingaro e
nomade sono così strettamente apparentati nell’immaginario comune, che non
posso non denunciare sin da subito l’incestuosità di questa relazione; e non certo
per spirito di disfatta, quanto per un sentimento di giustizia: se la conoscenza è
inafferrabile in senso assoluto, essa è tuttavia sempre perseguibile. Questo significa
disporre di strumenti che ne riflettono la natura dinamica, significa restituire alle
categorie la memoria della loro flessibilità, per riabilitarle alla funzionalità
conoscitiva per cui esse nascono e dalla quale dipende il nostro modo di essere al
mondo.
1.2 Zingaro: una categoria compromessa
Riconoscere che a governare la conoscenza sia un principio di economia, significa
ammettere di ricorrere ad insiemi concettuali già noti per decodificare il nuovo. Così,
il riconoscimento degli zingari passa, come osserva Piasere, attraverso l’utilizzo di
una tassonomia etnica già in uso che, sebbene sfrutti denominazioni diverse, rivela
2
in tutti i casi, il tentativo di “neutralizzare l’anomalia” che caratterizzò gli zingari sin
dalla loro prima comparsa in Europa occidentale. E in effetti, il termine zingaro nasce
come nuova categoria linguistica dopo una serie di sforzi, evidentemente fallimentari, di
farli rientrare nell’allora ordinario sistema di classificazione dei popoli.
Il primo passo è dunque quello di riconoscere, che gli zingari nascono nel
laboratorio linguistico dei non zingari per organizzare il prodotto di una differenza
2
Piasere evidenziando come l’eteronimo zingaro fosse stato utilizzato per denominare un gruppo di
individui presso i quali si erano registrati comportamenti difformi a quelli della cultura dominante,
non riporta un caso particolare ma sembra confermare una tendenza generale. Gli studi
antropologici, infatti, mettono chiaramente in luce quanto sia diffuso far discendere la
denominazione di gruppi, popoli ed etnie da un’imposizione esterna, certificando come il rapporto
con l’alterità sottenda sempre ad un gioco di forze sbilanciato a favore del gruppo dominante. L.
Piasere, Un mondo di mondi. antropologia delle culture rom, L’ ancora, Napoli 1999, p. 37.
4