Considerazioni introduttive.
Le analisi economiche, confermate dal comune sentire, indicano la
presenza, in Italia, di un‟evasione fiscale macroscopica, cui
corrisponderebbero imposte annue per circa 120 miliardi di euro. Al di
là delle sue dimensioni quantitative, l‟evasione crea allarme sociale
perché non si distribuisce in modo omogeneo; tra i contribuenti
“segnalati al fisco” e gli altri, c‟è una sperequazione fiscale superiore
a quelle, tra nobili e borghesi, che portarono alla rivoluzione
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Francese. Nell‟ ancien regime la sperequazione aveva una
giustificazione politica mentre da noi, la causa sta nell‟insufficienza di
analisi giuridico-economiche.
La drammatizzazione della tassazione aziendale è il riflesso di una
falsa spiegazione dell‟evasione in termini di onestà e disonestà.
L‟equivoco è connesso alla mancata comprensione che le tasse
devono essere richieste da qualcuno, altrimenti non vengono pagate,
anche da chi per il resto crea reddito, presta servizi utili al suo
prossimo e alla convivenza sociale. Etichettarlo come un ladro perché
non paga tasse che nessuno gli richiede crea lacerazioni sociali a
catena, che paradossalmente giovano proprio all‟evasione e nuocciono
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al Paese.
Nelle scienze sociali, l‟opinione pubblica cerca sempre di spiegarsi in
qualche modo quello che ha sotto gli occhi, come ci ricordano i tempi
in cui le calamità naturali erano considerate un castigo degli Dei.
Essendo manifestamente percepibile nella società un profondo
squilibrio tra adempimento ed evasione, quest‟ultima è stata spiegata,
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Cfr. R. Lupi, Dalle persone alle cose»: crisi della progressivita`, impoverimento dei segnalati
e dichiarazioni patrimoniali, Dialoghi tributari n. 3/2010.
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Cfr. R. Lupi, Definizione dei verbali, sanzioni e teoria dell’evasione, Dialoghi tributari n.
2/2009.
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in mancanza di meglio, in modo moralistico. Si è quindi fatto
riferimento a generiche carenze di “senso civico” e di “onestà”, virtù
civiche di cui, chissà perché, alcune categorie sociali sarebbero ricche
ed altre inspiegabilmente povere. Si è diffusa quindi una spiegazione
antropologica dell‟evasore, di cui talvolta si parla come un untore di
manzoniana memoria. A questa concezione dell‟evasore, come un
deviante da “stanare”, contro cui organizzare lotte e cacce, hanno
contribuito anche organizzazioni sindacali che riunivano categorie,
come i lavoratori dipendenti, composte in massima parte di individui
impossibilitati ad evadere in quanto “segnalati al fisco”.
Queste spiegazioni moralistiche sono però inadeguate e
controproducenti rispetto all‟obiettivo da raggiungere. Il senso civico,
l‟onestà o la disonestà, si distribuiscono in modo equivalente nella
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società, senza settorializzarsi per categorie economiche.
Probabilmente i piccoli artigiani tedeschi evaderanno nei modi in cui
evadono i loro colleghi italiani, ma lo faranno in misura inferiore,
vista la proverbiale disciplina germanica; lo spirito di disciplina
sottostante non è però quello degli artigiani o dei birrai, ma quello dei
tedeschi rispetto a quello degli italiani. Il senso civico di una certa
collettività ha radici profonde nel passato e riguarda più gli storici, i
sociologi, i politici, che gli studiosi di diritto tributario, col loro
compito di misurare la capacità economica.
Non si può spiegare l‟evasione in termini di onestà e disonestà,
secondo le categorie concettuali elementari del «buono/no buono», o
con la nascita della categoria mediatica degli «evasori», paragonati ai
ladri anche da persone colte e autorevoli. Questo semplicismo trova
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Cfr. R. Lupi, Dalle persone alle cose»: crisi della progressivita`, impoverimento dei segnalati
e dichiarazioni patrimoniali, Dialoghi tributari n. 3/2010.
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sponde persino presso istituzioni pubbliche che dovrebbero
padroneggiare i fenomeni economici, e che definiscono gli «evasori» i
principali responsabili di una imprecisata «macelleria sociale». Più
che di macelleria bisognerebbe parlare di lacerazione sociale indotta
proprio dalla visione antropologica dell‟evasore come una specie di
novello untore. Di un perverso, di un sabotatore, come se fosse dedito
alla droga, all‟alcool, alla corruzione dei fanciulli o altri riprovevoli
passatempi. Punti di emersione di questo atteggiamento sono il
vecchio numero telefonico della Guardia di finanza dedicato alla
denuncia degli evasori fiscali, oppure siti internet privati con la
denuncia, in forma anonima, delle evasioni fiscali a cui si assiste.
Questa demonizzazione dell‟«evasore» è tipica dell‟attribuzione a
«figure malvagie» di tutti gli eventi che un gruppo sociale elementare
non capisce; ed il nostro gruppo sociale, purtroppo, in questa materia è
«elementare».
Come se questa demonizzazione rappresentasse una spiegazione
socialmente appagante, ma la realtà è differente. L‟opinione pubblica
si rende infatti conto che questi pretesi moderni untori svolgono
servizi utili, organizzano la convivenza sociale, si guadagnano la
ricchezza che evadono e non possono certo considerarsi in blocco
come sabotatori del bene comune. L‟opinione pubblica avverte che gli
«evasori» sono anche produttori di servizi utili nell‟organizzazione
sociale e nello sviluppo; magari in qualche programma televisivo gli
evasori sono definiti «ladri», ma la gente avverte la differenza tra
avere in casa un artigiano che sistema lo scaldabagno e non paga le
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tasse e uno scassinatore che si porta a casa l‟argenteria. Inoltre,
mettendosi nei loro panni, ha spesso l‟onestà intellettuale di
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Cfr. R. Lupi, Definizione dei verbali, sanzioni e teoria dell’evasione, Dialoghi tributari n.
2/2009.
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confessare a sé stessa che - a parti invertite - si comporterebbe nello
stesso modo; cosa che puntualmente fa quando gliene capita
l‟occasione, con un secondo lavoro in nero o con l‟affitto della casa al
mare.
Queste sensazioni opposte, provocano quindi una schizofrenia sociale
diffusa.
Questo stato d‟animo diventa anche uno strumento di polemica di
gruppi sociali contro altri.
L‟evasione fiscale, o meglio la «lotta all‟evasione», sembra una nuova
frontiera del generico populismo anticapitalistico di tanti anni fa,
superato, ma con cui la nostra società non ha mai fatto davvero i conti;
la mitologia dell‟«evasore-untore» è un legittimo strumento per le
organizzazioni che cercano di tenere insieme settori del gruppo
sociale, soprattutto lavoratori dipendenti a basso reddito. Non importa
se a scapito della coesione sociale nel suo insieme.
Anche nella convivenza sociale, ad ogni azione corrisponde una
reazione. Quindi le categorie in cui può esistere l‟evasione fiscale,
sentendosi sotto accusa, replicano adducendo inefficienza, sprechi e
clientelismo di una spesa pubblica eccessiva, rispetto ai servizi che
fornisce. Queste stesse categorie rilanciano valorizzando il ruolo di
categorie produttive. Ed in effetti hanno gioco facile a rilevare che è
preferibile l‟evasione in una società sviluppata piuttosto che un
egualitarismo burocratico, povero e depresso. Si alimenta così una
nuova contrapposizione sociale tra Stato e mercato, «burocrati» e
«produttori». Il corollario sono tutti i discorsi sull‟assenteismo, il
doppio lavoro e la piccola corruzione diffusa in apparati pubblici
inefficienti; i quali a causa di queste accuse spesso si sentono
autorizzati ad essere davvero inefficienti, sfruttando tutti i vantaggi del
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«posto» (pubblico), in termini di scambio di favori o peggio. In
quest‟accresciuta disgregazione sociale c‟è persino chi teorizza
l‟evasione come «legittima difesa» verso uno Stato invadente e
sprecone; come se «affamare la bestia» potesse spingere
l‟organizzazione pubblica verso una maggiore efficienza.
Dall‟evasione si arriva quindi ad un confusionario «tutti contro tutti»,
che lacera il nostro stesso tessuto sociale. Questi circoli viziosi
rappresentano forse la vera macelleria sociale innescata dall‟evasione,
e che provoca una metastasi di denigrazioni reciproche in vari settori
della società.
Molte lacerazioni tra categorie sociali si compattano contro le ruberie
dei politici, salvo poi chiedere favori al primo politico con cui hanno
occasione di avere un contatto.
Così come tutti i salmi finiscono in gloria, queste recriminazioni
incrociate finiscono per essere un gigantesco alibi, un pretesto
assolutorio, in quanto «c‟è sempre qualcuno peggiore».
Dilaga così la cultura del sospetto, nelle istituzioni, e verso le
istituzioni. Diventa paradossalmente imbarazzante la ricerca della
ricchezza nascosta, perchè la controparte si risente di essere sospettata
come un «evasore», quasi fosse la peggiore delle perversioni sociali.
Nasce anche l‟ansia da prestazione presso le istituzioni pubbliche che
dovrebbero trovare la ricchezza nascosta: se queste si sentono
investite di una santa crociata contro l‟evasione, e non del compito di
determinare serenamente la ricchezza, occorre verbalizzare qualcosa
di grosso a tutti i costi. Si ripiega quindi, per salvare le apparenze,
sull‟evasione interpretativa, relativa al regime giuridico del dichiarato.
Nasce l‟inferno della ricchezza palese, persino su quanto le aziende
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dichiarano, anziché su quello che nascondono. In un contesto
moralistico come questo le grandi aziende sono perdenti in partenza.
Se infatti la spiegazione di ogni evasione risiede nella bontà e nella
cattiveria, di certo le grandi aziende non potranno mai essere
considerate buone. La tempesta generata dalla mancata comprensione
sociale della tassazione aziendale si sfoga quindi sui moderni esattori
del Fisco. In questo modo si chiude il cerchio, con sollievo di chi può
nascondere la ricchezza all‟interno del capitalismo familiare, di
accertatori che più facilmente contestano il regime giuridico del
dichiarato e di consulenti che su questi rilievi costruiscono fatturati
senza paragoni in altri Paesi occidentali.
“Ne fanno le spese quanti non possono mentire, che sono pochi e non
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votano”. Però anche per questo le aziende italiane non crescono,
quelle estere si tengono lontane salvo il minimo indispensabile, i
diritti diventano favori, le recriminazioni sociali non si attenuano e la
tassazione aziendale rischia di scavarsi la fossa con le proprie mani.
Per arrestare il circolo vizioso bisogna parlare meno di «evasori», e
più di «evasione», in un quadro sereno, essendo consapevoli che tutto
dipende dalla diversa determinabilità della ricchezza. Perché la grande
azienda non è «buona» (onesta), ma solo rigida, e gli autonomi non
sono «cattivi» (disonesti), ma solo flessibili; neppure la vasta platea
del capitalismo familiare, con le proprie sottofatturazioni dei ricavi o
sovrafatturazioni dei costi, è «disonesta» o «malvagia»; è un pezzo di
Italia che lavora, produce, crea reddito e occupazione. E‟ una Italia
che si adegua, alla propria percezione dei controlli fiscali; dove la
serenità nella ricerca della ricchezza nascosta, dove non arrivano le
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Cfr. R. Lupi, Evasione fiscale, paradiso e inferno, IPSOA, 2008.
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Cfr. R. Lupi, Tassazione aziendale in cerca di identità, Dialoghi Tributari n. 2/2010.
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rigidità aziendali o dove i proprietari delle aziende mentono, è la
prima medicina per recuperare un minimo di coesione sociale. E per
recuperare una parte di quei cento miliardi di imposte evase che tutti
più o meno concordemente stimano. Il che tra l‟altro è un po‟ più
costruttivo e socialmente utile piuttosto che insultarci a vicenda.
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Primo Capitolo
I profili moralistici dell’evasione fiscale
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1.1. Spiegazioni moralistiche dell‟evasione fiscale.
Nelle scienze sociali, l‟opinione pubblica cerca sempre di spiegarsi in
qualche modo quello che ha sotto gli occhi, come ci ricordano i tempi
in cui le calamità naturali erano considerate un castigo degli Dei.
Essendo manifestamente percepibile nella società un profondo
squilibrio tra adempimento ed evasione, quest‟ultima è stata spiegata,
in mancanza di meglio, in modo moralistico. Si è quindi fatto
riferimento a generiche carenze di “senso civico” e di “onestà”, virtù
civiche di cui, chissà perché, alcune categorie sociali sarebbero ricche
ed altre inspiegabilmente povere. Si è diffusa quindi una spiegazione
“lombrosiana” dell‟evasore, di cui talvolta si parla come un untore di
manzoniana memoria. Questa spiegazione ha attecchito anche nel
mondo della politica, disorientata perchè certe volte bastano due
articoli di legge a portare miliardi nelle casse statali, mentre “grandi
manovre” antievasione, su cui si polemizza per mesi, restano senza
risultati. A questa concezione antropologica dell‟evasore, come un
deviante da “stanare”, contro cui organizzare lotte e cacce, hanno
contribuito anche organizzazioni sindacali che riunivano categorie,
come i lavoratori dipendenti, composte in massima parte di individui
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impossibilitati ad evadere in quanto “segnalati al fisco”.
Queste spiegazioni moralistiche sono però inadeguate e
controproducenti rispetto all‟obiettivo da raggiungere. Prima di tutto il
senso civico, l‟onestà o la disonestà, si distribuiscono in modo
equivalente nella società, senza settorializzarsi per categorie
economiche. Probabilmente i piccoli artigiani tedeschi evaderanno nei
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Cfr. R. Lupi, Dalle persone alle cose»: crisi della progressivita`, impoverimento dei segnalati
e dichiarazioni patrimoniali, Dialoghi tributari n. 3/2010.
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modi in cui evadono i loro colleghi italiani, ma lo faranno in misura
inferiore, vista la proverbiale disciplina germanica; lo spirito di
disciplina sottostante non è però quello degli artigiani o dei birrai, ma
quello dei tedeschi rispetto a quello degli italiani. Il senso civico di
una certa collettività ha radici profonde nel passato e riguarda più gli
storici, i sociologi, i politici o gli opinion makers degli studiosi di
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diritto tributario, col loro compito di misurare la capacità economica.
Mettendo su questo piano l‟analisi dell‟evasione, i giuristi sono
marginalizzati, tra osservazioni di senso comune, non diverse da
quelle dei politici e tecnicismi di dettaglio; questi ultimi relativi alle
“leggine” con cui, in ogni manovra finanziaria, si vorrebbe contrastare
l‟evasione senza capirne le ragioni “giuridiche”. Quest‟inadeguatezza
esplicativa spiega molta della disaffezione e dell‟indifferenza verso il
diritto tributario, nonostante l‟importanza della tassazione nella
società moderna.
E‟ difficile non disperdersi nei dettagli legislativi, e al tempo stesso
non divagare in considerazioni di senso comune o auspicare
genericamente maggiori controlli; servono invece categorie analitiche
per capire l‟evasione in termini giuridici (non legislativi), in relazione
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ai punti di emersione della capacità economica sottostante.
L‟impostazione moralistica, drammatizza il problema e
paradossalmente ne ostacola la soluzione. Prima di tutto si creano
lacerazioni e recriminazioni tra diverse categorie sociali, alcune delle
quali si proclamano oneste, mentre le altre sono accusate di evasione;
tali categorie differiscono in realtà solo per la diversa determinabilità
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Cfr. R. Lupi, Evasione fiscale e diversa rilevabilità della capacità economica, Rassegna
tributaria, n. 6/07, pp. 1649-1669.
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Cfr. P. RUSSO, vol. I. Parte generale, Giuffrè, Milano 2007.
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